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La disciplina penale in materia di rifiuti tra legislazione italiana ed europea e l'emergenza ecomafie

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Academic year: 2021

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La disciplina penale in materia di rifiuti

tra legislazione italiana ed europea e

l'emergenza ecomafie

Candidato

Alessandro Maria Piotto

Relatore: Prof. Alberto di Martino

Phd in “Persona e tutele giuridiche”

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INDICE

Introduzione……….5

Capitolo 1………10

1.1. Definizione di rifiuto tra direttive europee ed interpretazioni domestiche restrittive………...10 1.2. Sintetica ricognizione della normativa penale sui rifiuti...40 1.3. Quali le ragioni dell’ineffettività del sistema penale dei rifiuti….73 1.4. Contravvenzioni ambientali e conoscibilità del precetto: tra

rilevanza della buona fede, errore di diritto ex art. 5 c.p. ed

errore di fatto su legge extra-penale ex art. 47, co. 3 c.p.…………87 1.5. Spunti per una nuova tipizzazione degli illeciti penali in materia

di rifiuti………..102

Capitolo 2………...110

2.1. Il concetto di “ecomafia”. La sua dimensione economica e le sue declinazioni, con particolare riferimento al settore

dello smaltimento dei rifiuti………...110 2.2. Il reato di “Attività organizzata per il traffico illecito di

rifiuti ex art. 260 T.U.A. come unica norma repressiva…………..118 2.3. Tipologie di criminalità organizzata in materia ambientale

e tecniche investigative………148 2.4. Protocolli di indagine e strumenti processuali, controlli

ambientali e prevenzione………...….183

Conclusione...199

Bibliografia...204

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RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento particolare va ai mei genitori, che mi hanno spronato a completare questo lavoro nonostante avessi deciso di lasciar perdere in conseguenza di un periodo molto doloroso attraversato negli ultimi mesi, per tante ragioni. Loro più di me ci hanno creduto ed il loro supporto è stato fondamentale.

Un altro ringraziamento, ma forse è più una dedica, a mia nonna Liliana, la cui scomparsa in maggio è faticosa da superare, ma con la quale ho trascorso periodi bellissimi ed indimenticabili.

Ancora, ringrazio Alessia per il costante affetto, che mi aiuta a credere di più in me stesso e a migliorarmi sempre.

Ringrazio, infine, il mio relatore e tutor e tutti i docenti della Scuola Sant’Anna per le opportunità di studio e ricerca che mi hanno concesso.

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INTRODUZIONE

Il diritto penale dei rifiuti e, più in generale, il diritto penale dell’ambiente hanno negli ultimi anni attirato sempre più le attenzioni del legislatore e degli interpreti del diritto. Ciò è dovuto principalmente a due fattori: il primo ha a che fare con un rinnovato interesse per la materia ambientale a seguito della sua positivizzazione nella Costituzione ad opera della Legge Costituzionale, n. 3/2001, che ha riaperto il dibattito (per la verità mai del tutto sopito) sul ruolo e sui limiti di intervento dello Stato nel settore dell’ambiente; a ciò si aggiunga la peculiarità del diritto penale che, come si vedrà, con particolare riferimento alla materia ambientale, risulta quasi interamente strutturato secondo logiche meramente sanzionatorie di prescrizioni dettate da altri rami dell’ordinamento giuridico (segnatamente e prevalentemente quello del diritto amministrativo). Da qui dubbi vecchi e nuovi. E’ legittimo che il diritto penale intervenga non in modo precettivo, ma soltanto sanzionatorio? Rispetta il principio di legalità una fattispecie che rimanda per la descrizione del precetto interamente o quasi ad altri settori dell’ordinamento? Può un ambito così delicato come quello dell’ambiente essere caratterizzato dal proliferare di norme penali in bianco, oltretutto in considerazione dell’estrema farraginosità e

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complessità della normativa civile ed amministrativa in materia di ambiente e, nello specifico, dei rifiuti?

Si tratta di domande classiche, cui difficilmente si potrà dare una risposta nel presente lavoro, ma che nel settore dell’ambiente non paiono eludibili ancora a lungo: effettivamente la delicatezza degli interessi in gioco e dei beni giuridici tutelati impongono una chiara delimitazione ed individuazione del ruolo giocato dal diritto penale e della sua legittimazione ad intervenire. Da questo punto di vista si auspica ormai da tempo una riforma sistematica del diritto penale dell’ambiente, che continua, invece, ad essere oggetto di interventi settoriali, poco coordinati e soprattutto ricchi di imprecisioni definitorie e di clausole a dir poco ambigue (per non dire indeterminate). Non si potrà a questo proposito non fare riferimento alla recente approvazione della legge sui c.d. “ecoreati, la n. 68 del 2015 che, pur salutata da gran parte del mondo giuridico come un indiscutibile passo avanti nella tutela penalistica dell’ambiente (e si tratta di conclusione in ogni caso parzialmente condivisibile) ha posto tuttavia una serie di difficoltà interpretative e di coordinamento con la disciplina contenuta nel Testo unico dell’Ambiente (il d.lgs. n. 152 del 2006), tali da dare vita ad una serie di cortocircuiti ermeneutici di difficile soluzione e ai quali la giurisprudenza dovrà prestare inevitabilmente attenzione ne

i prossimi anni.

Sullo sfondo, poi, restano i dubbi classici relativi al ruolo che il diritto penale è in grado di spiegare in contesti, come quello ambientale, segnati da inevitabili difficoltà sul piano dell’accertamento delle

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dinamiche causali e in contesti di incertezza scientifica; non a caso il diritto dell’ambiente è la principale palestra interpretativa per la penetrazione, anche nel diritto penale, del principio di precauzione, i cui contenuti e confini appaiono per la verità ben lungi dall’essere identificati con precisione.

Il secondo fattore è naturalmente quello delle istanze sovranazionali. Sempre più ormai si assiste al proliferare di veri e propri obblighi di incriminazione di matrice europea. Il settore ambientale, poi, sembra essere tra i più attenzionati, proprio per l’importanza e, soprattutto, la trasversalità degli interessi coinvolti (si pensi, naturalmente, alla salute, alla pubblica incolumità, alla sicurezza dei traffici transnazionale ecc…).

Come si avrà modo di constatare, non sempre l’ordinamento italiano ha risposto positivamente alle richieste europee: in particolare, la fondamentale direttiva 2008/99/CE è rimasta sostanzialmente lettera morta sino all’approvazione della legge sugli ecoreati e tutt’ora presenta profili di inadempimento ancora non sanati.

Del resto, che la materia ambientale sia da sempre oggetto di impostazioni divergenti tra ordinamento italiano e Unione Europea è cosa nota e riguarda di fondo un differente approccio alla materia ambientale, cui si farà cenno, ovvero quello della distinzione tra antropocentrismo ed ecocentrismo; distinzione che, lungi dall’apparire come qualcosa di meramente dogmatico, è suscettibile di influenzare e da vicino le politiche ambientale che i singoli ordinamenti intendono porre in essere ed attuare.

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Caso paradigmatico è proprio quello dei rifiuti, laddove il differente approccio alla relativa nozione ha causato un continuo e costante dialogo – scontro tra Corti e Legislatori italiani ed europei, a tutt’oggi non ancora ricomposto, come si avrà modo di sottolineare più avanti. Pertanto, si avrà modo di constatare come il diritto penale dei rifiuti italiano sia al momento un coacervo di disposizioni mal strutturate e a dir poco caotiche: alle fattispecie contravvenzionali contenute nel Testo Unico dell’Ambiente, poco funzionale e di scarsa utilità, si sono aggiunta talune ipotesi delittuose contenute sempre nello stesso

corpus normativo, più le fattispecie introdotte con la già menzionata

legge sugli ecoreati.

