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L’efficacia dello sguardo trasversale

Mentre gli scrittori degli anni ’40 tentano invano di stringere in pugno una tematica ancora troppo liquida e vischiosa, negli anni ’50 Natalia Ginzburg e Lalla Romano costruiscono romanzi dall’approccio nuovo con i quali riescono nell’intento di raccontare la dimensione della guerra civile come una realtà aperta alla comprensione e alla riflessione, che non spaventa né allontana più.

Anche se è bene ricordare che tra le due intellettuali corrono sostanziali differenze, entrambe hanno l’intuizione di spostare l’attenzione dall’evento della guerra partigiana ai personaggi che lo attraversano, e di costruire intrecci in cui i protagonisti non vengono sommersi dal contesto storico critico in cui sono calati ma riescono a dominarlo. La voce narrante non si sofferma sulle contraddizioni della guerra ma guida l’occhio del lettore a cogliere le soluzioni trovate dai personaggi per affrontare e superare il conflitto emotivo che il contesto bellico suscita: questo permette una miglior resa narrativa, più limpida e nitida, della Resistenza stessa e fa dei loro romanzi una tappa importante – quasi un punto di ri-partenza, dopo un primo periodo di tentativi a vuoto – nel percorso di crescita della narrativa sull’argomento.

Natalia Ginzburg

Natalia Ginzburg abbraccia la tematica resistenziale in due opere: Tutti i

nostri ieri1 e Lessico famigliare.2

La guerra partigiana non ne è la protagonista centrale ma vi è presente in quanto attraversata dai personaggi che con essa interagiscono: la lente d’ingrandimento della voce narrante è posta sui loro destini e non sui rivolgimenti bellici. Siamo però certamente lontani dai coevi romanzi di Cassola poiché qui la guerra civile influenza l’evoluzione dei personaggi, e i modi di

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ATALIA GINZBURG,Tutti i nostri ieri, Torino, Einaudi, 1952, da cui citerò.

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questa maturazione vengono chiaramente evidenziati. In Fausto e Anna e La

ragazza di Bube, al contrario, le due componenti – l’evento storico e i personaggi

– non costruiscono un dialogo.

L’autrice ha vissuto da vicino gli anni della Resistenza e ha fatto parte con il marito della generazione che ha contribuito, in sangue e impegno, alla lotta antifascista. La sua narrativa, però, non abbraccia la tematica ma vi si affianca, toccandola come di sponda, attraverso una tecnica narrativa prosaicizzante che permette di affrontare il nodo resistenziale in modo trasversale. I protagonisti decifrano i fatti della guerra, mondiale e civile, come eventi tra gli altri, frammisti ai piccoli e triti attimi di vita familiare, senza individuarne e sottolinearne la straordinarietà; ciò rende i fatti stessi umani e comprensibili.

Il romanzo, inoltre, non propone la tematica resistenziale affermandone tutta la sua complessità, ma lascia scorrere gli eventi attenendosi il più possibile allo sguardo circoscritto dei personaggi, a cui sono concessi – finalmente – gli strumenti interpretativi necessari per affrontarli; in questo modo è rimarcato il forte legame che esiste tra la Storia e l’uomo, che ne è attore attivo. Gli autori finora visti, invece, presentano la Resistenza per intero, come un evento che niente ha che fare con l’individuo che lo vive, oppure calano i protagonisti in una situazione che mostra difficoltà e ostacoli insormontabili ai loro tentativi di comprensione.

Si prenda, per un’analisi più approfondita, Tutti i nostri ieri. Nel ritmo e tono sempre uguali tipici della narrativa della Ginzburg si muovono figure che esauriscono tutte le pose possibili nei confronti della guerra, mondiale e civile: il pessimismo della paura, della fuga, della disillusione e il totale rifiuto della violenza tipici della narrativa precedente, ma anche il vitalismo entusiastico dell’azione e la gioia ribelle dell’avventura partigiana, che saranno centrali nei romanzi a venire.

Ippolito è l’ormai collaudato intellettuale inetto di Primo Novecento, la cui figura viene qui definitivamente condannata a morte: incapace di usare

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violenza contro altri uomini, manifesta il suo estremo rifiuto nei confronti del conflitto con il suicidio. Accanto a lui, però, ci sono altri personaggi che affrontano diversamente la temperie storica in cui vivono. Emanuele incarna la figura del colto borghese del post-Liberazione, impegnato nella rinascita culturale della nazione. Pur essendo figlio di un industriale, frequenta ambienti e amici della classe operaia, questa rappresentata dalla figura di Danilo, rivoluzionario comunista di umile estrazione. Nemmeno Emanuele parteciperà direttamente alla Resistenza ma vi contribuirà con il lavoro clandestino di propaganda e giornalismo. Ad agire nella guerriglia partigiana saranno Danilo e Giustino, giovane e intraprendente fratello minore di Ippolito.

