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e di prevedere il futuro di Arnaldo Cecchini*

Nel documento /  STUDI STORICI (pagine 145-181)

Non sono uno storico e neppure un sociologo. Insegno Tecnica e pianificazio-ne urbanistica, ma non sono pianificazio-neppure un urbanista: di formaziopianificazio-ne sono un fisi-co, ma ho smesso di esserlo subito dopo la laurea. Il mio mestiere sta a cavallo tra le tecniche e le interpretazioni, tra i metodi quantitativi e quelli qualitativi, fra i modelli e la comunicazione; il tutto nell’idea che bisogna governare la città, perché la città è – nel suo insieme – un bene comune (anche se molte cose della città possono e debbono essere “merci”, così non è per la città nel suo insieme; e la stessa cosa succede per molte altre cose in molti altri campi) e che a gover-narla debbono essere i cittadini (non per capirci i “portatori di interesse” o i percettori di rendite).

Poi mi occupo di giochi, in generale – come deve essere – per divertimento e, qualche volta, come è possibile, in quanto essi sono una “tecnologia educativa”.

Governare la città è difficile, ha molte implicazioni e oggi avviene in modo diverso da ieri, soprattutto per quanto riguarda la progettazione e la pianifica-zione del suo futuro.

È quasi ovvio parlare delle trasformazioni radicali che, insieme con i rife-rimenti epistemologici, i modi di organizzarsi della società e conseguente-mente le pratiche di pianificazione, hanno coinvolto anche i modelli e le tec-niche, in primo luogo le tecniche di previsione. Le tecniche di previsione sono essenziali per il governo della città sia nell’analisi, sia nella progettazione, sia nella valutazione.

Le trasformazioni che coinvolgono il governo del territorio Esse sono principalmente tre.

In primo luogo è divenuta meno rilevante, quasi svanendo nell’aria, la di-stinzione fra strumenti quantitativi e qualitativi o potremmo meglio dire fra stru-menti hard e soft di approccio alle trasformazioni del territorio.

Si è messo poi anche in discussione il carattere procedurale degli approcci, che vedeva in successione le fasi di conoscenza e azione, di analisi e progetto, co-me se fosse possibile trovare senza sapere dove cercare e cercare senza sapere quel che si vuole e può trovare.

Infine, e soprattutto, è cambiato il concetto di previsione, un cambiamento che non è la presa d’atto o l’accettazione dell’impossibilità di costruire futuri de-siderati (che sarebbe semplicemente la fine del progetto), ma la consapevolezza della necessità di operare sui futuri possibili e sugli scenari che li descrivono.

In sostanza non è mutata la necessità di governare i processi, di utilizzare un piano, di definire vincoli e norme, ma è mutata l’idea che ciò possa avvenire per volontà demiurgica del decisore (politico o tecnico è quasi lo stesso): le trasfor-mazioni, la definizione di visioni e obiettivi comuni, la costruzione del bene co-mune hanno bisogno di un processo di scelta “partecipato” che si accompagni alla realizzazione (decisione e implementazione non possono essere separate nep-pure concettualmente o funzionalmente) e alla gestione dei progetti (decisione e valutazione).

Altri mutamenti sono quelli indotti dall’evoluzione tecnologica, rapida e im-prevedibile, degli ultimi decenni; un’evoluzione che ha avuto più agenti e più cause: le spinte del mercato, la creatività e la costruzione collettiva delle cono-scenze operata spontaneamente da milioni di persone, i comportamenti e i bi-sogni individuali, le “astuzie della storia”; un’evoluzione che riguarda il territo-rio e il governo delle sue trasformazioni in molti sensi: dalla modifica del con-cetto di contiguità spaziale, alla ricchezza e versatilità degli strumenti informati-vi (la validità e l’affidabilità degli strumenti informatiinformati-vi diinformati-viene un problema cen-trale), alla possibilità, attraverso tecniche e modelli estremamente raffinati e fles-sibili, di tener conto della complessità dei sistemi spaziali e allo stesso tempo di leggerne e ricomporne i singoli frammenti (complessità e frammento come due aspetti inscindibili nella progettazione).

Saper leggere, descrivere, interpretare, orientare e governare queste trasfor-mazioni radicali della città, del territorio e dell’ambiente, all’interno dell’obiet-tivo di fondo di uno sviluppo che garantisca equità, sostenibilità, diritti è il com-pito e la sfida che dobbiamo porci, ciascuno di noi dal proprio punto di vista.