Il lavoro, pertanto, sarà strutturato in due capitoli principali: nel primo, dopo aver evidenziato la travagliata e problematica evoluzione della nozione di rifiuto, ci si concentrerà sulla complessiva sistematizzazione della disciplina penale dei rifiuti, evidenziando le principali criticità sul piano del rispetto dei principi di legalità, offensività e, in particolare, di personalità della responsabilità penale. Del resto, il tema della conoscibilità del precetto ed errore di diritto ex art. 5 c.p. rappresenta un vero punctum

dolens del diritto penale ambientale, con la giurisprudenza arroccata

su posizioni assai rigide e la dottrina che auspica da tempo una maggiore valorizzazione della rilevanza pro reo dell’errore sulle contravvenzioni per ovviare ad una normativa il cui tecnicismo e la cui complessità rendono il più delle volte assai difficoltoso per il soggetto il corretto adeguamento.

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Concluderà il capitolo una proposta di modifica della normativa penale in materia di rifiuti, che guardi al necessario coordinamento con la nuova disciplina sugli ecoreati di recente introduzione.

Nel secondo capitolo ci si concentrerà, poi, su un’ipotesi speciale come quella dell’art. 260 T.U.A., il c.d. “Traffico illecito di rifiuti”. Si tratta di una fattispecie introdotta per contrastare il fenomeno delle c.d. ecomafie, ovvero della criminalità organizzata nel settore ambientale. Tuttavia, ad ormai quindici anni dalla sua entrata in vigore non si può certo affermare che l’apparato repressivo del fenomeno ecomafioso abbia dato buona prova di sé, tanto da far dubitare più di qualcuno che la vera arma contro la criminalità organizzata, anche in materia ambientale, sia quella della prevenzione. Si cercherà, allora, di cogliere gli aspetti fondamentali della dialettica prevenzione vs repressione e di comprendere quali siano le strategie investigative più all’avanguardia nel settore delle ecomafie.

Si tratterà, infine, di comprendere quali siano le principali tecniche di indagine nella materia del diritto penale dei rifiuti e quali risultati siano stati fino a questo momento raggiunti.

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CAPITOLO 1

LA DISCIPLINA PENALE IN MATERIA DI RIFIUTI TRA

INEFFETTIVITÀ E INDETERMINATEZZA

Sommario: 1. Sintetica ricognizione della normativa penale in materia di rifiuti – 2. Sintetica ricognizione della normativa penale in materia di rifiuti – 3. Quali le ragioni dell’ineffettività del sistema penale dei rifiuti? – 4. Contravvenzioni ambientali e conoscibilità del precetto: tra rilevanza della buona fede, errore di diritto ex art. 5 c.p. ed errore di fatto su legge extrapenale ex art. 47, co. 3 c.p. – 5. Spunti per una nuova tipizzazione degli illeciti penali in materia di rifiuti.

§ 1

In primo luogo, è necessario effettuare una breve ricognizione della normativa in materia di rifiuti, per comprendere l’attuale sistemazione della materia.

In particolare, il settore dei rifiuti è stato da sempre connotato da una vivace attività legislativa che ha comportato una stratificazione, spesso disorganica, di discipline normative, che hanno finito con il rendere assai complessa l’esegesi degli interpreti chiamati ad applicarle; ciò è dovuto, come si avrà modo di considerare, soprattutto alla necessità di restringere in modo sempre crescente la nozione di rifiuto con il risultato di eludere (talvolta, persino di contravvenire) alle indicazioni provenienti dalle fonti di natura europea.

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Prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152 del 2006, d’ora in avanti T.U.A.), la materia dei rifiuti era contenuta nel d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. “Decreto Ronchi”)1, a sua volta

emanato per sistematizzare una quantità tale di fonti primarie e secondarie relative ai rifiuti che avevano reso la disciplina complessivamente oscura e assai carente in termini di certezza e precisione, con i ben prevedibili riflessi negativi in ambito penalistico ove, invece, i principi di determinatezza e tassatività si pongono quali baluardi indefettibili contro l’introduzione nell’ordinamento di fattispecie criminose connotate da vaghezza ed incertezza e come tali di difficile apprezzamento, sub specie di conoscenza / conoscibilità da parte del cittadino. Per la verità, quello della conoscibilità del precetto è un problema tutt’ora centrale in materia di rifiuti e sul quale si dovrà necessariamente tornare nel prosieguo del lavoro. Principiando dagli aspetti definitori, va detto che la nozione di “rifiuto” è disciplinata dall’art. 183, co. 1, lett. a) del T.U.A., laddove si stabilisce che per rifiuto si intende “qualsiasi sostanza od oggetto che

rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Si tratta di una definizione che riprende sostanzialmente quella contenuta nella Direttiva 75/442 CEE2 nella quale il rifiuto veniva

inteso come “qualsiasi oggetto che rientri nelle categorie riportate

1 Decreto Legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, recante “Attuazione delle direttive 91/156/CEE

sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”

2 Direttiva 75/442/CEE del Consiglio, del 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti, disponibile per

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nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.

Per la verità, l’interpretazione della nozione di rifiuto non ha, paradossalmente, comportato significativi problemi ermeneutici sino alla sua codificazione, dal momento che, almeno in sede penale, tutto ruotava attorno alla possibilità o meno di applicare alle condotte di illecito smaltimento di rifiuti gli artt. 635 c.p. (in materia di danneggiamento) e, soprattutto, 674 c.p. (la non poco problematica contravvenzione di “getto pericoloso di cose”)3.

In effetti, prima dell’intervento legislativo del 1982, non esisteva un vero e proprio “approccio” penalistico al tema dei rifiuti, tutto rimanendo appiattito sui comandi concreti di natura amministrativa (in particolare ordinanze dell’Autorità, sovente emanate all’esito di un procedimento amministrativo privo di qualsivoglia opportunità partecipativa del privato) e, tuttavia, realmente integratrici del precetto penalistico ex art. 674 c.p., con tutte le conseguenze del caso in ordine alla carenza assoluta di determinatezza, sia sul piano della formulazione astratta della previsione, sia per la difficoltà del singolo di conoscere e apprezzare il disvalore cui ancorare la repressione penale, essendo il medesimo tutto rivolto a reprimere, di fatti, non altro che una mera disobbedienza ad un ordine dell’Autorità amministrativa.4

3 Analizza il fenomeno del “prestito” di fattispecie codicistiche a fini di tutela dell’ambiente

BERNARDI, La tutela penale dell’ambiente in Italia: prospettive nazionali e comunitarie, in

Annali dell’università di Ferrara, Saggi, IV, Ferrara, 1997.

4 Si vedano le considerazioni di LOTTINI, Art. 674 c.p. Getto pericoloso di cose, in Codice

commentato dei reati e degli illeciti ambientali, a cura di F. GIUNTA, Padova, 2007, 1712

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In verità, la sensazione di un diritto penale “di scopo”, debitore di una riflessione maturata quasi interamente al di fuori di esso, in materia di rifiuti è tutt’altro che scomparsa; anzi, se mai, da un lato la tormentata vicenda della nozione di rifiuto e, dall’altro, l’introduzione di talune fattispecie incriminatrici più che problematiche nell’ambito del Codice dell’ambiente, non hanno fatto altro che aumentare le perplessità in ordine alla carenza di determinatezza e legalità della materia; né pare che le recenti riforme del diritto penale ambientale abbiano apportato significative agevolazioni all’interprete, ma anzi non è peregrino sostenere che il quadro (già di per sé molto confuso) si sia ulteriormente complicato. Per queste ragioni, pare opportuno procedere ad una sintetica analisi della genesi della nozione di rifiuto nell’ordinamento italiano ed ai problemi che questa ha posto.

