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DELIRIO D ONNIPOTENZA

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Academic year: 2022

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DELIRIO D’ONNIPOTENZA

“Ich bin ein berliner” «Sono berlinese» così JFKennedy gli aveva gridato contro da un palco a ridosso del muro, la porta di Brandeburgo sullo sfondo; Jacqueline accanto a lui, aggrappata al manico della Dior. Con questa foto in bianco e nero fissata a calce nella memoria, per tutte le volte in cui l’avevo guardata sui libri, percorrevo, giovane promessa del management pubblico nazionale, il corridoio verso il volo.

Berlino ovest, esclave dell’Occidente, non eccitava i colleghi, che avevano attivato tutte le raccomandazioni possibili per ottenere destinazioni migliori; per questo ci mandavano me, orgoglio di una madre sarta e di un padre commesso.

Nel 1980 verso Berlino volavano soltanto le compagnie aeree dei vincitori la seconda guerra. Lasciatomi alle spalle i sorrisi delle hostess Alitalia, fettucciate Trussardi – eravamo il quinto paese industriale del mondo e così dovevamo presentarci – mi ritrovai prigioniero del trattamento spartano della neo privatizzata British Airways e di due addette cloni della Thacher. Ma non m’importava: volavo sull’unico corridoio aereo d’avvicinamento all’Est. Lo stesso del ponte aereo del

’49. Ero dentro la Storia. Oltre il finestrino scorreva la cortina di ferro: un’oscurità percorsa da luci giallastre.

A Tegel, appena sbarcato, si materializzò una valchiria bionda, interessata a sapere se il viaggio di herr Doktor era stato piacevole. E, accidenti, ero io herr Doktor. Si, lo era stato e herr Doktor al momento era in overdose da testosterone e lei ne era la causa. Ai controlli di frontiera, Shengen era ancora sul grembo di Giove, il fremito orgoglioso dei glutei della fraulein mi introdusse nel miracolo della mia nuova vita: il passaporto diplomatico mi esentava da dogane e burocrazia. Superai al volo i mortali in coda per ritrovarmi poco dopo in una bolla di privilegi, per me inimmaginabili soltanto poco tempo prima quando, sorretto dagli zabaioni di

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mammà, deperivo sulla tesi di diritto internazionale. In un mondo di stipendi in dollari, di uffici direzionali, di stilografiche per siglare documenti e di segretarie che pensavano a tutto. Anche al ritiro delle camicie in lavanderia, guardandoti come un semidio. Quell’Eldorado stava al 185 di Kunfusterdamm: l’Istituto Italiano del Commercio Estero. Tra una konditorei, con in vetrina enormi fette di torta, e Kaiser William Churche, detta da me, neoberlinese, la

“chiesa vecchia”.

I l m i o a r r i v o c o n f o r t ò i l D i r e t t o r e : p o t e v a , affidandomeli, affrancarsi dai lavori marginali e concentrarsi sugli inciuci per essere trasferito. Io scrivevo tabelle e relazioni o facevo la ruota a signore, infagottate in tailleur rosso Valentino e in pelliccioni di volpe, al seguito dei politici nostrani in visita pontificale. Tutte volevano fossi io a guidarle perché giovane, educato e sempre in grado di indicare, durante lo shopping, dove far pipì. Questo però, soltanto dopo aver prenotato per i consorti un tavolo al “Bel Amì” o al “Cupido”.

Erano anni formidabili. Vendevamo di tutto: dalle scarpe fuori moda, ai corpetti elasticizzati per donna, li chiamavano

“body” cambiano significato a una parola inglese e sbigottendo gli anglosassoni. Eravamo i cinesi d’Europa.

Io ero entusiasta e super eccitato per tutto questo.

Credevo potesse continuare sempre così.

All’incrocio tra Ku’damm e ZooBahnof, su un’altana, un agente della Statd Polizei dirigeva il traffico. Come nei libri di Le Carrè.

Nonostante il personale miracolo economico avevo preso casa in una zona periferica popolata da immigrati, lontana dalle luci e dai negozi del centro: TurkenStrasse, vicino check point Charlie e Postdammer Platz sfregiata dal Muro.

Potevo vederlo il Muro dalle mie finestre: una landa popolata

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da cavalli di frisia, camminamenti, torrette e dall’uggiolare dei cani, delimitata da due barriere di cemento. Lo attraversavo spesso, orgoglioso del passaporto blue della Repubblica. Sorridevo al marine di turno a Charlie e ascoltavo il gutturale accento dei “vopos” e una volta oltrepassata la terra di nessuno, le postazioni militari e il filo spinato, precipitavo in luoghi più sorprendenti di quelli che lasciavo:

facciate diroccate mi venivamo incontro ammorbate dall’odore ubiquo di cavoli bolliti e margarina cubana; ancora persistente nel ricordo. Anche il faccione di Lenin, nel giardino dell’ambasciata sovietica, ne sembrava disgustato.

Da “loro” il privilegio mi veniva dal denaro, dai vestiti, dalle scarpe italiane, dalle sigarette di marca. Al Praha caffe, ad Alexander Platz, cercavo con l’immaginazione, agenti segreti a tramare tra i tavolini di formica incontravo però soltanto ragazze, felici di venire a cena con me per consolarmi poi dalla solitudine. Davanti gli “intershop”, i negozi speciali con merci di importazione, dove avevo accesso grazie al passaporto diplomatico della cara Repubblica, alcuni passanti mi chiedevano spesso di acquistare per loro prodotti occidentali. Io guardavo le desolate vetrine del socialismo reale ed entravo. Ne uscivo con in mano il Graal: confezioni industriali di shampoo o saponi, da consegnare agli interessati dentro androni scuri. Tutto questo mi piaceva. Una volta, per due pacchetti di MS, ho potuto visitare da solo il Pergamon Museum: sono salito sull’altare di Pergamo e ho toccato la porta di Babilonia. Chi era, mi chiedevo, tra i miei amici, anche tra quelli iscritti fin dalla nascita all’ordine notarile a poterselo permettere?

Sotto gli alberi di Unter den Linten, verso Alexander Platz, non camminavo: lievitavo. Mi sentivo felice e invincibile. Sarebbe stato bello se tutto fosse durato all’infinito.

A metà di un Aprile ogni giorno più tiepido il direttore entrò nel mio ufficio, accennò l’inizio un discorso, cercò tra

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le tasche qualcosa che non aveva, piantò lì, avvolse l’aria con l’indice come a rimandare, uscì; poi, durante una pausa pranzo a base di curry wrust sulla piazza del Ka.De.We. mi confidò il proprio dramma in tutti i suoi aspetti umani:

l’Istituto era stato delegato ad assistere tre suore, studentesse dall’Università pontificia, durante la loro permanenza in città, in arrivo proprio negli stessi giorni in cui herr Direktor aveva un appuntamento irrinunciabile a Roma col proprio “politico raccomandante” a cui chiedere la sede di Londra e, per quanto ci avesse provato, non era riuscito a rinviare l’arrivo delle monache perché la Direzione generale non voleva scontentare il Vaticano.

