1. Il concetto di “ecomafia”. La sua dimensione economica e le sue declinazioni, con particolare riferimento al settore dello smaltimento dei rifiuti – 2. Il reato di traffico illecito di rifiuti ex art. 260 T.U.A. come unica norma repressiva – 3. Tipologie di criminalità organizzata in materia ambientale e tecniche investigative – 4. Protocolli di indagine e strumenti processuali, controlli ambientali e prevenzione.
§ 1
La criminalità ambientale può essere analizzata sotto un triplice punto di vista: in un’ottica prettamente individualista, riguarda le azioni od omissioni riconducibili per dolo o per colpa a soggetti che singolarmente si pongono in contrasto con la normativa ambientale; è il primo livello della repressione penale, che si dirige verso individui che difficilmente sono in grado, autonomamente, di provocare compromissioni, irreversibili o meno, dell’ambiente, essendo necessario, come ricordato in precedenza, che le condotte trasgressive si cumulino tra loro onde dar vita a quella serialità che è, nella grande maggioranza dei casi, presupposto indefettibile per una definitiva lesione dell’ambiente; in un’ottica, invece, più ampia, la criminalità ambientale può far capo ad enti o aziende che, pur
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esercitando attività lecite, pongono in essere attività illecite penalmente sanzionate. Di tale ultimo fenomeno il legislatore penale è perfettamente consapevole, allorquando l’art. 256, co. 2 T.U.A. prevede, in materia di smaltimento illecito di rifiuti, che “Le pene di
cui al comma 1 si applicano ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all'articolo 192, commi 1 e 2”; e, del resto, non vi è dubbio che anche
i nuovi reati contro l’ambiente, recentemente introdotti nel codice penale, si prestino ad essere più facilmente contestati nei confronti di soggetti che gestiscono realtà imprenditoriali e, dunque, con una struttura organizzativa tale da consentire interventi incisivi (in negativo) sull’ambiente che l’individuo, uti singulo, ben difficilmente potrebbe porre in essere; infine, la terza declinazione della criminalità ambientale è quella del crimine organizzato, cioè di quei complessi criminali deputati ex se allo svolgimento di attività illecite in materia ambientale. E’ il fenomeno delle c.d. “ecomafie”, termine coniato da “Legambiente” per indicare quei settori della criminalità organizzata che si occupano, principalmente, del traffico illecito e smaltimento illecito di rifiuti, nonché di abusivismo edilizio ed escavazione. Negli ultimi anni, in particolare, si è assistito ad una trasformazione del modus operandi del crimine organizzato in materia ambientale: infatti, mentre in passato la commissione di illeciti appariva, per così dire, parcellizzata, tanto da rendere particolarmente difficoltosa la ricostruzione complessiva degli effetti sul mercato e sull’economia di tale genere di criminalità, oggi si assiste sempre più all’emersione di
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organizzazioni criminali strutturate ed organizzate in centri autonomi di potere. Da una situazione di frammentarietà si è passati dunque ad una di omogeneità, ma non necessariamente tale cambiamento ha agevolato il compito degli analisti e dei giuristi, soprattutto per le difficoltà di accertare quei comportamenti illeciti c.d. “spia” (su tutti, il riciclaggio e la corruzione), cioè tali da ingenerare il sospetto che l’operazione criminale sia assai più complessa, con la difficoltà di ricostruire globalmente l’illecito, anche in considerazione del carattere sempre più transnazionale dello stesso.
Tuttavia, la questione centrale è individuare il rapporto tra criminalità organizzata nel settore dei rifiuti ed economia: e cioè, quali sono le ragioni per le quali le ecomafie si interessano sempre di più alla materia dello smaltimento dei rifiuti? La prima considerazione è quasi banale: lo smaltimento dei rifiuti è attività economicamente molto redditizia, non fosse altro perché qualunque attore della vita quotidiana, sia esso un privato o un ente, necessariamente produce (e quindi è tenuto a smaltire) rifiuti e, in particolare, negli ultimi decenni, il costo dello smaltimento ha assunto proporzioni assai rilevanti. Così, si è rilevato come tutto finisca per risolversi nella logica del costo – beneficio: minori saranno i costi, maggiori saranno gli introiti, col che non è difficile rilevare come i procedimenti illegali di smaltimento dei rifiuti posti in essere da organizzazioni criminali sovente si avvalgano di tecniche assai scadenti sul piano dei materiali da utilizzare o del mancato rispetto
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delle misure di sicurezze imposte dalla legge o dai capitolati di appalto.111
Secondo aspetto rilevante è quello della trasformazione dei profitti illecitamente acquisiti per via dello smaltimento illecito in capitali puliti, legali, venendo qui in considerazione l’attività di riciclaggio che, soprattutto nel caso di illeciti transnazionali, rappresenta la via maestra per l’occultamento e la legalizzazione dei proventi illeciti (è ben noto, del resto, il fenomeno del c.d. “dumping ambientale”112,
mediante il quale le organizzazioni criminali trasferiscono e illecitamente smaltiscono rifiuti verso paesi esteri i cui standard ecologici vigenti consentono una massimizzazione del profitto ed una minimizzazione dei costi).