Preliminarmente, va dato atto del fatto che sulla nozione di rifiuto ha pesato e continua a pesare un differente approccio adottato in ambito domestico rispetto a quello emergente in sede europea: a scontrarsi sono, in quest’ottica, una visione “antropocentrica”, fatta propria dall’ordinamento italiano, ed una “ecocentrica”, posta a fondamento delle politiche europee.5

Da un lato, infatti, l’ordinamento italiano considera la tutela dell’ambiente in chiave strumentale, come bene – mezzo e non come bene – fine, rispetto alla valorizzazione piena della persona. Si tratta di una lettura fatta propria ormai da tempo dalla giurisprudenza

5 Si veda, su tutti, lo scritto classico di J. LUTHER, Antropocentrismo ed ecocentrismo nel

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costituzionale, che ha ravvisato sicuri fondamenti nella Carta Fondamentale quali, in primis, l’art. 2 Cost., che mette al centro della tutela la persona, intesa sia in senso individuale che collettivo, l’art. 9, co. 2 Cost, che tutela il paesaggio in tutte le sue forme, l’art. 32 Cost. che si occupa del diritto alla salute e, dopo la legge Cost. 3/2001, anche l’art. 117 c.p., nel quale, a seguito del riassetto delle competenze tra Stato ed articolazioni territoriali dello stesso, l’ambiente viene per la prima volta menzionato ed inserito tra le materie di competenza esclusiva dello Stato.6

Dall’altro lato, tuttavia, in sede europea l’approccio alla materia ambientale appare decisamente diverso, laddove prevale al contrario un approccio fortemente ecocentrico, nel quale l’ambiente è concetto posto in correlazioni con due principi essenziali: quello dello sviluppo sostenibile e, in particolare, quello di precauzione. Quest’ultimo è declinato all’art. 174 TFUE, laddove si prevede che le politiche europee in ambito ambientale debbano essere ispirate ai principi di precauzione e dell’azione preventiva.7

Prescindendo in questa fase da una disamina compiuta del principio di precauzione8, basterà considerare come proprio il suo positivo

6 Con riferimento al nuovo assetto di competenze nel settore ambientale si vedano le

riflessioni di MANFREDI, Il riparto di competenze in tema di ambiente e paesaggio dopo la

revisione del titolo V della Parte seconda della Costituzione, in Riv. Giur. Amb. 2003, 516.

In particolare, le considerazioni dei primi commentatori del nuovo art. 117 Cost. si concentrano sull’individuazione di una nozione di ambiente compatibile con l’assegnazione allo Stato di una competenza esclusiva in materia ambientale. Significa aver riproposto un’accezione unitaria del bene ambiente? Approfondisce questi aspetti COCCO, La legislazione in materia di ambiente è ad una svolta?, in Riv. Giur. Amb., 2002.

7 Si veda, a tal proposito, l’illuminante saggio di MONTANI, - "The Ecocentric Approach to

Sustainable Development. Ecology, Economics and Politics", in The Federalist, XLIX, 2007,

n. 1, pp. 25-60.

8 Per la quale, tuttavia, si richiamano alcune pietre miliari in letteratura, quali: BECK, La

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utilizzo sveli una logica spiccatamente ecocentrista e, di conseguenza, anti – antropocentrista: infatti, ciò che si intende mettere in luce non è tanto la protezione dell’ambiente come strumento per assicurare la salute ed il benessere psico – fisico della persona umana, ma se mai come mezzo per garantire il benessere delle future generazioni. Infatti, tale principio impone a chiunque di astenersi dal compiere attività che possano avere un qualunque impatto sull’ambiente in mancanza di precise indicazioni di carattere scientifico relative alla conseguenze di tali attività; per converso, esso legittima la creazione di regole, siano esse di natura legislativa o amministrativa, che limitino prima, e sanzionino poi per il caso della loro violazione, condotte aventi ad oggetto la realtà ambientale pur residuando dubbi, più o meno estesi, sul reale impatto di queste.9

Si tratta, se declinato sul versante penalistico, di un problema di non facile soluzione: da un lato, infatti, già sul piano della tecnica normativa, si colgono tutte le difficoltà ad ammettere l’operatività della precauzione, che rischia di legittimare interventi repressivi

di precauzione e beni legati alla sicurezza, in Dir. Pen. Cont., FORTI, “Accesso” alle informazioni sul rischio e responsabilità: una lettura del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, p. 155 ss., GIUNTA, Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, PERINI, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno,

Giuffrè, 2010, 174 ss., PIERGALLINI, Danno da prodotto e responsabilità penale. Profili

dommatici e politico-criminali, Giuffrè, 2004, 6 ss., RUGA RIVA, Principio di precauzione e diritto penale. Genesi e contenuto della colpa in contesti di incertezza scientifica, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, Vol. II, Milano, Giuffrè, 2006, 1743 ss.

9 Mancando una definizione di “precauzione” è utile richiamare la definizione contenuta

nella Comunicazione della Commissione sul Principio di Precauzione, COM (2000) 1

febbraio 2002 laddove si legge che questa “comprende quelle specifiche circostanze in cui le prove scientifiche sono insufficienti, non conclusive o incerte e vi sono indicazioni, ricavate da una preliminare valutazione scientifica obiettiva, che esistono ragionevoli motivi di temere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull’ambiente e sulla salute umana, animale o vegetale possono essere incompatibili con il livello di protezione prescelto”

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senza un fondamento scientifico certo capace di spiegare il processo di derivazione causale che da una condotta umana porta all’eventuale compromissione ambientale; in secondo luogo, ulteriori difficoltà si rinvengono sul terreno dell’accertamento dell’elemento soggettivo come emerge dalla lettura quella giurisprudenza, ormai piuttosto diffusa, che tende a dilatare le maglie della colpa, sia sul piano della definizione delle regole cautelari (che diverrebbero così regole precauzionali), sia sul piano del rimprovero soggettivo, solo che si pensi alla problematica individuazione dei requisiti di prevedibilità ed evitabilità in contesti segnati da marcati spazi di incertezza scientifica.10

Tornando alla disputa tra antropocentrismo ed ecocentrismo, va rilevato ancora come una parte della dottrina non sia rimasta affatto insensibile alle istanze europee volte ad assegnare rilevanza primaria alla tutela dell’ambiente, ma anzi abbia sottolineato come la definizione dell'ambiente in senso ecocentrico permetta di fare ricorso ad un modello penalistico immediato, che poggi sulla lesione effettiva del bene protetto, mentre, al contrario, la teoria antropocentrica riduce l'ambiente ad un interesse collettivo, da proteggere se e solo se la sua lesione sia suscettibile di recare nocumento ad altri interessi maggiormente significativi, come la salute, ad esempio. In questo senso, allora, il modello penalistico di tutela sarebbe fondato sul concetto di idoneità in concreto della condotta ad alterare l'ambiente, superando, così, anche la antica

10 Approfondisce il tema CASTRONUOVO, Principio di precauzione e beni legati alla

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problematica del diritto penale ambientale italiano, incentrato su fattispecie per lo più contravvenzionali e di pericolo astratto.11