Uso la parola sviluppo con prudenza, ma con convinzione e in qualche mo-do la associo alla parola progresso. Infatti, se è assurmo-do confondere lo svolgersi della storia con il progresso (cioè come un oggettivo “tendere a…”) è altrettan-to assurdo pensare che l’azione deliberata degli esseri umani non debba invece puntare al progresso e – tutto sommato – non è impossibile definire cosa sia il progresso. Ad esempio, un egregio lavoro in questa direzione, che sembra qua-si sconosciuto al mondo della politica, in particolare in Italia, pur essendo a mol-ti molto noto, è quello svolto a questo proposito dall’United Namol-tion Develop-ment Program (UNDP) con l’Indice dello sviluppo umano (ISUoHDI), con l’In-dice di libertà umana (ILUoHFI) e con l’Indice di libertà politica (ILPoPFI); di grande interesse si può considerare anche il lavoro di Clifford Cobb sul GPI (Ge-nuine Progress Index)che considera le perdite dovute all’inquinamento. Questi indici possono poi essere affiancati da una misura delle ineguaglianze come l’In- A R N A L D O C E C C H I N I

dice di Gini o della pressione sull’ambiente come l’Impronta ecologica. È chia-ro che scegliere l’uno o l’altchia-ro di questi indicatori non è indifferente, implica una scelta politica ed etica. Come vedremo, però, “misurare non basta”. Misurare non è un cattivo inizio per definire le questioni, perché alla fine “misurare si de-ve”. In ogni caso, è noto a quasi tutti gli economisti che non c’è solo la crescita delPILa misurare lo sviluppo di un paese, anzi è noto che – in molti casi – que-sta può essere una misura distorta.

Invece di progresso (che pare in qualche misura indicare che vi è una sola di-rezione data), a me piace usare il più perspicuo termine sviluppo (un termine che lascia aperte molte possibilità, ma non tutte), precisando che non confondo in nessun modo il termine sviluppo con il termine crescita. Mi piace la parola svi-luppo anche etimologicamente, infatti questo termine ha una connotazione mol-to positiva e felice, vuol dire “sciogliere dai vincoli” e dunque ha un legame stret-to con il significastret-to della parola libertà. Tuttavia, se è vero che nell’uso corrente si tende a sovrapporre sviluppo e crescita (economica), così non è in linea di prin-cipio e di fatto.

Svilupparsi è in genere una cosa positiva (non sempre e comunque e non in tutte le accezioni, visto che nella lingua reale una certa ambiguità e polisemia so-no inevitabili).

Crescita è un termine molto più neutro, ha connotazioni a volte positive, a volte negative, a volte indifferenti: non si può assumerlo come desiderabile di per sé e comunque; come nota Latouche: «Al di fuori dell’immaginario econo-mico è impossibile porre come un assioma che più è necessariamente meglio».

Lo sviluppo, pur auspicabile, non è comunque indolore né gratuito. Può es-sere – come ogni attività – solo parzialmente sostenibile. La città – ad esempio – non è mai stata sostenibile in nessuno dei sensi in cui questa espressione è usata, in particolare se si pensa all’accezione che Latouchedefinisce «eco-centrata»: anzi la città è il luogo della vita umana organizzata in cui la crescita dell’entropia è massima.

Sia la nascita che lo sviluppo della città sono sotto il segno dell’oppressione esterna, dello spreco, dell’inquinamento, in generale dell’esternalizzazione: – oppressione verso le campagne e verso le “colonie” estere; anche quando la “città” è democratica al suo interno tende a non esserlo verso l’esterno: oppres-sione tesa a estrarre surplus o a imporre consumi, comunque non all’insegna del rapporto equilibrato con le risorse;

– spreco per il ruolo centrale attribuito al “movimento” incessante, ai tra-sporti di persone, beni e prodotti da e verso la città e fra una città e l’altra e al-l’interno della città; il “movimento” è la condizione necessaria dell’esistenza del-la città;

– inquinamento per la densità e la concentrazione della popolazione e la di-mensione degli insediamenti e la conseguente entità dei rifiuti e delle scorie del-la produzione e del consumo;

– “consumo di ambiente” ed esternalizzazione perché fra tutte le forme inse-diative la città è quella che divora più energia e che produce maggiore entropia (fuori di essa).

