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L’età della Reggenza e l’estetica di Du Bos

di Franco Fanizza

L’età che in Francia comprende il periodo della Reggenza, età che è stata spesso considerata quasi esclusivamente di decadenza in con-fronto con i tempi “gloriosi” del Re Sole, merita invece di essere me-glio valutata, soprattutto nel suo essere l’età del passaggio dalla “tà di corte” (cfr. N. Elias, La socie“tà di corte, Bologna 1980) alla socie-tà di “citsocie-tà” (cfr. J. Brewer, I piaceri dell’immaginazione, Roma 1999, in particolare la parte I, I contesti) e, com’è stato anche detto, alla «consumazione della cultura» (cfr. The consumption of culture, ed. by A. Bermingham and J. Brewer, London-New York 1995). Si pensi, tra l’altro, al significato appunto culturale, oltre che politico, di quello che subito dopo la morte di Luigi XIV fu uno dei primi atti pubblici com-piuti dal reggente Filippo d’Orléans, ossia il rientro della corte da Ver-sailles a Parigi. Si pensi più in particolare – per quel che qui c’importa sottolineare – alla crescente rilevanza che venne proprio in quest’età acquisendo un nuovo genere di sensibilità: una sensibilità, vale a dire, che mostrò via via di aver sempre meno a che fare con le precedenti modalità classicistiche, proprie e tipiche della cosiddetta “Grande Ma-nière”. Delle caratteristiche di tal nuovo genere di sensibilità, Jean Sta-robinski ha detto giustamente che esse segnalano una condizione di «felicità sensibile» (cfr. La scoperta della libertà, Genève 1954). E ha ulteriormente specificato che una simile condizione si sarebbe concre-tizzata in uno stato psicologico, nel quale, «tutta presa dalla sensazio-ne», dunque sempre più autonomamente rispetto al «discernimento razionale», «l’esistenza si dà alla successione discontinua dei godimenti sensibili» (cit., p. 54).

Come peraltro è facile dedurre da quanto si trova documentato soprattutto dalla Querelle des Anciens et des Modernes, tenuto conto in particolare di ciò che vi si trova affermato da qualche sostenitore del-l’Antico nella sua critica del “Nuovo” (cfr. ad esempio, Rémond de Saint-Mard: «Il nuovo […] c’incanta e ci seduce così bene con le sue attrattive, affascina a tal punto, […] che noi non vediamo ciò che esso ha di vizioso, visto che esso è coperto da qualcosa di piacevole»)

(Deu-xième lettre sur les causes de la décadence du goût, in Querelle des An-ciens et des Modernes, Paris 2001, p. 754, trad. di F. Fanizza) – non va

certo considerato di minore importanza anche il fatto che appunto il progressivo imporsi di un tal genere di sensibilità non ebbe a riguar-dare soltanto un’élite di isolati cultori di beaux-arts. Sembra proprio, invece, che abbia ben presto cominciato a coinvolgere anche quei mol-ti o molmol-tissimi, i quali, a prescindere dalle competenze effetmol-tivamente possedute, non solo si trasformarono in abituali consumatori di pro-dotti artistici d’ogni tipo, ma si trovarono altresì a rappresentare, con ciò stesso, coloro dai quali in misura crescente finivano col dipende-re tanto la formazione quanto la gestione delle conseguenti opinioni e preferenze estetiche prevalenti. Non solamente, infatti, per quanto ri-guardava le idee sulle arti, si era giunti alla fase di un ormai genera-lizzato passaggio, come ha sostenuto il Fumaroli già per il Seicento, «dal monopolio degli artisti a quello degli spettatori» (cfr. M. Fuma-roli, Rome 1630: entrée en scène du spectateur, in Roma 1630. Il trionfo