Per contro, la dottrina maggioritaria ritiene che la visione antropocentrica sia da preferire, a tal punto che la tutela penale dell'ambiente dovrebbe rilevare in via mediata, in quanto preordinata alla salvaguardia di altri beni giuridici. In tal senso, sarebbe evidente il pericolo dell'adozione di una prospettiva ecocentrica, che comporterebbe una “progressiva trasformazione della tutela di beni ambientali nella tutela dell'ideologia (se non addirittura dell'etica) ambientalista”. Si potrebbe rischiare, in tal modo, di punire anche ogni minima alterazione dell'ambiente, in quanto ritenuto bene finale, meritevole di tutela in sé e per sé. Invece, la prospettiva antropocentrica, valorizzando la strumentalità dell'ambiente alla valorizzazione della persona, consente di “impostare in modo equilibrato il fondamento giustificativo della tutela ambientale”.12

Se questo è il terreno di “scontro” tra due modi diversi di intendere la protezione del bene ambiente, allora non sarà difficile

11 E’ l’opinione di SIRACUSA, La tutela penale dell’ambiente. Bene giuridico e tecniche di

incriminazione, Milano, 2007, 36. Per la verità, l’Autrice non propende per un modello di

ecocentrismo “forte”, ma disegna un’ipotesi di ecocentrismo “moderato”, scevro da fondamentalismi dogmatici, laddove è necessario ammettere che i comportamenti dell’uomo sull’ambiente sono necessariamente destinati ad interferire sugli ecosistemi e pertanto è essenziale regolare lo svolgimento di talune attività in modo che l’interferenza con questi ultimi sia compatibile con la conservazione dell’equilibrio complessivo dell’ambiente. Da qui la necessità di prevedere ipotesi criminose dotato di un sostrato offensivo, che puniscano condotte realmente in grado di ledere o mettere in pericolo l’ambiente.

12 Si vedano, tra i tanti (è la posizione maggioritaria) i lavori di M. CATENACCI, La tutela

penale dell’ambiente, Padova, 1996, 41. GIUNTA, Il diritto penale dell’ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni?, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Milano,

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comprendere per quali ragioni lo scontro sulla nozione di “rifiuto” tra l’ordinamento europeo e quello italiano abbia impegnato legislatori, giudici e dottrina negli ultimi quarant’anni.

Ed effettivamente ciò è emerso in tutta la sua dirompenza con la prima nozione di rifiuto elaborata nella direttiva europea 442/75/CE, nella quale restano in disparte (per non dire del tutto assenti) le esigenze di tutela dell’ambiente in vista dell’ulteriore protezione della salute e del benessere individuale ed in cui l’unica esigenza appare essere quella di tutela dell’ambiente in sé e per sé considerato, nella sola ottica (non certo, in ogni caso, trascurabile) di prevenire l’inquinamento causato dallo smaltimento dei rifiuti.

Così non stupisce che la definizione contenuta nell’art. 1 della direttiva non presenti alcun riferimento alla salute umana, posto che il rifiuto è indicato come “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore

si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti”.

Si noti che la formulazione dell’art. 1 è volutamente ampia ed omnicomprensiva, proprio per perseguire l’obiettivo di fornire la tutela più ampia possibile al bene ambiente, con l’ovvia difficoltà, a questo punto, di determinare e discernere cosa sia rifiuto e cosa non lo sia.

L’impressione è che la direttiva del 1975 abbia voluto delegare ai plessi amministrativi nazionali il compito di circoscrivere la nozione di rifiuto nella concretezza e nella dinamicità dei provvedimenti diretti, di volta in volta, ad autorizzare o a proibire il trattamento del rifiuto; da qui le difficoltà, sul versante penalistico, di apprezzare la reale offensività dei reati in materia di rifiuti, apparsi più volti a

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proteggere la legittimità e l’operatività delle statuizioni amministrative che l’ambiente, per lo meno in un’ottica di stampo antropocentrico.

Dunque, nessun riferimento all’idoneità offensiva della condotta per la salute o per il benessere umano, nel solco di un approccio marcatamente ecocentrista e precauzionale.

Con il d.P.R. n. 915 del 198213 l’ordinamento italiano ha provveduto

a trasporre la suddetta direttiva, elaborando una nozione di “rifiuto” decisamente diversa rispetto a quella europea.

Infatti, l’art. 2 stabilisce che per rifiuto deve intendersi “qualsiasi

sostanza od oggetto derivante da attività umana o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”.

Tutto sta nel comprendere se la divergenza tra il termine “disfarsi” che compariva nella direttiva e quello di “abbandonare” incluso nel decreto attuativo sia meramente linguistica o nasconda, piuttosto una differenza di natura concettuale.

In particolare, autorevole dottrina ha sottolineato come mentre l’espressione “abbandonare” richiamerebbe la natura definitiva dell’abbandono, nel senso che il rifiuto non potrebbe avere alcun altro utilizzo da parte di nessuno, il termine “disfarsi” indicherebbe un concetto relativo al solo detentore, ovvero il rifiuto sarebbe da intendersi come quell’oggetto non più utile per chi lo getta via, ma

13 Decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915 recante “Attuazione

delle direttive (CEE) n. 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi”

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che conserva una residua funzionalità in altri cicli produttivi od altre operazioni.14

A seguito del citato intervento normativo la dottrina si è poi divisa tra i sostenitori di una tesi di rifiuto in senso oggettivo o soggettivo. La prima era evidentemente frutto della lettura ed interpretazione della direttiva europea. Infatti, allegato al testo della direttiva vi era un catalogo di sostanze che venivano direttamente qualificate come rifiuti dalla legge e da qui il dibattito in ordine alla tassatività o mera esemplificazione dell’elenco.

A prevalere era la considerazione che si trattasse di un catalogo meramente esemplificativo e questo sulla base del fatto che i compilatori europei, attratti soprattutto dal principio di precauzione, avevano ben presente che l’evoluzione tecnologica e scientifica ben avrebbero potuto portare alla creazione di nuove sostanze sulla cui qualità di rifiuto sarebbe stato possibile dibattere.

Pertanto, i fautori della teoria oggettiva guardavano esclusivamente al dato formale dell’inserimento e previsione di una certa sostanza da parte della legge, fermo restando che, proprio per la omnicomprensività del dato normativo era necessario, di volta in volta, ricorrere ad una sorta di etero – integrazione della normativa primaria ad opera di strumenti ben noti al legislatore (quali elenchi o tabelle, si pensi alla materia degli stupefacenti) onde individuare con

14 Il riferimento è alle considerazioni di AMENDOLA, Gestione dei rifiuti e normativa

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precisione se un certo oggetto potesse o meno rientrare nella nozione di rifiuto.15

Nonostante le perplessità di una parte della dottrina, la teoria oggettiva ha fatto breccia nella giurisprudenza italiana dell’epoca, probabilmente per la maggiore certezza che un ancoraggio (sia pure precario) alla legge garantiva, in unione al dato sostanziale per cui rilevava la natura della sostanza in sé, a prescindere dalle connotazioni soggettive del detentore o dalla destinazione da questi impressa.

Dall’altro lato, i sostenitori della teoria soggettiva rilevavano come il vero punctum dolens dell’opposta tesi fosse quello di ricondurre l’accertamento in ordine alla riconducibilità di una sostanza al genus “rifiuto” sulla base di un rigido schematismo, fondato su una sorta di aut aut: o l’oggetto era ricompreso, anche analogicamente o presuntivamente (dunque non necessariamente in modo espresso) nell’elenco normativo o vi era escluso e ciò comportava l’ovvio rischio di affidare l’operatività della legislazione in tema di smaltimento dei rifiuti, nonché della (pur scarna) disciplina penalistica ad un dato “freddo”, incapace di cogliere quel substrato di dinamicità che l’utilizzo del verbo “disfarsi” da parte dei compilatori della direttiva europea sembrava svelare.