«Posso seguirle io. Ho imparato da lei» dissi con sicurezza.

«Credevo non te la saresti sentita» rispose.

«Ho portato in giro così tanta gente su e giù per Ku- damm, perché dovrei preoccuparmi per delle monache?» risposi.

Non c’erano limiti alle mie capacità, pensavo.

Il Direttore assenti, sorrise quasi paterno, pagò in contanti senza addebitare il costo all’ufficio.

Partì di lì a poco, ventiquattrore in resta, lasciandomi signore incontrastato dell’Eden: controllavo il lavoro degli altri, concedevo le ferie agli impiegati, eccitato dal potere.

Mi sentivo invincibile e invulnerabile. Non dimenticavo le monache, però. Mi sarei impegnato allo spasimo con loro per dimostrare a tutti di cosa ero capace.

Il giorno del loro avvento le attesi in aeroporto;

azzimato e profumato come credevo dovesse presentarsi un dirigente del mio livello. Le vidi arrivare lungo il corridoio degli arrivi: tre coni neri dal passo sostenuto, con le gonne ampie e le tese laterali delle cuffie fluttuanti come ali bianche d’uccelli. Un naif vivente, sullo sfondo della pianura prussiana appena oltre le vetrate.

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Ordinaria amministrazione, avevo pensato e, senza dubbi né timori, avviai la liturgia: tra monumenti, chiese e visite ad associazioni di ricamatrici emigrate, tutto si procedeva al meglio. Le venerande ospiti si comportavano come in gita premio e assimilavano soddisfatte. Io, ogni giorno di più, avevo la certezza di riuscire a dominare tutto. Tra loro non c’era una leader, solo una più curiosa delle altre: un giorno, mentre indicavo le macerie del Reichstag appena oltre la porta di Brandeburgo, in una botta di trasgressione, mi chiese di andare di là. A vedere.

Non c’erano limiti alle mie capacità, né al trattamento a cinque stelle che le suore dovevano ricevere, perché testimoniassero al mondo le mie capacità. Potevo tutto e le avrei accontentate.

Vaticano e “l’altra parte”, si parlavano soltanto tramite la struttura diplomatica svizzera e non era facile per noi, paese Nato, ottenere visti temporanei per l’ingresso a est. Ma per me non era un problema: esibendo la mia migliore aria da bravo ragazzo corteggiai la moglie del console elvetico: come avrebbe potuto negarmi di intercedere sul marito perché ottenessi i visti? Herr Seitz, il marito, era contrario, ma non resistette all’assedio coniugale. Le suore ebbero i pass.

Io non sarei andato con loro avevo già perso troppo tempo dietro quei gonnelloni, pensavo. Avevo tutto sotto controllo.

Per un insondabile mistero della diplomazia soltanto le persone di nazionalità turca potevano transitare liberamente tra i due mondi e il mestiere più praticato tra i turchi di Berlino era quello del taxista; erano anche i meno cari e io stavo nel budget. Mi rivolsi allora a Mohammed, un baffuto immigrato, di cui a volte ci servivamo per incarichi di fiducia e insieme andammo a prendere le suore al loro albergo.

Il taxista guidando silenzioso assorbì il tono autoritario delle mie istruzioni sul percorso da seguire dall’altra parte.

Le suore aspettavano nella hall, in completi pantalone grigi

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che anticipavano di anni il “minimal” chic di Armani.

Consegnai a una di loro un piccolo registratore a cassette – allora il meglio della tecnologia, oggi soltanto un oggetto di modernariato – bastava, arrivate dall’altra parte, pressare il pulsante di avvio e una voce attoriale avrebbe descritto i singoli monumenti. Andai con loro in macchina fino a Charlie e restai sul marciapiedi anche dopo che il taxi attraversò la frontiera.

A casa mi assopii in un sonno di compiaciuto nirvana. Poi lo squillo del telefono riempì la stanza, graffiandomi l’udito. Risposi, i sensi avvolti dal torpore. Era herr Seitz.

Parlava un tedesco gutturale senza pause che, per quanti sforzi facessi proprio non capivo, lo sentivo senza ascoltarlo, mentre nella nebbia della mia mente si facevano strada le parole Mohammed, taxi, suore e io pian piano recuperai le coordinate di me stesso; fu un risveglio violento; come se il cielo mi fosse caduto sulla testa. Il tassista una volta dall’altra parte aveva perso l’orientamento ritrovandosi lui, le monache e il taxi al centro delle prove della parata del 1° Maggio, la Volkspolizai li aveva fermati, avevano sequestrato il registratore a cassetta, convinti fosse una prova dell’attività spionistica delle suore.

Il console parlava e nel mio cervello i pensieri si scontravano tra loro restituendomi panico.

Presi un taxi al volo e gridai all’autista di fare di correre e correre. Ku’damm scorreva veloce dal finestrino: non era più la strada principale del paese delle meraviglie, ma solo un buio pieno di puttane.

Nello studio di herr Seitz era accesa soltanto la lampada da tavolo, la luce si rifletteva sul ripiano di vetro della scrivania; non riuscivo a guardarlo negli occhi. Lo ascoltavo parlare al telefono, ora autoritario, ora rispettoso e non capivo il suo tedesco. Stavo in piedi di fronte a lui aspettando e quell’attesa non era misurabile col tempo, ma con

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la stretta d’ansia che provavo allo stomaco. Poi da dietro le sue spalle il bip di un fax in arrivo. Il console poggiò le mani sull’orlo della scrivania, con una spinta all’indietro avvicinò la poltrona alla macchina, ne strappò un foglio, lo lesse. Si alzò guardandomi con occhi grigi. Andava oltre il muro a prenderle, mi comunicò.

Feci per seguirlo, ma herr Seitz mi congedò. E fu come leggere i suoi pensieri: “Kaine. Kaine. Non è affare per ragazzini.”

Passai la notte in attesa, fumando. Ero affranto; e deluso per il mio fallimento; e terrorizzato per le conseguenze del mio pressapochismo: come da protocollo avrei dovuto essere con loro su quel taxi, invece di abbandonarle al caso. E, di colpo, seppi di non essere mai stato un semidio dell’Olimpo, ma soltanto un ragazzino così assorbito da se stesso da non sapere distinguere tra fantasie e realtà; solo e perso dentro una città sconosciuta e ostile

Rividi le suore l’indomani in ufficio, in buona forma ed eccitate per quanto accaduto. Avevano avuto paura, certamente, ma a ripensarci adesso, che tutto era finito, si erano divertite; adesso avevano anche argomenti, avendola vissuta, per testimoniare la barbarie di “quegli altri”. Erano lì per salutarmi, il console aveva programmato il loro ritorno per quello stesso giorno, via Zurigo. Nonostante il sollievo, ero infastidito dalla loro presenza: prove viventi, come erano, della mia sconfitta. Con la forza del pensiero le spinsi fuori dall’Istituto.