del pennello, Roma 1994). E si era passati, per questo, dallo studio dei

dettagli tecnici degli oggetti d’arte all’interesse per la “gioia” ch’essi dovevano o potevano produrre. Ma ci si trovava anche e soprattutto di fronte a un nuovo genere di “art de jouir”, a un’identità profonda-mente rinnovata dello “spettatore”, considerando soprattutto che ai residui rappresentanti del vecchio ceto aristocratico che aveva in gene-re praticato razionalisticamente il proprio “amogene-re dell’arte”, stavano man mano sostituendosi altri fruitori d’arte socialmente differenti, si-curamente non allo stesso modo né predisposti né preparati. Facendo molto spesso a meno di qualsiasi “educazione” e relativa “misura” estetica, molto più attratti da ciò che risultava più “piccante” che bel-lo, tali nuovi fruitori si distinguevano per il fatto che nella loro doman-da di artisticità reclamavano prima di tutto il diritto di appellarsi alle piacevolezze, diciamo così, del vissuto quotidiano. Si può anzi sostene-re che mai, come invece stava appunto avvenendo in questo periodo, era accaduto che il comportamento estetico, dando luogo a quella che Daniel Roche descriverebbe come una vera e propria “estetica socia-le” (cfr. Storia delle cose banali, Roma 1999, in particolare il cap. VIII), s’era trovato a far riferimento, non già a un generico ideale di “Arte”, bensì a ciò che risultava esteticamente connotato o connotabile in con-crete e ogni volta circostanziate interrelazioni tra le persone e le cose. Peraltro, tale stesso comportamento, va riportato al gioco della do-manda e dell’offerta di quelli che vanno considerati come i «beni del lusso popolare» (cfr. C. Fairchilds, The production and marketing of

populuxe goods in eighteenth-century Paris, in Consumption and the World of Goods, ed. by J. Brewer and R. Porter, London-New York

1994, pp. 228-48).

Per la verità, occorre prendere atto che nell’età a cui ci si sta qui riferendo sono pochi i “teorici”, i cui argomenti riescono a liberarsi delle tesi delle vecchie estetiche di estrazione accademica. Basti

pensa-re a un’opera come il Traité du Beau (1715) del Crousaz. Ma ciò nulla toglie al fatto che man mano che si fanno più frequenti ed evidenti i segni della crisi dell’Ancien Régime, tende contemporaneamente ad attenuarsi, rischiando persino di scomparire, la differenza tra un’este-tica “alta” e un’esteun’este-tica “bassa”, e s’afferma invece, più unitariamente, un’estetica che si identifica al limite con una vera e propria cultura del corpo, o anzi, per meglio dire, del «vissuto corporeo» (cfr. D Roche,

Il popolo di Parigi, Bologna 2000, parte II, Insediamento e consumo).

Una cultura, che perciò, se da un lato, a un certo elevato livello di ceto sociale continuerà a compiacersi del e nel rapporto tra disponibi-lità finanziarie e ricerca del fasto (cfr. Ph. Perrot, Le luxe, une richesse

entre faste et confort, XVIIIe-XIXe siècles, Paris 1995), include anche,

però, tutte le manifestazioni consentite a un gusto più diffuso e più legato a un mondo di «cose banali» (Roche). Un gusto, in altri termi-ni, che non riesce più, come si faceva una volta, a fare una netta di-stinzione tra le beaux-arts e le arts-agréables (cfr. J. Jones, Sexing la

mode, Oxford-New York 2004).

Tutto questo, d’altronde, si trova sostanzialmente già detto nelle pagine della “favola delle api” di Bernard de Mandeville. È stato infatti il Mandeville che entro il primo quindicennio del Settecento, riferen-dosi a una nazione nella quale si fosse voluta evitare l’indigenza dei suoi abitanti, pur sapendo di fare così l’apologia della frode e del vi-zio, propose appunto una vera e propria, oltremodo libera e spregiu-dicata cultura estetica, l’unica cultura valida, a suo giudizio, per «l’uo-mo «l’uo-mondano, voluttuoso ed ambizioso» (cfr. La favola delle api, To-rino 1961, p. 148), che perciò fosse «tutto preso ad eccitare e soddi-sfare i suoi appetiti» (ib.). È questo tipo d’uomo, egli sosteneva, che sceglie le arti per farsene soprattutto oggetto di godimento. Persino quando si tratta di «cose di poco conto». Specialmente allorché il suo gusto e la sua fantasia hanno la possibilità di esprimersi nelle grandi città, «dove la gente oscura può, a ogni momento, avere occasione di conoscere nuove persone e può avere quindi il piacere di essere giu-dicata non per quel che realmente è, ma per quel che appare» (p. 126). È il caso di aggiungere, a questo punto, che proprio in una gran-de città com’era Parigi, da un lato, in quest’età, erano in fase di pro-fondo cambiamento i “luoghi dell’arte” e dunque gli scenari, per così dire, della cultura estetica, e dall’altro, complementarmente, stavano assumendo un’identità via via più netta alcune nuove e caratteristiche figure di veri o sedicenti “esperti”, che si mettevano a disposizione per far sì che i frutti di tale stessa cultura riuscissero ad arrivare a un pub-blico sempre più numeroso.

