per Alessia
«Bois ton apéró, s’il te plait, et oublie ça»1 disse M.
Maulassienne guardando il comandante della Gendarmerie del villaggio; lo stesso che, appena arrivata, mi aveva convocata
in caserma “de tout urgence”2.
C’ero andata intimorita: cosa mai potevano volere da una spaesata au pair3 da poco in paese.
Nonostante le indicazioni di M.me ero stata costretta a entrare in un bistrot a chiedere informazioni. La caserma era l’edificio più brutto e grigio del corso principale. Dopo aver detto al militare all’ingresso il mio nome, ero stata fatta entrare in una sala con una fila di sedie di plastica alla parete. Mi ero seduta composta, i palmi delle mani sulle ginocchia, chiedendomi quali reati, senza essermene resa conto, avessi commesso in terra di Francia. Avevo atteso e atteso, sempre più a disagio, poi un gendarme aveva aperto la porta della stanza e mi aveva fatto segno di seguirlo fino a un ufficio dalle grandi vetrate.
Le commandant era seduto dietro la scrivania sotto la finestra; senza alzarsi aveva cominciato a parlarmi. Un francese veloce e senza pause. Per quanto mi sforzassi di capire ne ero incapace, étonné4 da quel diluvio di parole privo, almeno per me, di significato; poi, con un gesto tutto siciliano, avevo mosso i palmi aperti delle mani dall’alto verso il basso, come a comprimere l’aria: “se vuoi che ti capisca calmati. Ferma le macchine”.
E il disagio per avere compiuto quel movimento per i miei canoni così scortese, si era fuso all’ansia.
La comunicazione gestuale, però, aveva funzionato, perché il Comandante aveva cominciato a parlarmi scandendo le parole, come stesse rivolgendosi a una deficiente, ma anche se adesso riuscivo a cogliere il senso del discorso, ero, se possibile, ancora più stupita: M. Maulassienne, aveva spiegato, era un ingegnere della Edf5 con incarichi delicati e segreti, per questo la Gendarmerie lo tutelava a un “niveau un”6 di sicurezza. Si era interrotto un attimo, come a valutare quanto
aveva detto, poi aveva scrollato le spalle e continuato: le informazioni su di me erano ottime e non dovevo preoccuparmi.
Non avevo avuto il tempo di chiedergli chi mi avesse dossierato e di cosa avrei dovuto preoccuparmi, perché si era girato col busto e indicato, alla sua destra, un manifesto dai bordi rossi, su cui erano stampate una mezza dozzina di facce.
«Ils sont terroristes7» aveva detto indicandoli, ma la mia attenzione non era stata attratta da quei volti barbuti e truci, quanto dalla foto di un uomo dagli occhi spiritati e le sopracciglia foltissime, stampato su un affiche più piccolo, appeso con delle puntine alla bacheca di legno sulla sinistra della scrivania.
Non ero riuscita a trattenermi e: «Je l’ai vu au bistrot aujourd’hui. Il a acheté de la nourriture»8 gli avevo quasi urlato.
Il Comandante mi aveva guardato dubbioso, aveva mormorato qualcosa su un evaso dal carcere dipartimentale, poi aveva afferrato la radio trasmittente sulla scrivania, pronunciato frasi smozzicate e, sul crepitìo della comunicazione, aveva atteso. E io con lui, fino a quando da quel quadrato di plastica stretto tra le sue manone, era emerso un flusso di parole. Lui allora, dopo aver muggito dentro il microfono una salva di “bon…bon…bon”, si era alzato dalla scrivania e mi si era avvicinato. Sovrastandomi con tutta la sua mole agli steroidi, mi aveva guardata fisso, la mascella quadrata a meno di cinque centimetri dal mio sguardo.
In quel momento, con un sussulto di preveggenza, avevo capito quali fossero i suoi pensieri: era irritato per aver dato retta a una ragazzina dall’aria indifesa e forse un po’
ignorante.
Al bistrot nessuno aveva visto entrare o uscire l’evaso, mi aveva ruggito contro. Mi ero certamente sbagliata.
Io l’avevo ascoltato sforzandomi – retaggi della mia educazione di stampo orientale – di non contraddirlo, ma, sapevo, di non essere né ignorante né indifesa. Parlavo quattro lingue: lo spagnolo appreso dai genitori filippini, l’italiano, perché in Italia ero nata e cresciuta, l’inglese e il tedesco, acquisite con un master universitario; ed era difficile mi sbagliassi nel riconoscere le persone, perché possedevo un “gyrus fusiforme”, la funzione del cervello in grado di riconoscere i volti delle persone, molto al di sopra della media; potevo anche sembrargli indifesa, ma era solo il mio aspetto esteriore, perché, grazie agli anni di allenamenti e alle gare col gruppo sportivo dell’università, ero cintura nera di taekwondo.
Non gli avevo detto nulla di tutto questo, limitandomi a sorridergli mentre, quasi mi ordinava, di non provocare più falsi allarmi, e di seguire alla lettera le sue istruzioni.
E io, tre ore fa, avevo fatto proprio come mi aveva ordinato:
nonostante fossi sicura di avere rivisto l’evaso alla fermata del bus, nella radura vicina al bosco, avevo composto il 112, solo quando guardando oltre la vetrata del salone, lo avevo sorpreso fermo sul limitare del bosco, ad appena tre metri dalla recinzione e dal prato della villa.
La Gendarmerie era arrivata a sirene spiegate e aveva cercato tra la vegetazione e i casolari senza trovare nessuna traccia del fuggiasco. Il comandante aveva chiamato M. Maulassienne al cellulare e adesso erano tutti e due davanti a me e mi guardavano con aria di rimprovero.
