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Storia e formazione dei cittadini di Alessandro Cavalli*

Nel documento /  STUDI STORICI (pagine 129-133)

È piuttosto sconcertante constatare come, alla fine della Seconda guerra mon-diale e alla caduta del fascismo, la riflessione pubblica sull’educazione alla citta-dinanza democratica sia stata tutto sommato assai poco approfondita. A parte alcune nobili e alte espressioni di coscienza civile e spirito democratico, ricordo il discorso di Calamandreiai giovani sulla Costituzione repubblicana, gli scritti sull’educazione civica di Alessandro Galante Garrone, e pochi altri, non vi era molta consapevolezza della necessità di costruire i presupposti culturali per una cittadinanza democratica. Era implicitamente diffusa una convinzione ottimisti-ca, le cui radici sono forse mazziniane, che i popoli – liberati dalla tirannide – tendono quasi naturalmente alla democrazia. La Resistenza aveva liberato il po-polo italiano dall’invasore straniero e dalla dittatura interna, il popo-polo stesso avrebbe quindi preso in mano democraticamente il proprio destino. Questa fi-ducia ingenua nella spontanea propensione ad abbracciare la democrazia ha im-pedito che si sviluppasse un’ampia riflessione pubblica sull’educazione civica.

Una visione più realistica della storia d’Italia, del carattere sostanzialmente elitario del Risorgimento, della debolezza della democrazia postunitaria, della crisi dei partiti e della democrazia parlamentare dopo la Prima guerra mondia-le, delle origini del fascismo e del sostegno popolare goduto dal regime, avreb-be consigliato una maggiore attenzione sulla necessità di formare cittadini de-mocratici. Avendo frequentato la scuola primaria e secondaria nel periodo im-mediatamente successivo alla fine della guerra, ho ricordi abbastanza precisi di come l’insegnamento della storia fosse ancora grondante di esaltazioni risorgi-mentali e di retorica patriottica e si concludesse con la celebrazione della “vit-toria” e la restituzione alla patria delle terre “irredente” di Trento e Trieste.

La cultura politica degli italiani non aveva ancora avuto modo di costruirsi sulla base di una robusta tradizione democratica e su una positiva e prolungata pratica della democrazia. A ciò si aggiunga il fatto che, ancora al censimento del , risultava che una consistente parte della popolazione era analfabeta o semi-analfabeta e quindi con difficoltà ad accedere alle fonti di informazione e al di-battito pubblico per poter compiere delle scelte ragionate.

Sopratutto, non sembrava – diremmo oggi – politicamente corretto ammet-tere e riconoscere che il fascismo aveva avuto un largo consenso di massa e che

quindi erano le masse che bisognava conquistare alla democrazia e non solo le frazioni di élite che avevano sostenuto il regime.

Assai diverso il modo come il problema fu affrontato nella Germania Fede-rale, un paese che era uscito da un’esperienza per alcuni aspetti simile, una for-ma di totalitarismo più breve nel tempo, for-ma assai più radicale e pervasiva del-l’esperienza del fascismo nostrano. Ben altro era stato l’impegno intellettuale e civile e la volontà di sradicare nella popolazione la pianta che era cresciuta sul terreno di un nazionalismo estremo con profonde radici razziste. In Germania ci si era posti realisticamente il problema di come formare le nuove generazioni alla democrazia in modo da allontanare per il futuro lo spettro di movimenti to-talitari di massa. Anche se oggi possiamo dire che il tentativo è riuscito solo in parte (e solo nella parte occidentale), tuttavia non si può negare che l’obiettivo fu perseguito con grande impegno e con un’ampia mobilitazione del meglio del-la cultura storica, filosofica e pedagogica.

In Italia, invece, la storia contemporanea è restata a lungo fuori dalle aule scolastiche. Vigeva una sorta di implicito divieto di parlare dei temi “controver-si” del fascismo, del comunismo, dell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dello Stato e anche della Resistenza. La “riconciliazione nazionale” è di fatto av-venuta in modo strisciante e non ufficiale attraverso l’oblio, o meglio, attraver-so la rimozione. Qualcosa di analogo è avvenuto, ma attraver-solo in parte, anche in Spa-gna dopo il passaggio alla democrazia. Le “guerre civili”, soprattutto se i prota-gonisti sono ancora in vita, sono i nodi più difficili da sciogliere in un insegna-mento della storia che voglia essere anche educazione alla cittadinanza. Per il semplice fatto che le “guerre civili” rappresentano una rottura della solidarietà nazionale, un attentato all’identità collettiva, marcano divisioni, indeboliscono quel sentimento del “noi” che l’educazione tende invece a rafforzare.