Sostenibili (o meglio meno insostenibili) potrebbero essere altri tipi di inse-diamento, ma questa “sostenibilità” produrrebbe forme insediative orribili, co-me l’ecologicaco-mente perfetto e inumano mondo asimoviano di Solaria.

Volere la città significa fare i conti con una macchina, per molti versi meravi-gliosa, irrinunciabile (l’unico ambiente in cui l’uomo è una specie singolare, di-versa, unica), ma costosa e inefficiente. Si tratta di fare i conti con la città, dunque. Per la città il problema del limite è sempre esistito, ma forse ora, per la prima volta, assume dimensioni non solo locali e non solo per brevi periodi. La stra-grande maggioranza di esse, si è estinta per aver distrutto il suo ambiente, le con-dizioni per la propria sopravvivenza, per autofagia. Dunque, il rispetto di alcune soglie è stato sempre imprescindibile; al più la città che, per sua natura, ha sempre cercato di superare i limiti dell’ambiente circostante ne ha forzato le dimensioni con le conquiste, l’espansione territoriale e commerciale. Spesso però, non ci è riu-scita e ha divorato se stessa. Quasi mai ha saputo imporsi dei limiti, programmare il suo sviluppo, essere “sostenibile” anche solo rispetto a se stessa; i casi rari in cui ciò è avvenuto sono stati e rimangono esempi indimenticabili per il mondo.

Ma il limite della città, l’ambito della sua divorante famelicità era sino a ie-ri prevalentemente “locale”. I danni ambientali (diretti quantomeno) erano le-gati alla “prossimità”, alla contiguità spaziale. Infatti, una delle caratteristiche della città moderna è stata la rottura del “dogma” della contiguità spaziale, per quanto riguarda l’approvvigionamento e i mercati; mentre per la città con-temporanea si assiste alla rottura della contiguità spaziale ai fini della produ-zione. Negli ultimi decenni la crescita dell’urbanizzazione e l’aumento dei con-sumi urbani stanno determinando una globalizzazione anche degli effetti am-bientali, sia in termini di impatto momentaneo che di pressione stabile: non solo viene investito tutto il mondo attuale, ma viene “consumato” tutto il mon-do futuro.

Vero è che si può sempre sperare che lo sviluppo scientifico risolva molti pro-blemi, e per alcuni di essi succederà, ma non dimentichiamo che molte città si so-no estinte con il “proprio” ambiente e che nulla impedisce che la città “globale” con il «suo ambiente si estingua, prima che l’innovazione “salvifica” si produca». Ma è bene ribadire che la città è una straordinaria e costosa macchina di in-tegrazione e di esclusione, ma è l’habitat dell’essere umano, la sua vera nicchia ecologica: non vorrei vivere in un mondo senza città!

Dobbiamo guardare avanti, forse anche un po’ più in là di quel che possia-mo vedere, ma vivere non è per sempre, né per noi come individui, né per noi come specie, né per noi come animali terrestri, né per noi come esseri viventi dell’universo. Prima o poi moriremo, ciascuno di noi, la specie umana, gli ani-mali, le piante della terra e ogni forma di vita dell’universo. Ciascuno viva una vita degna e felice se può, per il resto, oltre un certo limite, “chi vivrà vedrà”.

Ma la nostra specie è, in questo senso, unica all’interno del processo evolu-tivo della vita sulla terra, nel senso che la sua “adattabilità” si esprime non solo attraverso l’evoluzione dei geni (un processo lento, indiretto, non finalizzato), ma soprattutto attraverso l’evoluzione dei suoi memi(un processo veloce, di-retto, finalizzato) e che il mancato allineamento fra questi due processi evoluti- A R N A L D O C E C C H I N I

vi può portare a conseguenze disastrose. La città, in particolare, i suoi centri sto-rici e la sua eredità culturale, sono i “magazzini” del pool “memetico”, il luogo in cui si addensa e si conserva, si plasma, si adatta e si trasforma (assieme e più delle biblioteche) l’insieme delle informazioni e dei codici che permettono alla specie umana di essere se stessa e di adattarsi all’ambiente. Anche per la nostra specie (forse più di altre) l’ambiente è il prodotto del mondo esterno e dell’au-toproduzione. La strategia di preservare questi magazzini, senza bloccarne lo scambio con l’esterno, la riproduzione e l’evoluzione, è al giorno d’oggi più im-prescindibile che mai: senza il ricorso a tutta la ricchezza del nostro pool “me-metico”, a tutta la sua varietà, difficilmente avverrà il processo di adattamento e di ricreazione dell’ambiente giusto – qui e ora – per la nostra specie.