Herr Seitz, quando chiamai per ringraziarlo, fu paterno ma brusco: aveva altro da fare, quella storia per lui, era finita.

Evitando gli sguardi dei colleghi, aspettai, barricato in ufficio, il ritorno del Direttore e le reazione della Direzione Generale.

I giorni passarono pieni della solita burocrazia e

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quando, il Direttore tornò era allegro e disteso; come se le suore non fossero mai esistite e nulla fosse accaduto. Ma non era così per me: avevo il cuore sulle montagne russe, evitavo di guardarlo negli occhi.

«Sei troppo agitato» mi chiese «cosa ti succede?»

Sforzandomi di non balbettare affrontai l’argomento, scusandomi e scusandomi.

Alle mie parole la sua allegria si moltiplicò, facendomi sentire ridicolo. Mi poggiò una mano sulla spalla, rise ancora.

«Non hai di preoccuparti; le monache non ci riguardano più: se ne occupano gli Esteri, come avrebbero dovuto fare dall’inizio. Scrivi una relazione e dimentica. E in Direzione sono soddisfatti per come hai affrontato l’emergenza e attivato gli svizzeri»

Tirò su col naso, passò una mano tra i capelli e, con aria complice, mi confidò di essere in partenza per Londra. Al Ministero gli aveva garantito il trasferimento. E questo, in parte, era anche merito mio che lo avevo sostituito. La smettessi di pensare alle monache e gli dicessi, invece, in che modo poteva ricambiare il favore.

«Mi conceda un mese di ferie. Voglio tornare da mia madre» risposi.

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Il punto d’incontro di due rette parallele

Era in piedi, le spalle alla parete, al riparo. Guardò oltre la finestra: lo scirocco soffiava sulla campagna, i muretti a secco, le masserie, i filari di vite; tutto si confondeva in un’aurea da miraggio. Al centro del cortile vide una macchina ferma sotto l’ombra del grande ulivo e si confortò: ormai un cordone di sicurezza circondava l’agriturismo: non erano più in pericolo.

«Mi stordisce questo posto, comandante Lupo» lei disse

«dopo quello che abbiamo passato».

Alle spalle di Lupo il condizionatore combatteva monocorde la battaglia contro la calura. Nella stanza un tavolo, due sedie, un fornello su cui gorgogliava una moka, due tazze di porcellana; anche se la fuga era finita i suoi sensi, però, rimanevano vigili: avvertì espandersi l’odore del caffè e sul filo di quell’aroma, i ricordi del loro recente passato si ripresentarono non invitati.

E fu di nuovo a Tel Aviv, al tavolino di un bar, ad aspettare.

Il suo mestiere era fatto d’attese e paura: dell’attesa di un segnale che confermasse la riuscita di un’operazione; della paura per la propria vita, per quella degli altri; per la missione sempre sul punto di abortire. Ma poi eccola arrivare;

sedere, senza guardarlo, a un altro tavolo, giocare con gli occhiali da sole, ordinare un caffè e scacciare, con la sua presenza, ansia e tensione.

In Lupo la certezza di portare avanti l’operazione e il sollievo di rivederla si sovrapponevano. Perché, anche se disciplina e mestiere gli impedivano di ammetterlo, lei era diventata importante quanto la riuscita della missione. E adesso era lì, a tre metri; al collo i grani di una collana di

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corallo. Un codice: confermava l’invio, nell’ufficio import- export usato dal Servizio come base operativa, di un pony express. Chi nota un fattorino nell’atrio di un grattacielo commerciale? Avrebbe consegnato una busta con dentro un foglio fitto di numeri e conti bancari. Un altro tassello al tradimento di lei.

Lupo avrebbe voluto parlarle, rassicurarla e rassicurarsi, ma erano in pubblico, costretti dalla copertura. Per tutti lui era un organizzatore culturale e lei la frequentatrice, poco assidua, di conferenze e mostre: tra loro doveva apparire soltanto una cordialità distaccata e formale. Lei, perfetta nella parte, gli dedicò un sorriso accennato e un saluto col capo. Poi si alzò passandogli vicino. Lo sguardo di Lupo la seguì fino alla Mercedes, guidata da un arabo robusto, con cui andò via.

Come sempre si scoprì turbato da lei e desiderò smettesse il doppio gioco, sempre più pericoloso, e si salvasse. Era stata per Lupo, fino ad un anno prima, soltanto una figura sullo sfondo della caccia a Saled Katami, il padre/padrone di un’organizzazione travestita da austera finanziaria internazionale, ma sempre pronta a sostenere con uomini e mezzi il terrorismo internazionale. Un’appariscente bellezza dai capelli ramati e dal corpo florido; arrivava alle mostre, con l’aria barocca delle donne mediorientali laiche e abbienti quando indossano abiti occidentali, scortata a distanza dall’autista arabo. Tutti la accoglievano e la corteggiavano, perché era il giocattolo personale di Katami.

A Lupo appariva lontana dal quel mondo e mai avrebbe pensato potesse rivelarsi l’anello debole della catena. Invece un giorno era arrivata in Istituto, col pretesto di iscriversi a un corso di cucina e gli aveva consegnato un foglietto.

«Ho copiato questi numeri dal pc di Saled. Non so. Forse possono esserti utili» gli aveva detto; a Lupo erano bastati pochi secondi per rendersi conto: quel foglietto manoscritto

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con numeri satellitari, e-mail e nomi di società, era la prima crepa alle difese di Katami. Aspettava quel momento da anni, ma non aveva avvertito nessun senso di trionfo, si era s o r p r e s o , a n z i , a f a r e i c o n t i c o n l a p a u r a p e r i l coinvolgimento di lei. Per arginare la deriva dei pensieri si era rifugiato nell’ortodossia del mestiere. Brusco aveva intascato il biglietto, sforzandosi di non pensare. Si era limitato a guardare le rughe d’espressione ai lati degli occhi di lei e a pensare che mai si sarebbe perdonato, se le fosse capitato qualcosa.

Lei ne aveva retto lo sguardo e indicato un poster promozionale.

«Ho imparato la lingua dalle suore. Sono cresciuta in istituto, sai. Ora voglio vederlo di persona il tuo paese»

aveva detto, Facendo tintinnare i braccialetti al polso.

«Ci andrai, quando sarà finita. È un impegno».