Sulla scena irrompono anche figure femminili. La maggioranza di esse restano piatte, vincolate alla dimensione famigliare piccolo-borghese in cui vivono e alle banali preoccupazioni della vita quotidiana, entrando in dialettica con la situazione storica solo se coinvolte dalle decisioni dei protagonisti maschili: di queste non si dirà. Acquista invece maggior rilievo la figura di Anna, giovane sorella minore di Ippolito, tanto da risultare quasi centrale nell’architettura dell’intreccio.

La ragazza entra in contatto con la Resistenza spiando le riunioni in cui Emanuele, Danilo e il fratello maggiore discutono di antifascismo e partecipa alla distruzione dei giornali clandestini francesi nascosti in casa. Affronta queste novità, a prima vista oscure, senza paura, come se tutto ciò facesse parte di un gran gioco dove rivoluzione e barricate si mescolano nella sua fantasia di sedicenne. I sentimenti dominanti non sono la paura di ciò che è sconosciuto ma l’entusiasmo e la curiosità per il mistero della cospirazione. Si veda questo brano, in cui Anna cerca spiegazioni riguardo alle riunioni dei tre chiedendo al fratello Giustino, che la illumina:

Danilo aveva altro per la testa. Anna chiese cosa aveva per la testa Danilo. Giustino arricciò il naso e le labbra, le venne vicino col viso facendosi sempre più brutto. – Po-litica, – le disse nell’orecchio, e scappò via. […] «Po-litica», ripeteva pian piano, e adesso a un tratto le

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pareva di capire: ecco perché Danilo s’era messo a venire così sovente da loro: perché faceva politica con Ippolito e Emanuele. […] Facevano politica nel salotto, facevano di nuovo una cosa pericolosa e segreta, com’era stato il libro di memorie. Volevano buttare giù i fascisti, cominciare la rivoluzione […] Adesso Anna s’immaginava d’essere lei sulle barricate, con Ippolito e con Danilo, a sparare fucilate e a cantare.3

Ad Anna è affidato il ruolo positivo di chi cresce dentro a fatti critici – personali ma anche legati alla Grande Storia – ed è costretta da essi ad abbandonare i sogni dell’adolescenza e percorrere la strada della maturazione, affrancandosi dal soffocante nido familiare. Il suo personaggio è portatore di uno sguardo ingenuo verso gli eventi: lo stesso che la Ginzburg adotterà nuovamente in Lessico famigliare per caratterizzare la voce narrante.

Il termine “ingenuo” in riferimento al personaggio di Anna vuol sottolineare il fatto che la giovane ragiona sugli avvenimenti senza interpellare grandi concetti filosofici o profonde riflessioni, ma affrontandoli con concretezza e semplicità, come se fossero problemi quotidiani, domestici. Il suo sguardo abbassa l’importanza dei fatti che attraversa, la preserva da interrogativi a cui non potrebbe dare risposta e le permette di superare la paura e gli orrori della guerra – per esempio, la perdita del marito – senza rimanerne imprigionata. Come anticipato prima, è questo un metodo che nessuno, nell’ambito della narrativa sulla Resistenza – nemmeno Calvino, seppure il suo protagonista sia un bambino – ha portato a compimento: attraverso un approccio che rende la guerra civile un fatto umano tra gli altri, affrontato da personaggi che non ne sono spaventati o allontanati, la Ginzburg può raccontare la Resistenza in modo da permettere al lettore di avvicinarsi ad essa.

Il personaggio di Anna sarà centrale nella seconda parte del romanzo insieme a Cenzo Rena, l’uomo con cui si sposa allontanandosi dalla famiglia per raggiungere con lui un paesino rurale del sud Italia, San Costanzo. Cenzo Rena –

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a detta della stessa autrice, il suo primo «eroe positivo»,4 – è un uomo colto e attivo, un giramondo che ama la vita e le sue gioie. A prima vista può sembrare un viveur, ma seguendolo nel paese di origine il lettore scopre le sue preoccupazioni per i compaesani, contadini ignoranti che non si affrancheranno mai dalla loro condizione di miseria, e il suo ruolo quasi di pater familias all’interno della comunità, che gli riconosce rispetto e autorità.