Nell’ultimo quarto di secolo le cose hanno incominciato a cambiare: solo i nonni dei giovani d’oggi hanno vissuto quelle fasi della storia. E, dopo la cadu-ta del Muro di Berlino, anche il tema del “comunismo” è divencadu-tato più abbor-dabile senza il rischio di ferire la suscettibilità di qualcuno e, soprattutto, senza il rischio di fare dell’insegnamento un pulpito dal quale combattere battaglie ideologiche.

Anche se nel nostro paese l’interpretazione della storia recente è ancora og-getto di controversie ideologico-politiche (la politica si fa più sul passato che sui programmi per il futuro), le condizioni per un uso “democratico” della storia contemporanea sono migliorate.

Cosa intendiamo per “uso democratico”? Il prerequisito è un consenso sul-l’ammissibilità e plausibilità di interpretazioni diverse, che rispecchiano diversi orientamenti di valore, che si possono confrontare tra loro attraverso l’argo-mentazione.

Punto primo: non è scandaloso che la storia venga “usata”. Se la storia non fosse uno strumento per costruire “identità” non verrebbe neppure insegnata. Storicamente, la storia è diventata una materia scolastica per costruire dove non c’era e per rafforzare dove c’era l’identità nazionale. Oggi, la parte del mondo in cui viviamo è entrata, o meglio, sta entrando, nell’era postnazionale. Si pone  A L E S S A N D R O C AVA L L I

quindi il problema di dosare l’equilibrio tra identità (e quindi storie) locali, re-gionali, nazionali e sovranazionali. Non a caso, in un’epoca di globalizzazione, uno dei dibattiti di questo incontro è dedicato al “mondo come orizzonte”. E il glocalismo ha riportato nelle aule scolastiche anche la storia locale. La domi-nanza della storia nazionale è messa in discussione e perlomeno attenuta da que-sti processi che modificano il mix sul quale si costruiscono le identità. E, tutta-via, ritengo che sia un bisogno universale di ogni essere umano sentirsi parte di una collettività. L’identità individuale è una combinazione di identità collettive e di tratti singolari; non c’è incompatibilità tra sentirsi parte del genere umano, di una civiltà, di un continente, di una nazione, di una regione, di una provincia, di una città o di un villaggio. Il sentimento del “noi”, distinto da “loro” o dagli “altri”, non si annulla in un’indistinta identità cosmopolitica. Il problema vero consiste nel passaggio da una dinamica “amico (noi)-nemico (loro)” a una dina-mica in cui l’altro diventa un partner con il quale collaborare in un’impresa co-mune, senza annullare le identità distinte. Come ha detto Habermas, il proble-ma è quello dell’Einbeziehung des Anderen, dell’inclusione dell’altro in una re-lazione dialogica e cooperativa.

Non si può evitare che la storia venga “usata” per costruire memorie collet-tive, perché senza memorie collettive non ci sono collettività. In questa pro-spettiva vi è una inevitabile distinzione di ruoli e quindi anche una potenziale tensione tra il mestiere dello storico e il mestiere dell’insegnante di storia. L’uno è alla ricerca della verità, l’altro aiuta i propri allievi ad apprendere quelle cono-scenze, competenze e atteggiamenti che consentono loro di trovare un posto nel mondo. Non dico ovviamente che lo storico non possa essere un insegnante di storia e questi non possa essere un storico. I due ruoli possono evidentemente coincidere nella stessa persona. Ma questo non fa venir meno la loro distinzio-ne e la loro tensiodistinzio-ne.