Per mesi le sue informazioni avevano dato lavoro agli analisti e guidato l’azione del Servizio. Almeno fino a quando Lupo non l’aveva vista, sulla terrazza di un locale sul Mediterraneo, pallida in viso, portare a tracolla una borsa gialla. Un segnale concordato di pericolo. Mi sospettano e ho paura, diceva quel codice. Lupo aveva avvertito lo stomaco accartocciarsi e compreso: l’unica soluzione era la fuga. Via da Tel Aviv. Verso casa.

In poche ore – secoli al suo senso d’urgenza – la finestra di fuga venne ristudiata, ricontrollata, attivata.

La mattina dopo Lupo fu di fronte una palazzina grigia, pregando perché quel giorno lei rispettasse il consueto appuntamento dal parrucchiere. Quando l’aveva vista scendere dalla Mercedes seguita dall’autista e da un altro giannizzero aveva dato il via agli uomini, con rabbia e sollievo. Nel ricordo l’azione gli sembrava essersi svolta come al rallentatore, sovrastata dal battito anomalo del suo cuore;

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per entrare nel negozio occorreva attraversare un atrio:

avevano agito lì e sorpreso i due mastini. Lui stesso aveva colpito, con un calzino pieno di monete, l’autista alla nuca, sferrandogli poi un calcio ai testicoli.

Era salita sulla loro macchina muta, pallida e stupita. Lui le si era seduto accanto.

«Hai paura?» le aveva chiesto, mentre le palme del lungomare scorrevano dal finestrino. Lei aveva intrecciato le dita delle mani, s’era addossata allo schienale, socchiuso gli occhi e ispirato forte, senza rispondergli.

Insieme l’agente e la sua fonte, nascosti nella stiva di una petroliera Eni, avevano raggiunto Malta. Da lì, con un catamarano di linea, Pozzallo, mischiati alla torma dei frequentatori del casinò.

A Ibla, di fronte al duomo di San Giorgio, come due escursionisti qualunque tra gente qualunque. Seguendo una procedura mandata a memoria da sempre, Lupo era entrato nell’ufficio turistico della piazza e chiesto informazioni su un particolare arredo del castello di Donnafugata. Gli avevano consegnarono una busta; all’interno vi aveva trovato il cartoncino pubblicitario di un agriturismo, la casa sicura scelta per loro, e le chiavi di una macchina. Doveva portarla là e ricominciare ad attendere, come sempre aveva fatto in tutta la sua vita di spia. Succube di un riflesso pavloviano aveva percorso il basolato al braccio di lei e raggiunto un’utilitaria posteggiata appena oltre la zona pedonale.

In macchina, assecondando i tornanti della collina, tra camion e station wagon di gitanti, non avevano parlato; assorbiti ciascuno dal sollievo che sembrava spingere avanti la vecchia Uno.

Lo sfrigolìo della moka allontanò quei ricordi. Il caffè era pronto. Lo versò nelle tazze. Lei era in piedi e lo guardava intensa.

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«Perché stai così lontano da me?» chiese.

«Per non spaventarti».

«Sei sempre così premuroso?»

«È una regola: mai turbare una fonte».

Lei prese la tazza, vi soffiò sopra. Lupo rivisse nella memoria tutte le volte in cui, durante gli appostamenti, l’aveva vista compiere quel gesto: nei night o seduta ai tavolini di un caffè. Con lo sguardo di chi non vuole essere carina lei bevve un lungo sorso e lui non poté trattenersi dal guardarle le labbra: una stilla di caffè si distribuiva a delta tra i solchi che le percorrevano quando assumeva quell’espressione dura.

S’era cambiata d’abito e Lupo scoprì di avere di nuovo di fronte la donna di sempre e non più, come durante la fuga, il suo clone infagottato.

La fissò come fosse la prima volta: la giacca del tailleur le conteneva con difficoltà le forme, affondò lo sguardo nel solco dei suoi seni e avvertì un desiderio d’intimità e tenerezza, ma era in azione e non poteva permettersi fantasie.

Arginò la carica del testosterone e si costrinse a guardare altrove.

«Sono abituata a questi sguardi e a quello che viene dopo»

lei disse.

Lo sguardo di Lupo si posò sulla forma delle labbra di lei stampate dal rossetto sul bordo della tazzina. ‘Non sei più quella che ho sorvegliato per tante notti’ pensò ‘non è indelebile il tuo rossetto. Non avresti usato cosmetici di cattiva qualità prima’.

«Perché hai scelto noi per tradire Katami?» le chiese d’istinto. Teneva la tazza di caffè tra le mani e il tepore lo confortava.

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«Sei stato tu» lei rispose sparandogli addosso gli occhi nero vino «vivevo con Saled e non m’importava da dove venisse il suo denaro. Poi sei arrivato tu e ho cominciato a chiedermi se fosse giusto continuare a non vedere. Ho seguito te».

«Hai tradito Katami perché avevi già deciso a farlo» Lupo rispose d’impulso, maledicendo ancora una volta se stesso: mai disilludere una fonte. Ma con lei in quella stanza, scopriva di non essere più in grado di difendersi.

«Mi confondi, comandante Lupo» lei riprese, come se comprendesse i pensieri di lui «mi parli e m’innamoro di te.

Poi segui i tuoi pensieri e diventi un’altra persona e anche di questa m’innamoro. Ma tu non smetti e cambi di nuovo. Sei così con tutte le tue donne?»

«Tu non sei una delle mie donne, signorina Schiraz».

«Perché mi hai portata qui allora, perché mi hai salvato la vita?»

«Perché i Servizi di mezzo mondo vogliono usare le tue informazioni contro Kaled, perché Forza 17 vuole ucciderti, il Mossad interrogarti prima che questo accada e anche noi vogliamo la nostra parte e perché questo non è un gioco tra gentiluomini. Vuoi altri perché?»

Lupo finì il caffè. Ne avvertì il gusto amaro precipitargli in gola e per un attimo s’illuse di avere ristabilito i ruoli:

lui il controllore, lei la fonte da proteggere e sfruttare.

Solo questo, niente di più.

«Cosa c’entra questo con noi due» Schiraz gli rispose, scrollò le spalle, proseguì:

«Ho avuto paura quando Saled mi ha scoperta e quando mi avete portato via. Ma adesso è finita. Sono stata povera. Non sai le violenze che ho sopportato per uscirne. Non erano gentiluomini neanche quelli con cui andavo a letto. Ho sopportato e sono

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sopravvissuta. Ci riuscirò anche questa volta» disse con decisione.

Lupo guardò dentro la tazza: alcune linee marrone, simili a lacrime, convergevano verso il fondo mischiandosi tra loro.

‘Come nella vita’ pensò ‘ciascuno per la sua strada ma tutti attratti da uno stesso centro di gravità’. E forse quella stanza era il loro.