Così, un’altra tesi si concentra più sul profilo soggettivo della nozione di rifiuto, evidentemente collegata proprio all’utilizzo del verbo

15 AMENDOLA, Smaltimento dei rifiuti e legge penale, cit., 16 ss., PAONE, La tutela

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“disfarsi”16. La stessa Corte di Giustizia, ancora di recente, ha

sottolineato come la portata della nozione di rifiuto dipenda proprio dal significato che si intende attribuire al verbo “disfarsi”. In disparte le letture volte a ravvisare un parallelismo con il diritto penale, sottolineando che nel concetto di “disfarsi” andrebbe connesso con quello di “flagranza” assistito da un minimum di rimproverabilità soggettiva, la gran parte dei fautori soggettivisti pare propendere per un’interpretazione che guardi alla destinazione impressa dal detentore al rifiuto: in particolare, si afferma che mentre nel concetto di “abbandono” previsto dal decreto del 1982 sarebbe insito una condotta di definitivo rilascio di sostanze non più riutilizzabili, nemmeno in altri cicli produttivi. In pratica, vengono messi in antitesi il rifiuto ed il residuo: ciò che non è più riutilizzabile, nemmeno in altri cicli produttivi è un rifiuto; viceversa, si sarebbe in presenza di un residuo, come tale non sottoposto alla normativa in materia di rifiuti.

Tale distinzione tra rifiuto e residuo, peraltro, ha fatto breccia anche tra i fautori della teoria oggettiva, laddove si è sottolineato, riprendendo il vecchio criterio della natura della sostanza, che ciò che rileva è l’oggettiva idoneità di una sostanza ad essere riutilizzati in cicli produttivi estranei a quello del detentore, non rilevando la volontà dello stesso in ordine alla destinazione da imprimere al bene; viceversa, i soggettivisti guardano esclusivamente alla volontà del detentore, considerando come indici sintomatici della volontà di

16 Sposano questo filone interpretativo GIAMPIETRO, Smaltimento e scarico di rifiuti

nell’ambiente: rapporti tra il d.P.R. 915/1982 e la legge Merli, in Giur. merito, 1984, 499

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disfarsi definitivamente di un oggetto il fatto che il soggetto abbia affrontato conseguenze per lui non favorevoli o che non intenda avvantaggiare nessuno mediante l’attività di smaltimento.

Dunque, mentre per i soggettivisti ciò che conta è esclusivamente la destinazione impressa alla sostanza da parte del detentore, per gli oggettivisti è necessario soffermarsi sulla natura del bene, prescindendo dalla volontà del detentore, col che anche un bene che potrebbe essere oggetto di riutilizzo o trasformazione ben potrebbe essere considerato come rifiuto ai sensi della normativa sullo smaltimento. In sostanza, gli oggettivisti si limitavano a considerare che quel determinato oggetto non potesse avere più alcun uso nel contesto aziendale dal quale era fuoriuscito, a nulla rilevando né il fatto che vi potessero essere ulteriori utilizzi in altri contesti aziendali, né che il detentore avesse o meno impresso alla sostanza una particolare destinazione all’abbandono.

La tesi oggettivista, peraltro, è stata da subito ampiamente seguita in giurisprudenza, laddove si è consolidato il criterio per cui le sostanze non riutilizzate nel medesimo ciclo produttivo dal quale fossero state dismesse dovevano essere considerate rifiuti, a prescindere da un possibile impiego o trasformazione in altri contesti aziendali.17

In particolare, si consideravano rifiuti quei beni che non erano più utili allo scopo per il quale originariamente erano stati creati, non rilevando il fatto che vi potessero essere trasformazioni o ulteriori

17 Oltre alla fondamentale Cass. pen., sez. III, 14 aprile 1987, Perino, in Cass. pen., 1988,

1942, si vedano Cfr. Cass. pen., sez. III, 18 marzo 1991, Gallello, in Cass. pen., 1992, 1317 e Cfr. Cass. pen., sez. III, 9 luglio 1990, Imbarrato, in Giust. pen., 1991, II, 160.

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lavorazioni idonee a consentire un ulteriore utilizzo in altri cicli di produzione.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiamata a pronunciarsi pochi anni dopo, boccia decisamente la prospettiva oggettivistica ed accede invece ad una lettura soggettivistica. Infatti, da un lato ripudia la tesi che esclude dalla nozione di rifiuto quelle sostanze che potrebbero essere reimpiegate o riutilizzate, affermando come osterebbe alla direttiva del 1975 una normativa nazionale che aprioristicamente dovesse prevedere che tutti i beni che possano avere una qualche forma di riutilizzo non possano in automatico essere considerati rifiuti; dall’altro, la pronuncia priva di qualsivoglia rilevanza la volontà del detentore, dal momento che l’obiettivo stesso della direttiva (ovvero la protezione dell’ambiente) verrebbe frustrato se la sua applicazione dovesse dipendere in concreto e di volta in volta dalla volontà del detentore e, dall’altro, che il riferimento all’ “obbligo” di disfarsi di un oggetto lascia intendere che vi siano casi in cui nessun margine di apprezzamento è riservato al detentore, essendo questi tenuto a qualificare un certo bene come rifiuto e ad avviarlo alle procedure di smaltimento, senza che possa in alcun modo entrare in gioco la sua intenzione rispetto alla destinazione da imprimere all’oggetto.18

18 Il quesito rivolto alla Corte di Giustizia da due Preture italiane era il seguente: “se l’ art.

1 della direttiva del Consiglio del 15 luglio 1975 relativa ai rifiuti 75/442 e l’ art. 1 della direttiva del Consiglio del 20 marzo 1978 relativa ai rifiuti tossici e nocivi 78/319 vadano intesi nel senso che nella nozione giuridica di rifiuto debbano essere comprese anche le cose, di cui il detentore si sia disfatto, suscettibili però di riutilizzazione economica e se vadano intesi nel senso che la nozione di rifiuto postuli un accertamento sull’esistenza dell’ «animus dereliquendi» nel detentore della sostanza od oggetto”. La risposta della Corte

arriva con le pronunce gemelle C-206-207/1988, Vessoso e G. Zanetti, e nel procedimento C-359/1988, E. Zanetti ed altri, concludendo che “la nozione di rifiuto, ai sensi dell’art. 1

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Nel ripercorrere questa sintetica evoluzione relativa alla nozione di “rifiuto” un cenno deve essere fatto alla direttiva 156/91/CE19,

approvata in sostituzione (parziale) di quella del 1975. Si tratta di un intervento normativo che non ha introdotto modifiche di rilievo. Se ne ricordano due: la prima, è relativa alla (per lo meno nelle intenzioni dei compilatori europei) circoscrizione della nozione di rifiuto mediante il riferimento alle sostanze dell’allegato I riportato i calce alla direttiva.

Tuttavia, benché si tentasse di concepirlo come un elenco tassativo, la stessa formulazione, atta a ricomprendere “qualsiasi sostanza,

materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra indicate” spingeva

nel senso di un catalogo assolutamente aperto e pertanto indeterminato, con l’esito paradossale di ampliare la riconducibilità di una sostanza alla nozione di rifiuto invece di restringerla.

La seconda novità, invece, concerneva l’espressa menzione della decisione, da parte del detentore, di disfarsi di un bene. Lungi dall’apparire come un tributo ai fautori della teoria soggettiva, tale locuzione aveva la funzione di evitare e scongiurare alcune interpretazioni temerarie sviluppatesi nel corso della vigenza della direttiva del 1975, in base alle quali laddove il detentore avesse tenuto in deposito presso di sé grandi quantità di beni pur oggettivamente da considerarsi quali rifiuti, non sarebbe stato

delle direttive del Consiglio 75/442 e 78/319, non deve intendersi nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Una normativa nazionale la quale adotti una definizione della nozione di rifiuto escludente le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con le direttive del Consiglio 75/442 e 78/319”.