Terzo aspetto, indubbiamente collegato al primo, riguarda la possibilità che le attività di smaltimento dei rifiuti siano poste in essere da società o enti formalmente legali, ma in realtà controllate dalla criminalità organizzata; ebbene, per tale via, ancora una volta, le organizzazioni criminali riescono ad occultare somme di denaro illecitamente acquisiti attraverso lo schermo di realtà imprenditoriali che all’esterno si presentano del tutto lecite.
Sullo sfondo, ma neanche così tanto, si stagliano le due maggiori criticità per chi debba intervenire in questa delicata materia: l’inefficienza della P.A. e del sistema preventivo dei controlli e, soprattutto, ancora una volta l’ineffettività della legislazione vigente.
111 LETIZI, Comportamento criminale, Ecomafie e Smaltimento dei rifiuti, 2003, 3 ss. 112 Per approfondimenti sul c.d. “dumping ecologico si veda QUERINI, La tutela
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Sulla seconda si è ampiamente dibattuto, sul primo si tornerà in seguito, ma è opportuno sottolineare fin da subito come non sia un caso che le grandi organizzazioni criminali abbiano scelto il settore dei rifiuti come uno dei principali canali di intervento e di guadagno illecito, posto che la legislazione in materia appare assolutamente farraginosa e del tutto inadatta a reprimere fenomeni di siffatta, macroscopica (per lo meno negli effetti, non nella emersione all’esterno) rilevanza ed illiceità.
Dal punto di vista dell’impatto delle organizzazioni criminali sull’economia è ormai acquisito il dato per il quale l’attività criminale rappresenta una sorta di esternalità negativa che finisce per incrementare i c.d. “costi sociali”, in termini di necessarie e conseguenti politiche economiche e di prevenzione, così come è attualmente noto che la c.d. “economia criminale” si collega, sul piano criminologico, alle disuguaglianze sociali ed ai quei fattori socio – ambientali che condizionano da vicino la personalità individuale.113 Sono altresì conosciuti i (per la verità pochi) studi
econometrici che hanno tentato di analizzare tali relazioni, soffermandosi principalmente su alcune variabili condizionanti l’esperienza criminale, quali le opportunità lavorative, i livelli di istruzione e la disuguaglianza delle condizioni economiche di partenza. Senza entrare in dettagli tecnici, le conclusioni di tali studi hanno evidenziato come sia fondamentale percepire le c.d. “determinanti” del crimine organizzato, vale a dire ciò che spinge un individuo a commettere illeciti: così, si è rilevato come la logica
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principale che guida il crimine organizzato sia quella del costo / beneficio, mettendo sulla bilancia da una parte le possibilità di profitto che l’illecito offre e, dall’altra la probabilità di essere sanzionato, sia dal punto di vista economico che da quello della restrizione della libertà.
Ovvio concludere, allora, che in mancanza di un efficace apparato repressivo, è giocoforza immaginare che la voce “costi” per l’imprenditore criminale non sia quasi mai un efficace deterrente per dissuaderlo dalla commissione dell’illecito, col che sarebbe auspicabile, ma ci si tornerà, che la legislazione prevista per contrastare le ecomafie sia tale da consentire una effettiva repressione di tali fenomeni criminali, ciò che attualmente è ben lungi dal verificarsi; soprattutto, però, l’analisi econometrica delle c.d. “determinanti” del crimine introduce il tema, assai più vasto e per certi versi sfuggente, della prevenzione. Investire in termini di scolarizzazione, di politiche del lavoro, di efficienza della giustizia e di prevenzione amministrativa significa sicuramente riduzione dell’attività criminale, ma soprattutto riduzione dei costi pubblici e sociali necessari per intervenire ad illecito ormai avvenuto; costi giudiziari, sicuramente, ma ancor prima costi ambientali, indispensabili per garantire una qualche forma di ripristino della lesione ambientale perpetrata. La complessità del tema è acuita dal fatto che il circuito criminale organizzato oggi si insinua nel tessuto economico legale della società, tanto che si è ormai dovuto ammettere che gli attori imprenditoriali delle realtà criminali sono perfettamente consapevoli delle variabili economiche nazionali e transnazionali e si
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muovono in ragione di queste, orientando le loro scelte criminali a seconda del mutare delle stesse; ciò rende particolarmente arduo l’intervento preventivo e repressivo, soprattutto perché le tecniche di occultamento dell’illecito paiono essere sempre più sofisticate e non consentono una facile penetrazione. Per questo sarà opportuno ritornare sulle tecniche di investigazione in materia di illeciti ambientali, proprio per capire quali siano le modalità operative che precedono l’instaurazione di processi penali in materia di traffico illecito di rifiuti.