Fu sul punto di chiederglielo, ma Schiraz lo prevenne: «La mia vita è cambiata e da adesso voglio essere io a scegliere».

Poi gli s’avvicinò e Lupo scoprì di volere attraversare la distanza tra loro, qualunque fosse. Si abbracciarono e in quel gesto, transitò tutta la loro vita passata, le paure, le ansie e i sentimenti che li avevano condotti tra quelle mura. Ma nessuno dei due, per quanto lo desiderasse, riuscì a liberarsi della soma trascinata fin lì.

«È stata una cosa da fidanzati» le disse nella penombra.

«È stata solo la passione tra due adulti. Non ha senso una storia tra noi» Shiraz disse.

L’agente dentro di lui non poté darle torto. Non aveva parole.

Quanto accaduto tra loro era soltanto un altro conto pagato alla vita: l’intersecarsi di due esistenze subito allontanate.

La guardò negli occhi in silenzio.

Poi gli squilli del telefono interno, annunciarono l’arrivo degli inquisitori.

Erano in tre, guidati da una donna: giovane e sottile, non un filo di trucco. Indossava un pantalone minimal chic, da kapò;

parlò per tutti: da quel momento, sottolineò, la testimone – così chiamo Schiraz – era sotto la loro tutela. Lupo comprese di essere superfluo: l’operazione passava ai ‘regolari’. Gli era sempre stato difficile sopportarli, ma anche loro non sbavavano per gli ‘amici’. Interessi di bottega nel naturale

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ordine delle cose. Non dissimulò un ghigno di disgusto.

Schiraz li guardava tutti come se nulla potesse più importale.

«Sarai sola da adesso. Bada a te» Lupo le disse «Saprò guardarmi» lei gli sorrise.

«Ne sono certo, signorina Schiraz» Lupo rispose e uscì;

continenti interi ormai li separavano.

Guidò nell’afa verso le luci di Modica.

Doveva ancora officiare l’ultima liturgia della missione: il rapporto a Ulisse.

Camminò a piedi lungo la strada principale, a metà del viale giunse al portone di un edificio appena restaurato, all’altezza del suo sguardo la targa d’ottone di un ristorante; all’interno non più di sei tavoli imbanditi, su ciascuno una candela accesa.

Ulisse era a un tavolo d’angolo. Gli sedette di fronte.

«Ho ordinato per due» disse a Lupo e poi, come a concludere un discorso pensato tra sé: «È stato un buon lavoro».

Servirono una mousse decorata da chicchi caffè tostati, a Lupo ricordarono i capezzoli di Schiraz.

«Voglio continuare ad occuparmene» disse, mentre Ulisse penetrava la gelatina col cucchiaio.

Ulisse strinse le labbra, le arricciò, scosse il capo.

«Sei troppo coinvolto» disse.

«Lascerò il Servizio, altrimenti».

«Puoi farlo, ma non la riavrai per questo. Incastrerà Katami e noi la nasconderemo. Sono le regole. Dovrai

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accettarle».

«Andrò via lo stesso. Sono troppo stanco».

«Hai solo bisogno di tempo».

La parte razionale di lui, condivideva le ragioni di Ulisse:

se avesse lasciato, col tempo avrebbe cominciato a odiare Schiraz: il loro era stato soltanto l’incontro casuale di due parallele.

Lupo avrebbe voluto urlare, rovesciare il tavolo in terra, ma:

«Non sarà una cosa breve, lo capisci» si limitò a dire.

«Abbiamo tutto il tempo del mondo» Ulisse gli rispose, pagò il conto, andò via.

Lupo si preparò a passare la notte in città. Il Servizio gli aveva prenotato un albergo affacciato sui vicoli. Dette al portiere documenti falsi e un nome d’arte. Una prassi di sicurezza ripetuta da sempre in automatico, ma questa volta nel farlo avvertì una solitudine indicibile.

Una volta in camera, uscì sul balcone a fumare. La brace della sigaretta tremava davanti ai suoi occhi. Non riuscì a resistere e fu di nuovo sulla strada.

Camminò a testa bassa per il corso, attratto dall’insegna luminosa dell’unico bar ancora aperto. All’interno pochi avventori silenziosi. Nessuno si meravigliò del suo ingresso, né lo guardò con curiosità: l’ora tarda e l’aria pesta facevano di lui un membro d’elezione del club. Un giovane biondo reggeva in mano un bicchiere con all’interno un liquore rubino. Scuoteva la testa, sussurrava a se stesso. Lupo, senza capire perché, gli si sentì sodale.

‘Non c’è età per perdere la partita della vita’ pensò. Accese una sigaretta, ne seguì con lo sguardo il consumarsi. Tutto e r a i m m o b i l e . A c q u i s t ò i l g i o r n a l e l o c a l e d a u n extracomunitario. Lo spiegò sul tavolo: la crisi economica

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avanzava, ma il governo annunciava provvedimenti; una nuova sopraelevata avrebbe decongestionato il traffico in città. La banalità di quelle informazioni lo sconvolse e comprese come il mondo andasse avanti lo stesso, indifferente alle disperazioni di ognuno. Vide su una pagina interna del giornale, di spalla a molte colonne, la foto in bianco e nero di una donna. Non ebbe bisogno della didascalia per riconoscere la donna a cui aveva consegnato Schiraz. A lei, magistrato in trincea si dovevano, raccontava l’articolo, gli arresti di alcuni esponenti mafiosi. Da domani sfruttando le informazioni di Schiraz, sarebbe diventata un eroe, pensò. Ma tutto questo aveva una vita autonoma, ormai. Non serviva combattere: le cose andavano avanti lo stesso.

Guardò il ragazzo biondo a pochi passi da lui: aveva le lacrime agli occhi e lui, in quelle lacrime, misurò tutta la propria impotenza. Avrebbe voluto andargli vicino, consolarlo per la sua pena, qualunque fosse. Ma ormai sapeva: non ci sarebbe riuscito. Tutto sarebbe andato come doveva e quel dolore era inutile.

Rimase seduto e ordinò un espresso, lo condì con molto zucchero: l’unica dolcezza che poteva permettersi ormai.

Chiluzzo

per Mathilde

Era una biondina dal bel seno e dalla pelle bianchissima;

senz’altro straniera.

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Aveva in affitto un appartamento, ricavato all’interno delle antiche mura della città, con un balconcino stretto e lungo a non più di un metro e mezzo al di sopra del banco di marmo su cui Chiluzzo tagliava ogni giorno tranci di pesce spada, svuotava calamari, apriva con un coltello acuminato ostriche e ricci da servire ai turisti del “molto, molto pittoresco” ristorante in cui lavorava.

Era stata subito adottata dalla gente della piazza.