«Forse avrai visto un faon9 » Maulassienne continuò paterno, forse per reazione alla mia espressione stupita alla battuta sull’aperitivo.
Il comandante però non interpretò in questo modo il mio sguardo perplesso.
«Un bambi» spiegò con aria paternalistica, ancora una volta quasi parlasse a una deficiente e non era il solo, perché proprio questo pensiero o altri non dissimili, leggevo nell’incrociarsi degli sguardi dei due.
Trattenni le lacrime di rabbia, ma non la deriva dei pensieri:
quei due, sia il saccente che l’ammasso di muscoli, non avevano idea di quello che dicevano, fuorviati dal mio aspetto minuto: l’evaso io lo avevo visto a uno sputo dalla villa e non era certamente un cerbiatto inoffensivo, anche perché, nonostante le apparenze, quegli animali sono tra i più pericolosi e aggressivi.
Leggessero Konrad Lorenz invece di pontificare.
Di nuovo, ma questa volta con maggiore difficolta nel contenermi, venni frenata dalla mia educazione.
Voltai loro le spalle, uscii dalla stanza.
M. è fuori città per quel suo segretissimo lavoro, M.me è uscita con le amiche; ha mandato un messaggio: non occorre cucinare stasera, penserà lei a portare quell’ammasso spugnoso sovraccarico di improvabili condimenti che qui chiamano pizza.
Io devo soltanto andare a prendere les enfants a l’école10.
Ci vado con la macchina; percorro la maledetta rond point11 – le ho sempre odiate le rotatorie sia quando guidavo a casa sia adesso: una gran fatica per cogliere l’attimo in cui immetterti nel traffico e uno stress infinito per non imboccare l’uscita sbagliata – percorro un pezzo di statale arrivo davanti la scuola.
Les enfants salgono in macchina sovraeccitati: Armand e Jule per avere giocato da titolari nelle rispettiva squadre in una partita del campionato studentesco, Mazzarine, la più piccola, per avere, insieme alla sua classe, fatto il bagno nel laghetto del parco scolastico. La ascolto assertiva, ma non
riesco a scacciare il ricordo di quanto quell’acqua mi fosse sembrata viscida e appiccicosa, quando, per assecondarla, mi ci ero bagnata anch’io.
Arriviamo a casa, finalmente.
Prima di aprire la porta a vetri della villa guardo il cancelletto d’accesso al prato e mi sembra di vedere un mucchietto di ghiaia sulla destra: come se qualcuno aprendo il cancello l’avesse spostata. Non ricordo di essere stata io;
forse M.me. Non mi preoccupo.
Entriamo in casa e un refolo d’aria mi sfiora la guancia, proviene, penso, dall’infisso della porta finestra della cucina non ancora riparato. Questa volta però non ha il solito odore del bosco, ma un che di acidulo e di sudore leggero.
Sono i ragazzi, mi convinco, non si saranno lavati affondo dopo lo sport. Non mi preoccupo.
Adesso devo aiutarli a disfare le cartelle, preparare la merenda e aspettare il rientro di M.me.
Mando Mazzarine in bagno perché si prepari per la doccia, io la aiuterò non appena avrò verificato quali compiti hanno assegnato ai suoi fratelli.
Sono nella stanza dei ragazzi, ho avuto soltanto il tempo di sganciare le cinture elastiche dei loro zaini, quando sento Mazzarine gridare e piangere. Mi precipito in corridoio, l’odore acido di sudore è più acuto, entro nella stanza della bambina e vedo l’evaso. Tiene stretta Mazzarine cingendola col braccio all’altezza delle spalle, appena sotto il suo mento.
Lo guardo immobile, bloccata nei pensieri.
Mazzarine vedendomi smette di gridare, scalcia, abbassa la testa, gli morde la mano, riesce a liberarsi, corre verso di me.
È un attimo: il bruto mi guarda, porta il busto in avanti per
afferrare di nuovo la bambina, perché ha deciso che non sono un pericolo, al più un cerbiatto spaurito. Ma i cerbiatti, nonostante l’aspetto, sono animali in grado di difendersi:
soprattutto se hanno praticato il taekwondo per anni.
Faccio un passo in avanti, distendo la gamba sinistra e il mio tae lo colpisce ai testicoli, lui si piega sulle ginocchia, io porto in avanti il gomito e lo colpisco in controtempo al pomo d’Adamo. L’intruso cade bocconi sul pavimento, respira a fatica, gli sono sopra, ho ancora in mano le fettucce elastiche degli zaini e gliene passo una intorno alla gola, la tendo fino a fare un nodo intorno ai suoi polsi, con l’altra gli lego stretti i talloni. Non può più muoversi, adesso, si strozzerebbe da solo.
Sono esausta, ma devo ancora fare qualcosa. Prendo il cellulare, mi avvicino a distanza di sicurezza al viso stupito dell’evaso, lo fotografo, e, prima di chiamare ancora una volta il 112, mando la foto al comandante.
Chissà se, anche questa volta, mi consiglierà di prendere un aperitivo.
Abbraccio forte Mazzarine; rido sguaiata.
Note:
1) «Bevi il tuo aperitivo e non preoccuparti»
2) «con la massima urgenza»
3) ragazza alla pari 4) stupita
5) Ente energetico francese 6) «livello uno»
7) «Sono terroristi»
8) «L’ho visto al bistrot. Ha comprato del cibo»
9) cerbiatto
10) i ragazzi a scuola 11) rotatoria stradale
Foto copertina © Ciso