Si è poi evidenziato, e lo si dirà ancora in seguito, che le organizzazioni criminali possiedono una ormai avanzatissima capacità di comprensione delle dinamiche economiche statali; sono in grado di sfruttare a loro vantaggio le scelte strategiche di politica economica poste in essere dallo Stato e di sfruttare le falle che queste presentano (non è un caso, del resto, che le indagini in materia di rifiuti svelino sovente intrecci “pericolosi” tra funzionari statali, politici e soggetti legati alla criminalità organizzata.
Pertanto, si può senz’altro affermare che la criminalità organizzata produce due effetti distorsivi principali sul sistema economico: il primo concerne i costi diretti ed indiretti che lo Stato deve sopportare per le azioni di prevenzione e di repressione dei fatti commessi, inclusi quelli necessari per il ripristino dello stato dei luoghi a seguito della compromissione ambientale. Il secondo e non meno rilevante effetto distorsivo concerne, invece, il mercato delle aziende che si occupano, in generale, della materia ambientale. È evidente che le organizzazioni criminali tendono ad accentrare su di loro un potere
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quasi monopolistico, ricorrendo alla forza intimidatrice loro propria e ciò comporta l’emarginazione delle imprese virtuose che vengono poste in condizione di non poter operare.114
Ancora, sarà essenziale concentrarsi sulla dicotomia prevenzione – repressione, onde valutare se davvero lo strumento della sanzione, penale o amministrativa che dir si voglia, rappresenti la strada giusta per combattere il fenomeno della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti, o se non sia piuttosto il versante preventivo a farsi preferire, sia sul piano dell’efficienza degli interventi che del risparmio dei costi. A tacer d’altro, basterà qui ricordare solamente che numerosi studi econometrici hanno evidenziato come non soltanto l’aumento delle pene non riveli affatto una maggiore efficacia deterrente rispetto alla commissione di reati, ma addirittura inneschi un meccanismo patologicamente criminogeno, ottenendo sovente l’effetto contrario rispetto a quello sperato; va da sé, dunque, che non si possono che esprimere perplessità rispetto a quella tendenza legislativa, ormai da tempo in atto, volta ad un (talvolta) indiscriminato aumento delle sanzioni, quale unica (o quasi) politica di contrasto alle attività illegali, siano esse poste in essere da organizzazioni criminali o meno.
114 MAIETTA, L’economia delle ecomafie e l’incidenza del fenomeno ecocriminale sulla
gestione del sistema economico statale. I costi dell’illegalità, in Le ecomafie, Nuove frontiere del diritto, 2/2015, 41 ss.
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§ 2
L’unica fattispecie penale dedicata espressamente alla repressione del fenomeno ecomafioso è quella dell’art. 260 T.U.A.
Come si avrà modo di ricordare in seguito, la legge n. 68/2015, nell’introdurre i c.d. reati ambientali nel codice penale, ha previsto un’aggravante specifica nel caso in cui i reati siano stati commessi da associazione a delinquere di stampo mafioso ex art. 416 – bis c.p., previsione quest’ultima che non ha mancato di suscitare una serie di perplessità legate soprattutto alla razionalità dell’apparato sanzionatorio. Inoltre, sono state previste ulteriori modifiche di natura procedurale sulle quali in ogni caso si ritornerà.
Resta il fatto che l’unica disposizione precettiva cui è affidato il contrasto alle ecomafie resta quella dell’art. 260 T.U.A.
Si tratta di una previsione introdotta nell’ordinamento italiano attraverso il c.d. “decreto Ronchi”, d.lgs. n. 22 del 1997, il cui art. 53 puniva a titolo di contravvenzione chiunque effettuasse una spedizione di rifiuti vietata ai sensi del Regolamento CEE 259/93 in modo da integrare un’ipotesi di traffico illecito.