Soltanto all’inizio, appena arrivata, due malacarne l’avevano seguita intenzionati a scipparla, ma era bastato il fremito della “panza” del “signò” Ciro a farli allontanare.

Quando “l’inglisa”, come da subito avevano cominciato a chiamarla, indossando un cappello di paglia e un caffetano azzurro, traversava piazza Kalsa diretta al mare, a visitare un monumento o chissà dove, tutti la guardavano: i venditori ambulanti, gli sfasciacarrozze, gli sfaccendati seduti ad ascoltare alla radio canzoni neomelodiche, le donne dietro i banchetti delle sigarette di contrabbando e anche Chiluzzo s’imbambolava a osservarla e smetteva di impilare i cartoni di birra sul carrellino.

Il movimento dell’orlo del caffetano gli ricordava quello delle onde del mare e lo calmava: perché in lui, da sempre, o almeno da quando era in grado di ricordare, covava una rabbia contro tutto e tutti: per il proprio aspetto, troppo basso e peloso; per il suo lavoro in nero, per quel continuo squamare pesci che altri avrebbero mangiato. Era come avere un gatto aggrappato allo stomaco. A volte era più feroce degli altri giorni e lui doveva sforzarsi per non aggredire qualcuno, così, senza motivo. Riusciva a calmarsi solo quando strappava il grumo sanguinolento delle interiora dai pesci sul banco e le gettava ai gatti in attesa o quando guardava “l’inglisa”.

Una mattina gli era passata così vicina da essere riuscito ad avvertire il suo profumo. Più di una volta guardandola camminare, inebetito e stupito al tempo stesso, aveva rischiato di far cadere le cassette di birra dal carrellino. E Ninì, il principale, lo aveva richiamato.

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«Unnè cosa tua. Pensa a travagghiari1»

Lui aveva continuato a sollevare le casse, indifferente, perché, si consolava, aveva un altro posto, solo suo, per guardarla indisturbato.

La sera quando l’alogena era accesa sul bancone da lavoro la luce lambiva la strada da cui sarebbe tornata; bastava aspettare e alzare ogni tanto lo guardo verso il balconcino.

Una volta era anche venuta a cena al ristorante, ma non era stato come lui aveva immaginato.

Era arrivata in compagnia di un ragazzo dalla camicia firmata e le scarpe lucide. Chiluzzo lo aveva odiato con tutte le proprie forze e ancora di più. Aveva odiato anche se stesso, per quel suo lavoro da niente che gli impediva di uscire da dietro il bancone e saltare addosso a quel fighetto.

Anche se i due erano molto vicini, non riusciva a distinguere il profumo di lei, coperto da quello della colonia dell’altro, costata, lo sapeva, almeno quanto il suo guadagno di una settimana di lavoro.

Si era vendicato, però: quando il ragazzo aveva ordinato di gamberoni glieli aveva serviti senza togliere il tratto scuro dell’intestino. Mangiasse anche la cacca: lo meritava.

L’inglisa invece gli aveva dato soddisfazione: alla fine della cena, dopo aver bevuto con calma il limoncello della casa si era alzata, aveva rivolto poche parole al suo accompagnatore, lo aveva salutato con un cenno rapido della mano ed era andata via.

Chiluzzo l’aveva seguita con lo sguardo fino a quando l’aveva vista girare l’angolo, mentre, il ragazzo guardava

“imparpagliato” la punta dei propri mocassini, pagava il c o n t o . L u i , i n v e c e , a v e v a a s p e t t a t o c h e l a l u c e dell’appartamento sopra la sua testa si accendesse e solo allora si era concesso un sorriso.

Non avrebbe saputo dire, ma forse quella sera era stato felice.

La serata era torrida.

Le finestre delle case, anche di quella sul banco del

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pesce, erano spalancate.

Chiluzzo raccolse con le dita della mano uno sbuffo d’acqua dalla bacinella accanto a lui, la spruzzò sui pesci del bancone, guardò verso l’alto. Senza nessuno sforzo, se non quello di alzarsi sulle punte delle scarpacce da lavoro, la vide passare e ripassare dietro le imposte aperte, sedere sul divano giallo, alzarsi, andare nell’altra stanza, tornare, con la stessa leggerezza di quando traversava la piazza.

La spiò attento, gli occhi spalancati.

Poi l’inglisa chiuse le tende e a lui non rimase altro che osservare la sagoma di lei muoversi nella controluce.

Alla fibrillazione si sostituì la delusione e Chiluzzo ricominciò, stizzito, a sventrare pesci e ad aprire frutti di mare, ma quella era una sera d’afa, scirocco e sorprese, perché, cinque minuti dopo, l’inglisa riaprì le tende e si affacciò, sporgendosi verso il filo di metallo usato per stendere la biancheria.

Per Chiluzzo fu un’apparizione: se avesse alzato il braccio avrebbe potuto toccarle le mani. La guardò ancora e ancora: aveva i piedi scalzi e indossava qualcosa di bianco, lungo appena oltre il ginocchio. Sembrava, pensò, uno di quei dolci d’albume preparati da sua nonna quando lui era bambino.

Più che un ricordo era una sensazione, come sentirsi dentro un silenzio simile a quello dei corridoi delle elementari quando, durante le ore di lezione, lo allontanavano dall’aula; un estraniarsi ovattato che però sparì quando un alito di vento caldo mosse le foglie degli alberi e un cameriere batté sul banco per sollecitare la spigola alla brace da servire. Lui tolse in automatico il grosso pesce dalla griglia, lo dispose sul piatto di portata, continuò a guardare verso il balconcino.

L’inglisa scosse oltre la ringhiera qualcosa di azzurro che si distese nell’aria con uno schiocco. Chiluzzo riconobbe il caffetano: lo aveva lavato e lo stendeva ad asciugare. Lo aveva appena ripiegato sul filo di metallo, quando una raffica di scirocco lo agitò, lo gonfiò, lo fece volare prima che lei potesse fissarlo con le mollette.

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Chiluzzo lo vide fluttuare nell’aria, cadere e scivolare all’interno dello spazio tra il banco frigo e il muschio delle mura.

L’inglisa arrivò subito dopo: girò l’angolo e andò, quasi di corsa, verso il banco. Cercò con lo sguardo in direzione del punto in cui sarebbe dovuto essere il caffetano, non lo trovò, si voltò confusa verso Chiluzzo. Sulla lunga maglietta bianca aveva stampato il volto colorato di Minnie, non era più scalza, ma indossava delle infradito di cuoio.

A Chiluzzo sembrò una di quelle modella della pubblicità.