Sotto il primo aspetto delle cose, ciò che va messo più particolar-mente in evidenza – tenuto conto, peraltro, dell’esistenza di un merca-to d’arte che si rivolgeva soprattutmerca-to ai “nuovi ricchi” – è il

determi-narsi della crisi ormai irreversibile delle grandi, tradizionali gallerie d’arte nobiliari, e l’affermarsi, invece, di tutti quegli altri posti, dove letterati, magistrati, filosofi e “femmes savantes” hanno modo di met-tersi in evidenza e di far sentire la propria voce. Più che nelle vecchie gallerie, infatti, è in posti come i cabinets d’art privati o come i cosid-detti coffee-hauses che si apprende l’«aesthetic behavior» (cfr. L. Shi-ner, The Invention of Art. A cultural History, Chicago and London 2001, p. 133 e ss.). È lì, inoltre, che non solamente viene praticato l’esercizio della «visual attitude», ma c’è il modo che siano anche coin-volti i sensi più “volgari” e per così dire meno “depurati”. Anzi, non è forse solo per caso che non sia ancora comparso alcun sistematico lavoro, appunto di “depurazione”, ciò che in sostanza finirà per l’aver-si soltanto con l’Estetica del Baumgarten, che serva a liberare la rice-zione estetica dalle sue componenti, diciamo così, più sensuali. Il fatto è che il comportamento estetico, anche quando riguarda soltanto il vedere o l’ascoltare, è ancora fortemente intriso di quelle sensazioni assai corpose, che nell’ambito di un consumo d’arte più o meno “vi-stoso”, si collocano al di qua della distinzione tra l’uso del buon gu-sto e quello del cattivo gugu-sto, e che nella Francia di inizio Settecento furono sicuramente abituali per quella che è stata definita una «boo-rish middle class» (cfr. Shiner, cit., p. 140), ovverosia un’«ineducata classe media».

Per quanto poi riguarda la posizione assunta da coloro che si tro-vano a svolgere il ruolo di più diretti competenti, per dir così, della nuova sensibilità che andava appunto diffondendosi tra la classe me-dia, e, tra di loro, in particolare, coloro che furono considerati come altrettanti “connoisseurs”, si sarebbe autorizzati a pensare, stando a quanto fa intendere il Voltaire nel suo Tempio del gusto, che essi, in-vece di procedere al loro disciplinamento, sono più che altro molto compiacenti verso le preferenze di chi li consultava. Il fatto è che con la fine dell’Ancien Régime e col contemporaneo, irreversibile aggravar-si della criaggravar-si dell’ortodosaggravar-sia estetica che quel regime aveva stabilito, non esiste più un’autorità centrale che decida su ciò che è valido e su ciò che non lo è. Sulla pittura, tra l’altro, che era stata il campo o il settore d’arte sul quale forse quell’autorità s’era fatta più sentire, la comparsa delle tesi contenute sia pure in un piccolo libro qual è il

Cours de peinture par principes (1708) di Roger de Piles, testimonia di

un modo di “sentire” in maniera assai diversa da come nel Grand

Siè-cle sentivano, tanto, mettiamo, i protagonisti delle Conférences e degli Entretiens del Félibien quanto il Le Brun come autore di una nota

opera sull’«expression des passions». Come infatti ha fatto notare Jac-ques Thuillier, tanto più dovrebbe essere chiaro che il De Piles è un innovatore, quanto più è evidente che egli ha rotto con i generi pitto-rici considerati in precedenza canonici. Per lui i problemi dell’arte

pit-torica vanno totalmente liberati dai loro effetti letterari e dai pretesti dell’erudizione e della storia (cfr. Préface a Roger de Piles, Cours de

peinture par principes, Paris 1989, p. IV).