Anche sulla scia di talune Commissioni di inchiesta parlamentari, che avevano sottolineato l’estrema gravità e rilevanza per la compromissione ambientale della penetrazione di ambienti criminali organizzati nel settore dello smaltimento dei rifiuti, la legge n. 93 del 2001 è intervenuta introducendo una nuova previsione al decreto Ronchi, quella dell’art. 53 – bis, nella quale si prevedeva che “Chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e
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attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti è punito con la reclusione da uno a sei anni”.
Tale formulazione è poi stata trasfusa senza alcuna modifica nel vigente codice dell’ambiente e la giurisprudenza vi ha riconosciuto una perfetta continuità normativa.
Brevemente, rispetto al soggetto attivo del reato dottrina e giurisprudenza hanno avuto modo di rilevare come, sebbene la disposizione faccia riferimento al “chiunque”, in realtà l’art. 260 T.U.A. deve essere qualificato come reato proprio, atteso che può essere posto in essere solamente da soggetti che si pongono al vertice di organizzazioni che gestiscono illecitamente lo smaltimento dei rifiuti115; ed infatti, i riferimenti all’allestimento di mezzi ed alla
continuatività delle attività organizzate fanno sì che non si possa immaginare come soggetto attivo del reato chi non eserciti un’attività a carattere imprenditoriale che presenti un sia pur minimo apparato organizzativo mediante il quale commettere l’illecito smaltimento di rifiuti.
Altra questione assai dibattuta in giurisprudenza è quella relativa alla natura abituale del reato: in particolare, ci si è chiesti se esista un numero minimo di operazioni illecite necessarie ad integrare la fattispecie o se lo stesso sia rimesso alla discrezionalità del giudice;
115 PRATI, Il nuovo reato di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti: una norma
problematica, in Ambiente & Sviluppo, 7/2001, 625 ss. Ritiene, invece, che si tratti
pacificamente di reato comune GIAMPIETRO, Prime note sulle nuove “disposizioni in
campo ambientale, in Ambiente & Sviluppo, 2001, 405. Ricostruisce il dibattito in ordine al
soggetto attivo del reato il recente lavoro di RAMACCI, Il “nuovo” art. 260 del D.Lgs. n.
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in alcune pronunce, anche sulla scia delle sentenze di legittimità in materia di atti persecutori, si è ritenuto che per l’integrazione del reato siano sufficienti due o più operazioni di smaltimento116;
tuttavia, si è rilevato come non sia sufficiente il mero riferimento numerico a quante operazioni siano poste in essere, ma sia necessario anche soffermarsi sul dato qualitativo dell’allestimento di mezzi e dell’organizzazione continuativa dell’attività illecita.117
Si tratta di un tipico reato di pericolo astratto (o presunto) che non richiede l’accertamento dell’evento di pericolo o di danno, costituito dal danno ambientale o, per quella tesi che rinviene il bene tutelato nella pubblica incolumità, dal pericolo indeterminato per la collettività.118
Ancora, con riferimento ai già ricordati requisiti dell’allestimento di mezzi e della attività continuativa organizzata si è rilevato come sia necessario che le condotte poste in essere siano pianificate o quantomeno dotate di un minimo di organizzazione, pur non ritenendosi essenziale la struttura imprenditoriale dell’attività119: il
legislatore ha qui voluto sottolineare come non sia sufficiente l’episodicità o l’occasionalità della condotta ad integrare l’art. 260 T.U.A., ma debba essere accertata una sia pur rudimentale organizzazione di risorse e mezzi. Infine, si è chiarito come il reato
116 Cass. Pen., sez. III., n. 47229, 6 novembre 2012 e Cass. Pen., sez. V, n. 46331, 5 giugno
2013. In dottrina aderisce a questa tesi VITA, Delitto di “attività organizzate per il traffico
illecito di rifiuti”: elementi costitutivi, in Riv. Pen., 5/2011.
117 RAMACCI, Il “nuovo” articolo 260, cit., 169.
118 Ex multis si vedano Cass. Pen., sez. III, n. 26404, 2 maggio 2013, Cass. Pen., sez. III, n.
44629, 22 ottobre 2015.