Non ebbe esitazioni: afferrò il coltellaccio più lungo, si distese sul ripiano del banco frigo, ficcò la mano col coltello nella fessura, armeggiò nello scuro fino a quando arpionò il caffetano e lo tirò fuori. Con quel pezzo di stoffa pendente dal coltello si sentì un eroe. Saltò giù, tolse il caffetano dalla punta della lama, lo ripiegò al meglio, lo porse all’inglisa.

«Grazie» lei gli disse.

Fece per parlargli ancora, si bloccò a inseguire un pensiero, indicò se stessa.

«Marianne» proseguì.

Chiluzzo era confuso, incapace di pensare.

«Michele. Micheluzzo» riuscì però a dirle.

«Grazie allora Michele» lei continuò.

Chiluzzo si confuse ancora di più; anche se all’esterno sembrava calmo dentro di lui tremava e tremava: mai fino ad allora l’altra gli aveva parlato e gli era stata così vicina.

«Sei inglese?» trovò il coraggio di chiederle per prolungare quel momento.

«Francese» lei rispose «di La Rochelle».

Chiluzzo aveva una vaga idea di quanto fosse lontana la Francia da piazza Kalsa, figurarsi sapere dove fosse La Rochelle; ma, in quel momento, fu certo di sapere su Marianne qualcosa di sconosciuto agli altri del quartiere e seppe, anche, che avrebbe conservato nel proprio ricordo quel momento di confidenza, come un attimo di intimità condivisa.

Nella sua percezione fu come vivere sospeso all’interno di

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un lungo momento sognante, ma, nella realtà, tutto durò pochissimo: il tempo che Marianne impiegò a posargli la mano sull’avambraccio, a ritirarla.

«Grazie ancora Michele» disse poi, prima di andare via.

Chiluzzo rimase imbambolato, il coltellaccio in mano.

Strusciò piano la lama del coltello sul palmo, come ad affilarlo.

«Pensa a travagghiari. Un t’annappiari. Un tinnipao infortunio2» Ninì gli urlò.

Lui allora tornò al bancone, aprì il ventre di un grosso capone steso sul marmo, ne tirò fuori le viscere, le buttò in terra, lo decapitò con una mannaia e con colpi ripetuti e violenti lo ridusse a tranci.

“Non è per te. Pensa a lavorare”

1.

“Pensa a lavorare. Non ti pago se ti infortuni”

2.

Tutte le immagini contenute in questo articolo sono state prese dai link segnalati e/o dal web per puro scopo divulgativo, tutte le altre sono soggette a copyright. Foto copertina © Elio Carreca

Effetto Bambi

per Alessia

«Bois ton apéró, s’il te plait, et oublie ça»1 disse M.

Maulassienne guardando il comandante della Gendarmerie del villaggio; lo stesso che, appena arrivata, mi aveva convocata

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in caserma “de tout urgence”2.

C’ero andata intimorita: cosa mai potevano volere da una spaesata au pair3 da poco in paese.

Nonostante le indicazioni di M.me ero stata costretta a entrare in un bistrot a chiedere informazioni. La caserma era l’edificio più brutto e grigio del corso principale. Dopo aver detto al militare all’ingresso il mio nome, ero stata fatta entrare in una sala con una fila di sedie di plastica alla parete. Mi ero seduta composta, i palmi delle mani sulle ginocchia, chiedendomi quali reati, senza essermene resa conto, avessi commesso in terra di Francia. Avevo atteso e atteso, sempre più a disagio, poi un gendarme aveva aperto la porta della stanza e mi aveva fatto segno di seguirlo fino a un ufficio dalle grandi vetrate.

Le commandant era seduto dietro la scrivania sotto la finestra; senza alzarsi aveva cominciato a parlarmi. Un francese veloce e senza pause. Per quanto mi sforzassi di capire ne ero incapace, étonné4 da quel diluvio di parole privo, almeno per me, di significato; poi, con un gesto tutto siciliano, avevo mosso i palmi aperti delle mani dall’alto verso il basso, come a comprimere l’aria: “se vuoi che ti capisca calmati. Ferma le macchine”.

E il disagio per avere compiuto quel movimento per i miei canoni così scortese, si era fuso all’ansia.

La comunicazione gestuale, però, aveva funzionato, perché il Comandante aveva cominciato a parlarmi scandendo le parole, come stesse rivolgendosi a una deficiente, ma anche se adesso riuscivo a cogliere il senso del discorso, ero, se possibile, ancora più stupita: M. Maulassienne, aveva spiegato, era un ingegnere della Edf5 con incarichi delicati e segreti, per questo la Gendarmerie lo tutelava a un “niveau un”6 di sicurezza. Si era interrotto un attimo, come a valutare quanto

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aveva detto, poi aveva scrollato le spalle e continuato: le informazioni su di me erano ottime e non dovevo preoccuparmi.

Non avevo avuto il tempo di chiedergli chi mi avesse dossierato e di cosa avrei dovuto preoccuparmi, perché si era girato col busto e indicato, alla sua destra, un manifesto dai bordi rossi, su cui erano stampate una mezza dozzina di facce.

«Ils sont terroristes7» aveva detto indicandoli, ma la mia attenzione non era stata attratta da quei volti barbuti e truci, quanto dalla foto di un uomo dagli occhi spiritati e le sopracciglia foltissime, stampato su un affiche più piccolo, appeso con delle puntine alla bacheca di legno sulla sinistra della scrivania.

Non ero riuscita a trattenermi e: «Je l’ai vu au bistrot aujourd’hui. Il a acheté de la nourriture»8 gli avevo quasi urlato.

Il Comandante mi aveva guardato dubbioso, aveva mormorato qualcosa su un evaso dal carcere dipartimentale, poi aveva afferrato la radio trasmittente sulla scrivania, pronunciato frasi smozzicate e, sul crepitìo della comunicazione, aveva atteso. E io con lui, fino a quando da quel quadrato di plastica stretto tra le sue manone, era emerso un flusso di parole. Lui allora, dopo aver muggito dentro il microfono una salva di “bon…bon…bon”, si era alzato dalla scrivania e mi si era avvicinato. Sovrastandomi con tutta la sua mole agli steroidi, mi aveva guardata fisso, la mascella quadrata a meno di cinque centimetri dal mio sguardo.

In quel momento, con un sussulto di preveggenza, avevo capito quali fossero i suoi pensieri: era irritato per aver dato retta a una ragazzina dall’aria indifesa e forse un po’

ignorante.

Al bistrot nessuno aveva visto entrare o uscire l’evaso, mi aveva ruggito contro. Mi ero certamente sbagliata.