È logico, inoltre, che così venga a mancare l’unità di uno “sguar-do assolutistico” – l’«absolutist gaze» di cui parla la Jones (cfr. cit., p. 211) – e tutto si frammenti e si disperda in una molteplicità di “punti di vista” male o per nulla collegati tra di loro. È perfettamente spiega-bile, altresì, che si determini ciò che non è azzardato intendere come la “femminilizzazione” dell’estetica. Se infatti la grande arte del prece-dente periodo storico, dalle arti figurative all’architettura, dalla lette-ratura al teatro, aveva richiesto e trovato, nei propri fruitori, la predi-sposizione alla ricezione di valori tipicamente maschili, tra cui in pri-mo luogo la gloria e l’onore, ora che subentrano le “piccole arti” che privilegiano l’interesse prima di tutto per l’abbigliamento e l’arreda-mento, è invece il momento in cui s’affermano valori altrettanto tipi-camente femminili. Grazie, soprattutto, alle “borghesi”, che, com’è nel caso tipico della Pompadour, arriveranno persino ai vertici del potere, e si finirà così coll’assistere alla definitiva affermazione di quel régne

du Tendre, le cui prime manifestazioni già risalgono, come si sa, alla

seconda metà del secolo precedente.

Dopo aver rilevato tutto questo, non è difficile dire che le

Réfle-xions dubosiane, ancor prima che si consideri il successo da loro via

via ottenuto durante l’avanzato Settecento nell’ambito della cultura estetica europea (cfr. A. Lombard, L’abbé Du Bos. Un imitiateur de la

pensée moderne (1913), Slatkine Reprints, Genève 1969, livre II), van-no considerate come un documento storico assolutamente affidabile sull’estetica francese che andò affermandosi nell’età della Reggenza. Va infatti preso atto che malgrado si sia schierato dalla parte degli “An-tichi” (cfr. Réflexions critiques sur la poesie et sur la peinture, A Paris, chez Pissot, MDCCLXX; Slatkine Reprints, Genève 1967, sections 33 à 39; trad. it. Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, Aesthetica, Palermo, 2005, pp. 122-61), coerentemente, d’altronde, con la sua pro-pria formazione umanistica, ciò non toglie, però, che il Du Bos è pri-ma di tutto colui nel quale, più che in qualsiasi altro, si trovano altresì registrati i profondi mutamenti nella sensibilità del suo tempo: muta-menti, e anzi, veri e propri sommovimuta-menti, che sono patiti, ma che sono anche ben accolti, un po’ da tutti i suoi connazionali, durante il primo ventennio del XVIII secolo. Si tratta di non sottovalutare il fat-to che quando le Réflexions compaiono, nel 1719, la Francia attraversa un periodo particolarmente caratterizzato, non soltanto dalla cosiddet-ta “invenzione del denaro” (cfr., ad esempio, J. Gleeson, L’uomo che

inventò il denaro. La vera storia di John Law, Milano 2000), come

ideolo-gia del “progresso”, che portava a mettere via via in ombra la fede in quella che Fénelon, nel suo Traité de l’existence de Dieux (1713), chia-mava «la verité [de] ma raison [qui] est en moi». Inoltre, per quel che riguarda le più dirette esperienze di carattere estetico, peraltro social-mente e psicologicasocial-mente sempre più rilevanti, occorre aggiungere che ci si trovava a vivere in un periodo in cui le libere e spesso spregiudi-cate “conversazioni” in merito, che animavano a Parigi preferibilmente i salotti femminili (cfr. B. Craveri, La civiltà della conversazione, Mila-no 2001) e dove «i mots, le battute […] riassumoMila-no in modo pertinen-te un pensiero espertinen-temporaneo, […] divertono l’immaginazione, contri-buiscono a produrre quell’ebbrezza leggera senza la quale non esiste conversazione» (cfr. M. Fumaroli, Il salotto, l’accademia, la lingua, Mi-lano 2001, p. 187), rendevano quasi del tutto inattuali, nonché inevi-tabilmente noiose, le tradizionali riunioni che dall’epoca del Colbert in poi s’erano invece svolte, e in maniera assai ristretta, nelle sedi delle varie accademie.