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possibile avviarli allo smaltimento posto che, tecnicamente, non ricorreva né l’ipotesi del “disfarsi” di un oggetto, né quella dell’ “obbligo di disfarsene”. Da questo punto di vista, in ogni caso, la formula utilizzata dai traspositori della direttiva nell’ordinamento italiano (“sostanze destinate all’abbandono”) aveva consentito alla giurisprudenza di includere nella nozione di rifiuto anche i beni stoccati in massa presso l’azienda del detentore.20

Certo è che l’intervento della direttiva europea del 1991 aveva finito, oltre che per ampliare la nozione di rifiuto, anche per riaprire un dibattito, apparentemente sopito, in ordine alla rilevanza della componente volitiva ed intenzionale del detentore nel qualificare o meno come rifiuto un certo bene.

In ogni caso, a rimanere aperto era sempre il problema di distinguere tra materiali destinati al riutilizzo e rifiuti e se tra queste due categorie vi potesse essere una qualche differenza.

Sul punto, il decreto c.d. “Ronchi” (d.lgs. n. 22 del 1997) non prendeva una posizione, limitandosi a trasporre fedelmente la definizione di rifiuto contenuta nella direttiva del 1991.

Qualche considerazione in più, invece, emergeva dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, laddove si faceva strada una distinzione, per la verità abbastanza sfumata, tra recupero dei rifiuti ai sensi della direttiva europea e semplici trattamenti industriali; nel

20 Si veda, per una ricostruzione di questi aspetti, DE SADELEER, Rifiuti, prodotti e

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primo caso si sarebbe stati di fronte ad un rifiuto, nel secondo caso no.21

Benché poco approfondito, è chiaro che il riferimento ad un qualche processo di riutilizzo di una sostanza che non comportasse la qualifica di rifiuto ha finito per riaprire il dibattito, non più e non tanto seguendo la dicotomia “riutilizzo nel medesimo ciclo produttivo / riutilizzo in cicli produttivi diversi”, quanto più semplicemente quella, per così dire, secca, tra smaltimento e riutilizzo, anche all’interno dello stesso contesto aziendale.

Si faceva così strada una tesi secondo la quale non potevano essere considerati rifiuti né le sostanze riutilizzate senza alcun trattamento (come ovvio), né (ecco la novità) quelle sottoposte a particolari trattamenti industriali tipici del prodotto, e questo a prescindere da un riutilizzo nel medesimo ciclo produttivo o in altri contesti aziendali.

Pertanto, veniva ripudiata quella tesi che ancora si ostinava a ritenere che laddove il bene fosse uscito dal contesto industriale originario, ciò fosse la prova della volontà per il detentore di disfarsene, con tutte le implicazioni che da questa affermazione derivavano, compresi i rischi di uno scivolamento verso le tesi soggettiviste, in parte, come si è visto, e sia pure per fini specifici, recuperate dalla definizione di rifiuto della direttiva europea del 1991, ma sconfessate largamente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

21 Corte di giustizia delle Comunità europee, 10 maggio 1995, nel proc. C-442/91,

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A cavallo del nuovo millennio, dunque, le difficoltà interpretative permangono intatte: il problema è sempre quello di stabilire cosa sia rifiuto e cosa non lo sia ed il rapporto tra rifiuto e residuo.

Un importante snodo è rappresentato dall’introduzione nell’ordinamento italiano della norma di interpretazione autentica di cui all’art. 14 del d.l. 138/200222, volto a chiarire l’esatta portata dei

termini “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia l’obbligo di disfarsi” contenuti nel decreto Ronchi.23

Più che la definizione in positivo di cosa debba intendersi con i tre requisiti sopra indicati, l’intervento normativo merita attenzione per la codificazione, in negativo, di ciò che invece non può essere ricondotto alla nozione di rifiuto: infatti, il secondo comma dell’art. 14 stabilisce che “non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni:

a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

22 D.l. 8 luglio 2002, n. 138 recante “Interventi urgenti in materia tributaria, di

privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate”

23 L’intervento normativo seguiva a poca distanza la circolare ministeriale del 28 giugno

1999, con la quale si intendeva chiarire la riconducibilità alla categoria dei rifiuti dei c.d. “ex mercuriali”. Si faceva riferimento, in particolare, al sequestro di rottami di ferro operato presso lo stabilimento industriale di Porto Marghera in quanto considerati come rifiuti. Per tali ragioni, il governo interveniva cercando di chiarire in che misura sostanze oggetto di trattamenti volti al loro riutilizzo potessero essere escluse dalla nozione di rifiuto e, per l’effetto, escluse dall’applicazione della normativa relativa al loro smaltimento.

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b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22”.

Evidentemente, una simile normativa non poteva che porsi in contrasto con le direttive europee sotto il profilo di una indebita limitazione della latitudine della nozione di rifiuto e questo sotto un duplice profilo: da un lato, infatti (ma la questione riguardava forse più una certa interpretazione giurisprudenziale nazionale) vi era il riferimento al riutilizzo della sostanza anche in altro ciclo produttivo o di consumo (e la questione appariva assai controversa); dall’altro, soprattutto, si operava una sorta di presunzione assoluta di “non rifiuto” laddove l’oggetto fosse stato riutilizzato senza essere sottoposto alle operazioni di recupero indicate dalla legge.

Evidente il contrasto con la normativa europea e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, laddove invece il mero fatto che un bene potesse essere riutilizzato o reimpiegato non comportava una automatica esclusione dalla categoria dei rifiuti.

Pertanto, la Corte di Giustizia, nella nota pronuncia “Niselli”24

interviene a censurare l’art. 14 del d.l. 138/2002 sotto più profili: intanto, la Corte ribadisce come di per sé, il fatto che un bene sia oggetto di riutilizzazione economica non significa che debba essere sottratto alla disciplina in materia di rifiuti, posto che il punto essenziale per distinguere ciò che è rifiuto da ciò che non lo è sta

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nell’interpretazione del concetto di “disfarsi”, a prescindere dal valore residuo che una sostanza possa avere o dall’essere la medesima destinata ad operazioni di recupero; in secondo luogo, escludere in modo automatico la riconducibilità di un oggetto alla nozione di rifiuto solo in ragione delle modalità con le quali il detentore se ne disfa, ai sensi dell’art. 14 del d.l. 138/2002, diverse da quelle indicate nella direttiva, significa restringere la latitudine del concetto di rifiuto e, pertanto, porsi in contrasto con la normativa europea. Infatti, la Corte constata come affinchè una sostanza possa essere esclusa dalla qualifica di rifiuto è sufficiente che questa, senza alcun trattamento preventivo, possa essere reimpiegata nel medesimo o in altro ciclo produttivo o con un intervento preventivo di trattamento senza il ricorso alle operazioni di smaltimento di cui all’allegato C del d.l., corrispondente in toto all’allegato II B della direttiva, ma questo contrasta con la nozione di rifiuto di cui all’art. 1, co. 1, lett. a) della direttiva, posto che viene ribadito come la semplice attitudine al riutilizzo non possa costituire un criterio valido per qualificare o meno un oggetto come rifiuto.