119 Per la verità, una pronuncia che espressamente parla di realtà “imprenditoriale” è Cass.
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possa essere accertato anche rispetto a realtà imprenditoriali non dedite esclusivamente a tale tipo di illeciti, ma che, pur nel quadro di attività lecite, pongano in essere, sia pure in via secondaria o marginale, anche le condotte di cui all’art. 260 T.U.A.120
Due gli aspetti più problematici della fattispecie: il primo riguarda l’utilizzo dell’avverbio “abusivamente” ed i significati che a tale locuzione possono essere attribuiti; il secondo, invece, concerne i rapporti tra l’art. 260 T.U.A. e i reati associativi previsti dal codice penale.
Con riferimento al primo, viene in considerazione un dibattito che ha interessato anche i nuovi reati ambientali introdotti nel codice penale, laddove l’utilizzo dell’avverbio “abusivamente” in qualità di clausola di illiceità speciale, ha finito per generare una serie di dubbi interpretativi rispetto a cosa il legislatore voglia davvero intendere con tale espressione. Infatti, con riferimento ad esempio al nuovo delitto di “disastro ambientale” si è fatto notare come, almeno sul piano logico, sia del tutto incongruo immaginare che possa esistere un disastro ambientale “non abusivo” non punibile.121
Una parte della dottrina ha da sempre ritenuto che tale espressione debba essere necessariamente connessa, in virtù dell’accessorietà con il diritto amministrativo di tutto l’apparato sanzionatorio penale in
120 Si vedano Cass. Pen., sez. III, n. 40827, 6.10.2005. Cass. Pen., sez. III, n. 47870, 6 ottobre
2005
121 Si interrogano sul punto, a pochi giorni dall’emanazione della legge sui reati ambientali,
AMENDOLA, Delitti contro l’ambiente: arriva il disastro ambientale “abusivo”, in
www.lexambiente.it, PALMISANO, Delitti contro l’ambiente, quand’è che un disastro si può dire “abusivo”?, in www.lexambiente.it.
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materia ambientale, con le prescrizioni dettate dall’Autorità amministrativa nei casi di smaltimento dei rifiuti.
Così, si è sostenuto che l’efficacia di tale avverbio vada riferita solamente alle ipotesi in cui l’agente ponga in essere un’attività in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo, la cui presenza, invece, esclude automaticamente il reato.122
Tuttavia, la giurisprudenza123 ha da tempo ripudiato tale tesi,
sottolineando come la mera presenza di un titolo abilitativo di per sé non sia essenziale, dovendo il giudice penale sindacarne la validità nel caso di specie. Infatti, laddove un atto amministrativo costituisca presupposto indefettibile o elemento costitutivo del reato il giudice penale è tenuto a sindacarlo e ad accertare la natura e validità di tale atto. Peraltro, si è ulteriormente rilevato come tale potere giudiziale giammai si risolve in una disapplicazione dell’atto amministrativo124
(che non sarebbe invero consentita) né tantomeno finisce per invadere il merito amministrativo (che significherebbe una indebita intromissione nei poteri discrezionali della P.A.), ma più semplicemente consiste nell’accertare se strutturalmente la fattispecie possa dirsi in concreto integrata mediante la presenza (o meno) di tutti i suoi elementi costitutivi; in tale modo, il potere del
122 Ricostruisce il dibattito MASERA, I nuovi delitti contro l’ambiente. Voce per il “libro
dell’anno del diritto Treccani 2016”, in Dir. Pen. Cont., 13
123 Ex plurimis Cass. Pen., sez. III, n. 13676, 15 dicembre 2006, Cass. Pen., sez. III, n. 37847,
14 maggio 2013, Cass. Pen., sez. III, n. 21487, 21 marzo 2006.
124 Il tema della disapplicazione “penalistica” dell’atto amministrativo è stato
approfondito, anche nella dottrina più risalente, da ALBAMONTE, Sindacato del giudice
penale in materia di atti amministrativi, in Giust. Pen., 1975, III, 213, FRANCHINI, Aspetti del sindacato del giudice penale sugli atti amministrativi, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1957,
337, VILLATA, Disapplicazione dei provvedimenti amministrativi e processo penale, Milano, 1979.
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giudice di sindacare, sia pure indirettamente, l’atto amministrativo trova la sua fonte nello stesso precetto penalistico, non necessitando di alcun altro tipo di dato normativo abilitante, e non risolvendosi quindi in nessuna violazione o forzatura del principio di legalità. Così, a fronte di casi di macroscopica illegittimità del provvedimento amministrativo, la giurisprudenza ha ormai affermato convintamente alcuni punti essenziali: “la valutazione della
configurabilità di reati in materia ambientale non esclude il giudizio sulla