Non è un caso, d’altronde, che proprio dal bisogno di sfuggire al-l’«ennui», vale a dire a quella passiva e penosa condizione di “languo-re” dell’anima e del corpo, che sin dai tempi del La Rochefoucauld, sembra aver sostituito l’“umor nero” della melanconia nell’esistenza dei francesi, il Du Bos prenda le mosse nella sua opera per arrivare a indicare negli effetti quasi psicologicamente terapeutici della poesia, della pittura, della musica, i mezzi e i modi per “eccitare” le passioni. Passioni, egli subito specifica, che sono sì «artificiali», che cioè, non avendo un «oggetto reale», non provocano gli «inconvenienti delle emozioni serie», che sono insomma soltanto «le imitazioni degli oggetti che suscitano in noi passioni vere» (Réflexions, parte I, sezione III, pp. 44-45) – ma che lo stesso Du Bos mostra di considerare, malgrado tut-to questut-to, non meno intense e trascinanti di quelle «naturali». Egli sembra così voler ignorare il principio, diciamo così, della “distanza estetica”. E anzi, parlando in particolare dei «giovani dediti alla lettura dei romanzi», egli afferma che essi «sono sottoposti a tormenti che causano afflizioni e desideri molto reali», tant’è che in tal caso proprio l’“emozione artificiale”, oltre a fomentare «nel cuore di un giovane, che legge romanzi con troppo piacere, i principî delle passioni naturali che sono già in lui» (ivi, p. 46), può far sì che in lui la “ragione” non possa più «dominare la loro immaginazione smarrita» (ib.). Analoga-mente, poi, in queste prime iniziali e fondamentali pagine della sua opera, egli rileva che non c’è niente di straordinario che dei semplici quadri, ovvero dei semplici «colori applicati su una tela possano desta-re in noi delle passioni» (p. 47). Se così non fosse, osserva tra l’altro, non sarebbe certamente mai accaduto che «coloro che hanno governa-to i popoli in ogni epoca hanno sempre fatgoverna-to uso delle immagini e delle statue per meglio ispirare i sentimenti che volevano suscitare, sia

in materia di religione sia di politica» (ib.). Il fatto è che, per Du Bos, «quando si medita sulla sensibilità naturale del cuore umano, sulla sua predisposizione a emozionarsi facilmente davanti a tutti gli oggetti imi-tati dai pittori e dai poeti, non ci si sorprende che i versi e gli stessi quadri possano turbarlo. La natura ha voluto dotarlo di una sensibilità pronta e sollecita, come principale fondamento della società. [...] La natura ci ha forgiati in modo tale che tutto ciò che si agita intorno ab-bia su di noi una grande influenza» (ivi, p. 48).

È allora più che mai evidente come appunto in nome della “Natu-ra” il Du Bos accorci, per così dire, più che gli era possibile, la tradi-zionale distinzione tra un’estetica “alta” e un’estetica “bassa”, sicché c’è semmai da chiedersi sino a che punto egli sia consapevole di essere il fautore di un’estetica che potrebbe venire intesa come un’estetica “media”. L’estetica ch’egli stesso, in vari luoghi della sua opera, tra i quali va sicuramente segnalata la fondamentale sezione XXII della Par-te seconda, assegna come propria a un pubblico che non comprende «il volgo», quello che doveva risultargli socialmente incontrollabile, bensì è quello composto soprattutto dalle persone «che hanno acqui-sito conoscenze, leggendo, o attraverso le relazioni sociali» (ivi, p. 298). Il pubblico, o, per meglio dire, i vari tipi di pubblico, che pur non possedendo in tutti i loro comportamenti, sempre e dovunque, le medesime oggettive possibilità di apprezzare ciò che i prodotti delle arti mettono a disposizione dei loro fruitori, tuttavia «conoscono gli spettacoli», vedono o per lo meno «sentono parlare di quadri», e che così hanno acquisito «quel criterio per giudicare chiamato gusto di

comparazione» (ib.). Egli non accetta che un pittore, un poeta, un

mu-sicista, solo per essere tali, possano avere il diritto «di ricusare chi non conosce la loro arte»: così come un chirurgo, egli dice, non ha il dirit-to di respingere la testimonianza di chi abbia subidirit-to un’operazione (ivi, p. 299). E poiché dunque egli sostiene che «ogni uomo deve dun-que poter dare il proprio consenso, quando si tratta di stabilire se i poemi o i quadri fanno l’effetto che devono produrre» (ib.), si può tranquillamente sostenere che anticipi, già agl’inizi del Settecento, la nota, successiva posizione assunta dal La Font de Saint-Yenne coll’af-fermazione che «chiunque ha il diritto di far valere il suo giudizio», giusto il «sentimento che sta alla base del gusto» (cfr. Riflessioni su

alcune cause dello stato presente della pittura in Francia, in Riflessioni e sentimenti sullo stato delle arti francesi, a cura di F. Fanizza, Bari

2002, pp. 68-69).

Importa relativamente meno, a questo punto, osservare come lo stesso Du Bos sia dell’opinione che «quando si tratta del merito dei