Del resto, la stessa Corte, in alcune pronunce di poco posteriori a quella in commento ha poi concesso una timida apertura al concetto di riutilizzo, elaborando la nozione, antitetica a quella di rifiuto, di “sottoprodotto” secondo cui “un bene, un materiale o una materia prima

risultante da un processo di fabbricazione che non è destinato a produrlo può essere considerato come un sottoprodotto di cui il detentore non desidera disfarsi solo se il suo riutilizzo, incluso quello per i bisogni di operatori economici diversi da colui che l’ha prodotto, è non semplicemente eventuale,

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ma certo, non necessita di trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione”.25

Pertanto, le condizioni in presenza delle quali, secondo la giurisprudenza europea, un determinato bene potrebbe essere escluso dall’applicazione della normativa in materia di rifiuti sono decisamente più restrittive di quelle introdotte dal d.l. 138/2002, atteso che è necessario che il riutilizzo della sostanza deve palesarsi non solo come possibile, ma come probabile o quasi certo e in mancanza di qualsivoglia operazione di trasformazione preliminare. Approccio decisamente diverso, quindi, rispetto a quello della normativa italiana: da un lato, in un’ottica ecocentrica, si tenta di allargare il più possibile le maglie della nozione di rifiuto per sottoporre il maggior numero possibile di operatori economici all’applicazione degli obblighi imposti in tema di trattamento e smaltimento dei rifiuti; dall’altro si cerca invece di restringere la definizione di rifiuto, sul presupposto di una eccessiva vaghezza ed indeterminatezza della stessa.

E si arriva, così, all’emanazione del Testo Unico Ambientale, il d.lgs. n. 152 del 2006, nel quale scompare la definizione di rifiuto contenuta nel d.l. di interpretazione autentica del 2002.

Infatti, la nozione di rifiuto appare (ma solo di apparenza si tratta, in effetti) aderente rispetto a quella contenuta nelle direttive europee, laddove l’ art. 183, comma 1, lett. a) stabilisce che si intende per rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate

25 Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 18 dicembre 2007.

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nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi”.

Si tratta, però, di una definizione generica che infatti il legislatore provvedeva a specificare, a contrario , individuando una serie di deroghe, costituite dalla c.d. “materie prime secondarie” e dai già menzionati sottoprodotti. Altre deroghe erano testualmente introdotte, come quelle relative alle materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche ed altri tipi di oggetti che, pur costituendo rifiuto secondo le definizioni generali dell’art. 183 T.U.A. venivano espressamente sottratti all’applicazione della relativa disciplina.

Tale quadro normativo finisce per essere nuovamente censurato dalla Corte di Giustizia: sotto il mirino dei giudici di Lussemburgo, infatti, finisce l’ampio sistema di deroghe introdotto dal legislatore italiano del 2006, avente lo scopo di restringere la nozione di rifiuto e, di conseguenza, di allargare le tipologie di sostanze non coinvolte nelle procedure di controllo e smaltimento dei rifiuti.

Due, in particolare, gli aspetti rilevati dalla Corte: da un lato, la pressoché totale indeterminatezza del sistema derogatorio alla definizione di rifiuto, senza che vi fosse alcun riferimento, sul piano dell’accertamento positivo, alla condotta di “disfarsi” da parte del detentore, come noto centrale nell’impalcatura sovranazionale; dall’altro lato, anche il concetto di sottoprodotto, pur mutuato dalla giurisprudenza europea, non risolveva i punti più problematici della nozione, vale a dire quello della rilevanza dei trattamenti preliminari rispetto al riutilizzo di un certo bene e, soprattutto, la possibilità che

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quello stesso bene potesse essere riutilizzato nel medesimo o in diverso ciclo produttivo26.

Parallelamente, la Commissione Europea aveva emanato una Comunicazione al Consiglio ed al Parlamento, nella quale si tentava di mettere in luce i rapporti tra rifiuto e sottoprodotto.27

La distinzione veniva ravvisata nel fatto che si poteva ravvisare la presenza di un sottoprodotto nel caso in cui vi fossero tre circostanze cumulativamente ricorrenti: a) certezza di riutilizzo del bene; b) continuità del processo di produzione; c) assenza di trasformazione preliminare. La Comunicazione si dilungava, poi, nella spiegazione minuziosa di ciascuno di questi requisiti. L’aspetto più rilevante, sul quale del resto si erano concentrati gli interpreti anche negli anni precedenti, concerneva quello della “continuità del processo produttivo”, da risolversi nel senso che qualora l’oggetto fosse stato spostato fisicamente rispetto al luogo in cui era stato prodotto, ciò era indice di una discontinuità e, pertanto, impediva l’applicazione della disciplina sui sottoprodotti.

26 Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. III, sent. del 18 dicembre 2007, nel proc.

C- 194/05, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana, in European Court reports, 2007 I- 11661; ID.,18 dicembre 2007, nel proc. C-195/05, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana, ivi, I-11699; ID., sent. del 18 dicembre 2007, nel proc. C-263/05, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica italiana, ibidem, I-11745. Si veda il commento di NATALINI, Nozione di rifiuto, riutilizzazione e sostanze

escluse: dai giudici comunitari tripla condanna per l’Italia, in www.dirittoegiustizia.it,

21.12.2007.

27 Comunicazione della Commissione al Consiglio e la Parlamento europeo del 21 febbraio

2008, COM/2007/0059 def. Si vedano le riflessioni di POMINI, Rifiuti, residui di produzione

e sottoprodotti alla luce delle linee guida della Commissione CE, della (proposta di) nuova direttiva sui rifiuti e della riforma del decreto legislativo 152/2006: si attenua il divario tra Italia ed Unione Europea?, in Riv. giur. ambiente, 2008, 355 ss

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Altre e più approfondite sarebbero le considerazioni da fare, ma per ragioni di sintesi è necessario procedere oltre illustrando esclusivamente i passaggi fondamentali dell’evoluzione.

In questo senso, allora, fulcro centrale del dibattito, ancora in corso peraltro, è divenuto quello di individuare una linea di demarcazione. La nuova formulazione in materia di sottoprodotti recita:

“Non rientrano nella definizione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a),

le materie, le sostanze e i prodotti secondari definiti dal decreto ministeriale di cui al comma 2, nel rispetto dei seguenti criteri, requisiti e condizioni: a) siano prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti;

b) siano individuate la provenienza, la tipologia e le caratteristiche dei rifiuti

dai quali si possono produrre;

c) siano individuate le operazioni di riutilizzo, di riciclo o di recupero che le producono, con particolare riferimento alle modalità ed alle condizioni di

esercizio delle stesse;

d) siano precisati i criteri di qualità ambientale, i requisiti merceologici e le altre condizioni necessarie per l'immissione in commercio, quali norme e standard tecnici richiesti per l'utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all'ambiente e alla salute derivanti dall'utilizzo o dal trasporto del

materiale, della sostanza o del prodotto secondario;

e) abbiano un effettivo valore economico di scambio sul mercato”.

Pertanto, ai sensi della nuova disciplina era necessario che tutti i requisiti fossero presenti ai fini dell’affermazione della qualità di sottoprodotto di un bene: la mancanza di anche solo uno di questi

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avrebbe determinato la riconducibilità del bene alla qualifica di rifiuto e non di residuo.

Quasi in contemporanea in sede europea veniva emanata la direttiva 2008/98/CE, la quale prende posizione in ordine alla nozione di sottoprodotto, stabilendo che lo può non essere considerato rifiuto ai sensi dell’art. 3, punto 1, bensì sottoprodotto unicamente in presenza, tra gli altri, del seguente elemento: la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.

Tuttavia, ancora una volta tale nozione non pare suscettibile di spiegare i due aspetti essenziali: l’assenza di trattamenti preliminari e la possibilità di reimpiegare l’oggetto in contesti produttivi diversi da quello di origine.