Città sostenibile è, in primo luogo, quella che conserva il suo passato per po-tersi mantenere viva: viva in quanto città, tuttavia. Viva, cioè, con l’insieme del-le funzioni diverse che caratterizzano la città rispetto a qualsiasi altro tipo di co-munità e insediamento, viva con i suoi conflitti, la sua colloquialità, le sue inef-ficienze, i suoi sprechi, la sua relativa insostenibilità.

Viva perché – tuttavia – è in grado di essere relativamente sostenibile, cioè di garantire allo stesso tempo il suo presente, il suo passato e il suo futuro, se stessa e il suo ambiente, gestire i suoi limiti, come non tutte le città hanno sapu-to fare, come ha sapusapu-to Venezia per secoli.

La storia di Venezia è la storia di una città mirabile in equilibrio difficile in un ambiente delicato e precario, bisognoso di un massimo di intelligente artificialità, una città con un interessante modello di governo capace di assicurare benessere e stabilità sociale, “serenissima”, ma anche “imperiale” e a volte predatrice, che ha tuttavia avuto più da temere dal fuoco che dalle catastrofi pur incombenti delle ac-que; una città attiva, ma capace di governare ambiente, città, territorio e società.

Governare l’ambiente e la forma della città (urbs) è insieme saper far vivere e sviluppare la sua società (civitas): che dietro gli effetti drammatici delle cata-strofi naturali vi sia – come a New Orleans – il venir meno di «quella cosa che chiamiamo società», quella cosa reale che, secondo la più grande rivoluzionaria del passato millennio, «non esiste»?

La scomparsa possibile di Venezia come città – ormai alquanto vicina e pro-babile persino – sarà dovuta a entrambe queste spinte opposte: da un lato l’in-capacità di controllare e limitare la pressione della città sul suo ambiente (anche per incuria e disattenzione), dall’altro la perdita di funzioni sociali e di diversità, il dominio pieno e incontrollato su tutte le attività della monocultura del turi-smo, avida di risorse e insostenibile come tutte le monoculture, insaziabile nel divorare spazi e persone.

Diversità come condizione prima della sopravvivenza della città e insieme estensione e generalizzazione dei diritti, in primo luogo quello di cittadinanza, che coinvolge e implica il diritto all’abitare, il diritto alla casa.

Possiamo imparare dalla storia come le città siano sopravvissute e come sia-no morte e quali fattori abbiasia-no determinato gli esiti. Ma per trarre dalla sto-ria una buona lezione bisogna guardarsi – oggi come al tempo di Sir Francis Ba-con – dalla seduzione degli idola, che ci ingannano.

Gli idolae qualche spunto per curarsi .. Le fallacie dell’interpretazione dei fatti storici

Attraverso un rapido e un po’ provocatorio esame della modalità per mezzo del-la quale i programmatori contemporanei prendono le decisioni, o sostengono di prenderle, e del modo con cui i media “inventano” la storia, vogliamo trarre al-cune facili lezioni che – se bene utilizzate, come è del tutto improbabile – po-trebbero preservarci da grandi errori. Fra questi idola tribus moderni e postmo-derni esamineremo anche il dogma della continuità, la fallacia dell’estrapolazio-ne, l’assunto della retroattività dei principi morali, la pretesa dell’universalità, spa-ziale e temporale, dei comportamenti, l’oblio degli effetti controintuitivi, la sin-drome del defroqué, l’ipotesi dell’agire razionale, e tre querelles, quella riduzioni-smo versus oliriduzioni-smo, quella bottom-up versus top-down, quella quantitativo versus qualitativo e infine la fallacia del buon dottore.

Il dogma della continuità

«Il futuro non è né del tutto nostro, né del tutto non nostro, così non ci aspet-tiamo che assolutamente si avveri, né disperiamo come se assolutamente non si avveri», sostiene Epicuro nella Lettera sulla felicità a Meneceo.