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Io l’avevo ascoltato sforzandomi – retaggi della mia educazione di stampo orientale – di non contraddirlo, ma, sapevo, di non essere né ignorante né indifesa. Parlavo quattro lingue: lo spagnolo appreso dai genitori filippini, l’italiano, perché in Italia ero nata e cresciuta, l’inglese e il tedesco, acquisite con un master universitario; ed era difficile mi sbagliassi nel riconoscere le persone, perché possedevo un “gyrus fusiforme”, la funzione del cervello in grado di riconoscere i volti delle persone, molto al di sopra della media; potevo anche sembrargli indifesa, ma era solo il mio aspetto esteriore, perché, grazie agli anni di allenamenti e alle gare col gruppo sportivo dell’università, ero cintura nera di taekwondo.

Non gli avevo detto nulla di tutto questo, limitandomi a sorridergli mentre, quasi mi ordinava, di non provocare più falsi allarmi, e di seguire alla lettera le sue istruzioni.

E io, tre ore fa, avevo fatto proprio come mi aveva ordinato:

nonostante fossi sicura di avere rivisto l’evaso alla fermata del bus, nella radura vicina al bosco, avevo composto il 112, solo quando guardando oltre la vetrata del salone, lo avevo sorpreso fermo sul limitare del bosco, ad appena tre metri dalla recinzione e dal prato della villa.

La Gendarmerie era arrivata a sirene spiegate e aveva cercato tra la vegetazione e i casolari senza trovare nessuna traccia del fuggiasco. Il comandante aveva chiamato M. Maulassienne al cellulare e adesso erano tutti e due davanti a me e mi guardavano con aria di rimprovero.

«Forse avrai visto un faon9 » Maulassienne continuò paterno, forse per reazione alla mia espressione stupita alla battuta sull’aperitivo.

Il comandante però non interpretò in questo modo il mio sguardo perplesso.

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«Un bambi» spiegò con aria paternalistica, ancora una volta quasi parlasse a una deficiente e non era il solo, perché proprio questo pensiero o altri non dissimili, leggevo nell’incrociarsi degli sguardi dei due.

Trattenni le lacrime di rabbia, ma non la deriva dei pensieri:

quei due, sia il saccente che l’ammasso di muscoli, non avevano idea di quello che dicevano, fuorviati dal mio aspetto minuto: l’evaso io lo avevo visto a uno sputo dalla villa e non era certamente un cerbiatto inoffensivo, anche perché, nonostante le apparenze, quegli animali sono tra i più pericolosi e aggressivi.

Leggessero Konrad Lorenz invece di pontificare.

Di nuovo, ma questa volta con maggiore difficolta nel contenermi, venni frenata dalla mia educazione.

Voltai loro le spalle, uscii dalla stanza.

M. è fuori città per quel suo segretissimo lavoro, M.me è uscita con le amiche; ha mandato un messaggio: non occorre cucinare stasera, penserà lei a portare quell’ammasso spugnoso sovraccarico di improvabili condimenti che qui chiamano pizza.

Io devo soltanto andare a prendere les enfants a l’école10.

Ci vado con la macchina; percorro la maledetta rond point11 le ho sempre odiate le rotatorie sia quando guidavo a casa sia adesso: una gran fatica per cogliere l’attimo in cui immetterti nel traffico e uno stress infinito per non imboccare l’uscita sbagliata – percorro un pezzo di statale arrivo davanti la scuola.

Les enfants salgono in macchina sovraeccitati: Armand e Jule per avere giocato da titolari nelle rispettiva squadre in una partita del campionato studentesco, Mazzarine, la più piccola, per avere, insieme alla sua classe, fatto il bagno nel laghetto del parco scolastico. La ascolto assertiva, ma non

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riesco a scacciare il ricordo di quanto quell’acqua mi fosse sembrata viscida e appiccicosa, quando, per assecondarla, mi ci ero bagnata anch’io.

Arriviamo a casa, finalmente.

Prima di aprire la porta a vetri della villa guardo il cancelletto d’accesso al prato e mi sembra di vedere un mucchietto di ghiaia sulla destra: come se qualcuno aprendo il cancello l’avesse spostata. Non ricordo di essere stata io;

forse M.me. Non mi preoccupo.

Entriamo in casa e un refolo d’aria mi sfiora la guancia, proviene, penso, dall’infisso della porta finestra della cucina non ancora riparato. Questa volta però non ha il solito odore del bosco, ma un che di acidulo e di sudore leggero.

Sono i ragazzi, mi convinco, non si saranno lavati affondo dopo lo sport. Non mi preoccupo.

Adesso devo aiutarli a disfare le cartelle, preparare la merenda e aspettare il rientro di M.me.

Mando Mazzarine in bagno perché si prepari per la doccia, io la aiuterò non appena avrò verificato quali compiti hanno assegnato ai suoi fratelli.

Sono nella stanza dei ragazzi, ho avuto soltanto il tempo di sganciare le cinture elastiche dei loro zaini, quando sento Mazzarine gridare e piangere. Mi precipito in corridoio, l’odore acido di sudore è più acuto, entro nella stanza della bambina e vedo l’evaso. Tiene stretta Mazzarine cingendola col braccio all’altezza delle spalle, appena sotto il suo mento.

Lo guardo immobile, bloccata nei pensieri.

Mazzarine vedendomi smette di gridare, scalcia, abbassa la testa, gli morde la mano, riesce a liberarsi, corre verso di me.

È un attimo: il bruto mi guarda, porta il busto in avanti per

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afferrare di nuovo la bambina, perché ha deciso che non sono un pericolo, al più un cerbiatto spaurito. Ma i cerbiatti, nonostante l’aspetto, sono animali in grado di difendersi:

soprattutto se hanno praticato il taekwondo per anni.

Faccio un passo in avanti, distendo la gamba sinistra e il mio tae lo colpisce ai testicoli, lui si piega sulle ginocchia, io porto in avanti il gomito e lo colpisco in controtempo al pomo d’Adamo. L’intruso cade bocconi sul pavimento, respira a fatica, gli sono sopra, ho ancora in mano le fettucce elastiche degli zaini e gliene passo una intorno alla gola, la tendo fino a fare un nodo intorno ai suoi polsi, con l’altra gli lego stretti i talloni. Non può più muoversi, adesso, si strozzerebbe da solo.

Sono esausta, ma devo ancora fare qualcosa. Prendo il cellulare, mi avvicino a distanza di sicurezza al viso stupito dell’evaso, lo fotografo, e, prima di chiamare ancora una volta il 112, mando la foto al comandante.

Chissà se, anche questa volta, mi consiglierà di prendere un aperitivo.

Abbraccio forte Mazzarine; rido sguaiata.

Note:

1) «Bevi il tuo aperitivo e non preoccuparti»

2) «con la massima urgenza»

3) ragazza alla pari 4) stupita

5) Ente energetico francese 6) «livello uno»

7) «Sono terroristi»

8) «L’ho visto al bistrot. Ha comprato del cibo»

9) cerbiatto

10) i ragazzi a scuola 11) rotatoria stradale

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Foto copertina © Ciso

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