In particolare, il riferimento alla “normale pratica industriale” sembra sconfessare e non poco la tesi della Corte di Giustizia che invece, ai fini di qualificare un bene come sottoprodotto e non come rifiuto, parlava chiaramente di assenza di qualunque trattamento preliminare.

Inoltre, vengono definite nella direttiva anche le c.d. “materie prime secondarie”, da intendersi come quegli oggetti che cessano di essere qualificati come rifiuti in presenza di determinate operazioni di recupero, tra le quali il riciclaggio. In tale modo viene evidentemente posta una linea di demarcazione netta tra sottoprodotto e materie prime secondarie, che la legislazione nazionale non mancherà di riprodurre.

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Ciò che merita di essere sottolineato è ulteriormente il fatto che la direttiva assegna agli Stati membri un maggior spazio di manovra, anche in relazione alla riconducibilità o meno di un oggetto alla categoria dei rifiuti, laddove però, in applicazione del principio di sussidiarietà, sia possibile ottenere un “miglior risultato ambientale complessivo”.

Tappa fondamentale, ed in un certo senso conclusiva, di questa evoluzione è l’approvazione del d.lgs. n. 205 del 2010 di recepimento della direttiva. Viene, in particolare, riscritta la nozione di rifiuti eliminando quel riferimento formale alla necessaria inclusione nell’Allegato A alla direttiva che tanto aveva fatto discutere; in disparte le questioni legate alla pretesa “indeterminatezza” della fattispecie, si è rilevato come l’abolizione del riferimento ad un catalogo di rifiuti potrà rispetto alla nozione di “contribuire a rendere meno sbilanciato l’esito processuale dalla parte dell’accusa, potendosi questa limitare, prima della novella, a constatare la semplice inclusione di una sostanza nell’elenco dei rifiuti e da qui attribuirvi tale qualità ai fini dell’integrazione delle norme penali in materia di rifiuti.28 Con riferimento alla nozione di “sottoprodotto”,

invece, il nuovo art. 184 – bis T.U.A. prevede che ““E’ un sottoprodotto

e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), t.u. qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od

28 GIAMPIETRO, Quando un residuo produttivo va qualificato “sottoprodotto” (e non

“rifiuto”) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/CE (Per una corretta attuazione della disciplina comunitaria), in www.lexambiente.it , 8 novembre 2010.

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oggetto; b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana. Sulla base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti. All’adozione di tali criteri si provvede con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17 comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria”.

La definizione riproduce sostanzialmente quanto prescritto dalla direttiva “rifiuti 98/2008/CE discostandosene tuttavia su un pinto essenziale laddove prevede che il riutilizzo certo può avvenire “nel

corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi”, a differenza della

direttiva comunitaria che, non prendendo posizione su un punto così delicato, anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, si limitava a parlare di certezza del riutilizzo.29

29 PERES, Sottoprodotto. Terre e rocce, qualifica di rifiuto, esclusioni: le novità del D.lgs.

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L’altro aspetto critico riguarda il riferimento alla “normale pratica

industriale” rispetto alla possibilità di sottoporre la sostanza a

trattamenti preliminari o preventivi, risolto dalla nuova disciplina nel senso della non necessità che il residuo possieda sin dall’inizio le caratteristiche di un sottoprodotto, liberalizzando così la possibilità che anche una sostanza sottoposta a trattamenti preventivi possa poi essere qualificata come sottoprodotto.

Pertanto, la mancanza di un ulteriore trattamento diviene un requisito “relativo” e non più “assoluto”, nel senso che non sono ammessi trattamenti diversi da quelli derivanti dalla normale pratica industriale.

Sul punto, merita infine di essere considerato il nuovo d.lgs. n. 264 del 2016, il quale è intervenuto a chiarire proprio il contenuto dei requisiti della certezza del riutilizzo e dei trattamenti derivanti dalla normale pratica industriale, in particolare in funzione di agevolazione probatoria per il detentore. Con riferimento alla certezza del reimpiego si stabilisce che “il requisito della certezza

dell’utilizzo è dimostrato dal momento della produzione del residuo fino al momento dell’impiego dello stesso. A tali fini il produttore e il detentore assicurano, ciascuno per quanto di propria competenza, l’organizzazione e la continuità di un sistema di gestione, ivi incluse le fasi di deposito e trasporto, che, per tempi e per modalità, consente l’identificazione e l’utilizzazione effettiva del sottoprodotto. Fino al momento dell’impiego del sottoprodotto, il deposito ed il trasporto sono effettuati nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 8. Resta ferma l’applicazione della disciplina in materia di rifiuti, qualora, in considerazione delle modalità di deposito o di gestione

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dei materiali o delle sostanze, siano accertati l’intenzione, l’atto o il fatto di disfarsi degli stessi”.

Con riferimento alla normale pratica industriale, invece, il successivo art. 6 prevede che “non costituiscono normale pratica industriale i processi

e le operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o dell’oggetto idonee a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare a impatti complessivi negativi sull’ambiente, salvo il caso in cui siano effettuate nel medesimo ciclo produttivo, secondo quanto disposto al comma. Rientrano, in ogni caso, nella normale pratica industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate allo specifico fine di rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della sostanza o dell’oggetto idonee a consentire e favorire, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare ad impatti complessivi negativi sull’ambiente”

Ritorna, dunque, il riferimento al ciclo di produzione in cui la sostanza è stata prodotta, ma soprattutto permangono quei riferimento introdotti nel 2010 all’impatto del trattamento sulla salute e sull’ambiente che riecheggiano da vicino quelle istanze antropocentriche di derivazione comunitaria. Naturalmente l’impatto della nuova disciplina dovrà essere attentamente vagliato, per comprendere se finalmente si riuscirà a raggiungere un risultato definitivo nella distinzione tra rifiuto e sottoprodotto, vero e proprio punto cruciale anche, come si avrà modo di dire in seguito, per

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quanto concerne le tecniche di investigazione in materia di reati nel settore dei rifiuti.

§ 2.

Terminata questa breve ricognizione relativa all’evoluzione della nozione di rifiuto, è bene ora soffermarsi, più in generale, sul sistema penalistico che regola la materia dei rifiuti, per valutarne l’effettività e l’efficienza.

In generale, bisogna considerare che la normativa penale ambientale è stata da sempre ricondotta al modello sanzionatorio c.d. “puro”. Il richiamo è, in questo caso, alla grande vastità di discipline di natura amministrativa che intervengono a regolare il fenomeno ambientale, limitandosi il diritto penale a, per così dire, “prendere atto” di una certa disciplina, sanzionandone la violazione.30 Si suole parlare, in

questo contesto, di “accessorietà” del diritto penale a quello amministrativo, laddove il riferimento all’accessorietà (non certo sconosciuto nel diritto penale, sol che si pensi alla materia del concorso di persone o all’istituto del reato complesso) cela in realtà un significativo punctum dolens della sistematizzazione penale della disciplina ambientale, ovvero quello dell’individuazione di un

minimum di offensività tale da evitare che l’agente venga punito per

la mera disobbedienza a regole dettate solo formalmente dal

30 Si rinvia per approfondimenti a GIUNTA, Ideologie punitive e tecniche di normazione nel

diritto penale dell’ambiente, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2002, 858 ss., id., Tutela dell’ambiente (diritto penale) in Enc. Dir., Annali II, Milano, 2008, MOCCIA, Dalla tutela di beni alla tutela di funzioni: tra illusioni postmoderne e riflussi illiberali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1995, PATRONO, I reati in materia di ambiente, in Riv. Trim. dir. Pen. Econ., 2000.

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