La “fissazione epistemologica” sul dogma della continuità (per ottenere grossi effetti servono grosse cause) è responsabile di molti dei grandi errori del-le economie pianificate e dei disastrosi effetti dell’idea “organicistica” di piano, dimenticando che obiettivi grandi si raggiungono non con politiche grandi, ma con grandi politiche; infatti va ricordata la grande adattabilità, la capacità di man-tenere e costruire equilibri, la possibilità che anche molti sottosistemi sociali hanno di autopoiesi. In sostanza, un buon progettista interviene quando e dove è necessario, con la massima economia e sfruttando il più possibile le tendenze “naturali”, conoscendo il sistema e la sua “fisica” il più possibile e facendo il più possibile scelte “aperte” e reversibili.

Vi è un racconto di Stanislaw Lem nel quale si narra che, per evitare una guer-ra nucleare, le potenze che controllano l’universo, pur non mutando il corso de-gli eventi, “scatenano” una serie di effetti a partire da un’unica azione, minusco-la: la pubblicazione di un articolo scientifico su un’oscura rivista sovietica.

La fallacia dell’estrapolazione

Se i fabbricanti di vele dell’Ottocento avessero “estrapolato” i dati della produ-zione di velieri e di conseguenza avessero preso le decisioni relative ai loro inve-stimenti, avrebbero (come molti hanno) portato le loro imprese alla “catastrofe”: crescevano i trasporti via acqua, crescevano le navi e i passeggeri trasportati e mol-te navi a vapore esplodevano. Ma per ogni fenomeno ci sono molmol-te estrapolazio-ni possibili, molte variabili che stanno variando, molti parametri che si influenza- A R N A L D O C E C C H I N I

no: al tavolo verde della roulette il  verrà fuori con una frequenza di / non c’è dubbio, ma forse lo farà con una frequenza molto inferiore nel nostro tavolo, mol-to superiore nella roulette del tavolo vicino, o nel casinò vicino o in un altro più lontano o un’altra sera; e qui stiamo parlando già di una situazione ben definita, in cui le variabili in gioco sono note in cui le probabilità sono pertanto note: ep-pure non c’è modo di sapere se giocare “rosso” o “nero” al prossimo lancio.

L’assunto della retroattività dei principi morali

Non c’è dubbio che Jefferson fosse un po’ razzista e Voltaire antisemita; sappia-mo poi che Marx ha messo incinta la serva (sì, aveva una “serva”) e si faceva “co-prire” da Engels che ne assumeva la paternità per evitare il biasimo sociale “bor-ghese”; Einstein sfruttava le mogli e ha abbandonato una figlia; Simenon e Ken-nedy si facevano portare qualche prostituta ogni giorno e difficilmente Lewis Car-roll potrebbe sfuggire oggigiorno a un’accusa di pedofilia; del resto «nessun uo-mo è un grand’uouo-mo per il suo maggiordouo-mo» e in generale, come diceva Woody Allen, «nessuno potrebbe scommettere sullo stato delle proprie mutande».

Sono solo tedeschi i fondatori del razzismo “scientifico”? E l’eugenetica è stata prodotta dai nazisti? O non coinvolgerebbe stimati personaggi anche di si-nistra? Con qualche nobile socialdemocratico nordico tra essi?

I principi morali variano nel tempo e questa storia edificante che ciascun Maestro citerebbe con le lacrime agli occhi lo dimostra:

Euclide aveva appena finito di spiegare un teorema a un allievo, allorché quest’ultimo, un giovane piuttosto avido, volle sapere che cosa ne avrebbe ricavato. Il matematico al-lora si rivolse a uno schiavo, ordinando: «Dagli tre oboli, visto che deve assolutamente trarre profitto da ciò che ha imparato».

Storiella edificante, se non fosse che il grande Euclide non si vergognava di ave-re uno schiavo che lavorava per lui. È meno grande la lezione? È del tutto insi-gnificante che il grande Euclide fosse grande – anche – perché aveva a disposi-zione uno schiavo?

Due risposte, due no.

La pretesa dell’universalità, spaziale e temporale, dei comportamenti

Ogni cultura e ogni subcultura (anche quelle migliori e anche quelle peggiori) hanno comportamenti che qualche altra cultura giudica riprovevoli e pretende che riprovevoli vengano considerati. Un bel libro, forse troppo ardito e certa-mente datato, che si intitola Buono da mangiarelo dimostra con radicale sem-plicità nel caso di abitudini e tabù alimentari.

Nel documento /  STUDI STORICI (pagine 145-181)