Punto secondo: è necessario il consenso sulla legittimità del dissenso. Non è necessario adottare una concezione relativistica per riconoscere che la storia è interpretabile in modi diversi, tra loro non conciliabili, tra i quali però è possi-bile il confronto. La democrazia presuppone una società pluralista, dove grup-pi diversi avanzano interessi (come direbbe Max Weber) ideali e materiali di-versi. Il conflitto tra idee e interessi diversi in una società pluralista non è una manifestazione di “patologia sociale”, ma è del tutto fisiologico. La democrazia non è un modo per “mettersi d’accordo” (come ritiene una cultura politica de-mocraticamente immatura), ma per gestire il conflitto. Presuppone, cioè, il con-senso sulle regole per gestire i conflitti e giungere a compromessi accettabili.

Un segnale dell’immaturità democratica della cultura politica del nostro paese si ritrova nella diffusione di stereotipi che rilevano dalla presenza di una componente qualunquista. Il “qualunquismo” non è stato solo un movimento politico che ha vissuto una breve parabola nel secondo dopoguerra, ma è un’in-sieme persistente di atteggiamenti e opinioni sulla politica che, come un torren-te carsico, affiora periodicamentorren-te in ampi strati della società italiana. Questo in-sieme è pieno di elementi contraddittori. Da un lato, i “politici, di una parte e dell’altra, sono tutti uguali” (cioè, perseguono tutti i “loro” interessi

posti ai “nostri”), dall’altro lato però “continuano a litigare e non sono capaci di mettersi d’accordo”; quando “si mettono d’accordo, però, si abbassano a com-promessi”. L’idea che “compromesso” sia una brutta parola e una brutta cosa, è un elemento centrale della sindrome qualunquista, una sindrome a-democrati-ca che, in determinate circostanze, può diventare antidemocratia-democrati-ca.

Laddove i conflitti sono conflitti interpretativi della storia, la cultura demo-cratica presuppone il consenso sulla possibilità di confrontare punti di vista di-versi in un’arena dove si possa valutare la “bontà” delle argomentazioni.

Punto terzo: nella ricerca storica come nell’insegnamento della storia è im-portante saper distinguere i fatti dalle interpretazioni dei fatti. È un fatto, ad esempio, che a cavallo tra XIXeXXsecolo emigrarono oltre oceano svariati mi-lioni di italiani. Se ne possono analizzare i flussi per entità, zona di provenien-za, zona di destinazione, caratteristiche delle popolazioni migratorie, motiva-zioni soggettive ecc. È oggetto di interpretazione se questi flussi migratori fa-vorirono o ostacolarono lo sviluppo delle regioni meridionali. Ci sono buoni argomenti per sostenere l’una o l’altra interpretazione. La distinzione tra fatti e interpretazioni non è un’operazione semplice, ma è necessaria per sviluppa-re una visione articolata di eventi, fenomeni, processi di cui è importante co-gliere la complessità.

L’insegnamento della storia (e della storia contemporanea in particolare) di-venta così uno strumento per la formazione di una cittadinanza democratica ma-tura, per costruire e rafforzare la cultura democratica delle nuove generazioni. Il problema vero è come si traducono questi principi generali in pratiche didat-tiche in classe durante le ore dedicate all’insegnamento della storia. Ma questo non è, almeno in questa, sede, compito mio. Voglio solo concludere dicendo che questo problema richiede una formazione didattica specifica dell’insegnante di storia. Come per tutte le altre discipline, non basta sapere bene la storia per po-terla insegnare.

Note

. Ora in P. Calamandrei, Costituzione e leggi di Antigone: scritti e discorsi politici, La Nuo-va Italia, Firenze .

. A. Galante Garrone, Questa nostra repubblica: corso di educazione civica per il triennio delle scuole medie superiori, Loescher, Torino .

. J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano . . La persistenza di atteggiamenti qualunquistici nella cultura politica degli italiani, pe-raltro, si spiega con la peculiarità del sistema politico del dopoguerra dopo la rottura dell’u-nità antifascista e la conventio ad excludendum del partito comunista che ha creato un duplice livello: palese, dove il conflitto assume toni fortemente ideologici, e nascosto, dove si pratica-no intese e compromessi tra interessi diversi. Su questo punto cfr. A. Pizzorpratica-no, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano .

Per una storia di tutti insegnata,

Nel documento /  STUDI STORICI (pagine 129-133)