Cenzo Rena è, quindi, l’immagine del borghese progressista che si batte per la giustizia sociale contro istituzioni ingorde e criminali. Alla notizia di una guerriglia nata al Nord, e di fronte agli incitamenti del contadino Giuseppe che vorrebbe organizzare la resistenza anche in paese, egli però si ritrae, rifiutando di combattere: ammette così la propria umana debolezza di non saper dare la morte ad altri uomini come lui. Questo lo avvicina alla figura di Ippolito, suicida per evitare l’arruolamento:

Se gli avessero dato una pistola o un mitra per sparare lui non avrebbe sparato giusto, avrebbe sparato tutto storto in un albero, e intanto si sarebbe messo a pensare delle cose che non era niente giusto pensare. Giuseppe gli chiese che cosa si sarebbe messo a pensare. E Cenzo Rena disse che si sarebbe messo a pensare che i tedeschi erano tutti camerieri, poveri disgraziati con dietro un mestiere qualunque, poveri disgraziati che in fondo non valeva la pena di ammazzare. Ed era un pensiero che in guerra non aveva senso, era un pensiero cretino ma a lui gli poteva succedere d’avere un pensiero cretino così. Forse il contadino Giuseppe era un uomo della guerra, e allora andasse il contadino Giuseppe con il suo mitra sulle colline […]. Forse spargere dei chiodini, disse Cenzo Rena, perché no. Ma dov’erano tutti questi chiodini da spargere, chiese, lui non aveva in tasca che un solo chiodino e lo tirò fuori, era un chiodino tutto arrugginito e storto e lo teneva in tasca perché gli portasse fortuna.5

Cenzo è un uomo di pace, che preferisce usare la parola per convincere i tedeschi ad evitare il saccheggio del paese, piuttosto che l’azione violenta, causa solo di rappresaglie sui civili. Anna – la stessa giovane, in fondo, che si immaginava sulle barricate con Emanuele: la maternità non ha offuscato le sue illusioni di ragazzina – non è della stessa idea e sempre fantastica sulla sorte del

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ATALIA GINZBURG,È difficile parlare di sé, Torino, Einaudi, 1999, p. 72.

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fratello Giustino che invece combatte con i partigiani. L’immagine della guerra civile non è accompagnata da timori ma dall’entusiasmo per l’avventura, anche davanti all’immagine della morte:

Ma Anna era scontenta e pensava a Giustino, che forse adesso era sulle montagne a sparare là al Nord, e chissà se era ancora vivo o se non l’avevano già fucilato, lei vedeva la faccia di Giustino mentre lo fucilavano, una faccia con un sorriso come quello di Ippolito, un po’ storto e triste. Anna avrebbe voluto essere con Giustino a sparare là al Nord, ed essere fucilata con Giustino lungo il muro d’un cimitero, si sapeva ben poco di quello che succedeva là al Nord, ma si sapeva che tanti morivano fucilati dai tedeschi ogni giorno, e intanto lei ogni giorno stava in cucina col cameriere, e accettava dal cameriere dello zucchero e della cioccolata per la bambina.6

Giustino, fratello minore di Anna e Ippolito, è immagine del ragazzo in cerca di azione che decide prima di arruolarsi nell’esercito e poi di combattere tra i partigiani con Danilo. Il suo bisogno di vita lo spinge fuori dalle asfissianti abitudini borghesi della famiglia, verso l’esperienza del soldato. Giustino desidera andare incontro alla realtà e condividere la vita di tutti:

Giustino certe volte pensava che aveva voglia di andare in guerra, non gli avrebbe fatto impressione sparare là dove tutti sparavano, era sempre meglio che restare a casa con la signora Maria, col lungofiume e la ragazza alta e secca. 7

E ancora:

Era tutto uno sparare per nessuno e contro nessuno, uno sparare coi piedi come pezzi di ghiaccio nelle scarpe, con gli occhi abbarbagliati dalla neve. Lui quando era partito voleva solo sapere come era fatta una guerra […]. Ma a poco a poco s’era accorto di essere in guerra per essere come gli altri, per avere freddo anche lui e aspettare la roba da casa e fissare un punto nella neve e sparare.8

Si confrontino questi passi con le riflessioni di Ippolito riguardo alla guerra per cogliere quanto siano opposte le dimensioni dei due personaggi. Uno fremente di attività, qualsiasi essa sia, e l’altro timoroso di dover dare la morte:

6 Ivi, p. 293. 7 Ivi, p. 170. 8

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Giustino disse che non gli piaceva la faccia di Ippolito, non l’aveva mai visto così stralunato, e la notte non dormiva mai e s’affacciava alla finestra a fumare e passeggiava per la stanza e rovistava dentro i cassetti, chissà cosa rovistava. […] Se la prendeva solo per la Francia, la storia della Francia gli era cascata addosso e l’aveva schiacciato, gli era sembrata la fine di tutto. E un giorno aveva detto a Danilo che se veniva la guerra in Italia e lo chiamavano in guerra lui non sparava, preferiva lasciarsi ammazzare. E Danilo aveva detto che invece lui avrebbe sparato tranquillo, in modo da tenersi vivo per il giorno della rivoluzione. Ma Ippolito aveva detto che non ci sarebbe più stata nessuna rivoluzione, solo tedeschi e tedeschi nei secoli, tedeschi con carri armati e aeroplani, padroni di tutta la terra.9

Le incertezze sulle sorti del conflitto e le paure insite nella possibilità di dover imbracciare le armi conducono Ippolito verso l’unica via di fuga (e salvezza) che intravede, cioè il suicidio. Sopravvive invece la figura, incarnata da Emanuele, dell’intellettuale borghese progressista, impegnato e attivo nel suo tempo.

Nella sua cavalcata temporale, il romanzo abbraccia gli anni della Seconda Guerra Mondiale tratteggiando, in filigrana ai singoli personaggi, anche un ritratto giustamente critico della società italiana durante il conflitto e l’occupazione tedesca. Episodi della guerra civile combattuta non sono narrati direttamente. Il periodo dall’8 settembre alla Liberazione è raccontato attraverso gli occhi di Anna e Cenzo che però non vivono la Resistenza poiché sono a San Costanzo, fuori dai territori della Rsi. Essi assistono invece all’arrivo dei tedeschi, che portano con sé distruzione, deportazioni di ebrei, ruberie e altri soprusi. Anche la narrazione di questi eventi è abbassata di tono poiché mescolata a elementi di minima importanza, come la preoccupazione per le stoviglie e il corredo:

Arrivò allora anche la madre del maniscalco, e piangeva, i tedeschi andavano per le case a rubare i maiali e le galline, e non c’era più nemmeno il brigadiere a dire le ragioni dei contadini. Il brigadiere appena aveva visto i tedeschi arrivare era scappato subito, e adesso era nascosto a Masuri in una casa di contadini, e non portava più la divisa di brigadiere ma era vestito in borghese, e i bambini li aveva

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mandati dai suoceri, e i tedeschi erano entrati in caserma e avevano rotto a pezzi i mobili del brigadiere, avevano sparato nella specchiera e sfasciato la radio, e la bella trapunta di seta che copriva il letto del brigadiere era partita su un camion, e anche i materassi e il servizio dei piatti, e il brigadiere sapeva cos’era successo della sua roba ma non poteva far niente, era là nascosto a Masuri con una paura da morire.10

Le avventure di Giustino su cui Anna fantastica vengono riferite solo in parte, alla fine del romanzo, quando il ragazzo ritrova la famiglia e a loro racconta cosa è stata la sua Resistenza con Danilo: una parentesi di estrema precarietà, sempre sul filo della morte, e allo stesso tempo di grande libertà, poiché l’essere in bilico permette schiettezza e sincerità nei rapporti umani. Racconta Giustino:

Quando era stato Balestra era molto felice, sulle montagne con Danilo a sparare, e Danilo allora era straordinario, non si poteva immaginare com’era Danilo quando faceva il partigiano e si chiamava Dan. Erano molto amici allora Giustino e Danilo e quando smettevano di sparare ricordavano insieme tante cose che credevano di non poter riavere mai più, perché credevano di morire. E siccome credevano di morire non avevano più niente vergogna e si dicevano ogni specie di cose […]. E avevano riso insieme di questo ma non era stato un brutto ridere, non era stato un ridere da cinici, era stato un ridere fresco fresco e leggero.11

La Ginzburg racconta la Resistenza in modo essenziale, tralasciando tutto ciò che è ideologia, politica, patriottismo, sangue e focalizzando l’attenzione sui rapporti umani, lontani dalle convenzioni sociali borghesi, che in essa si sono creati. Una sincerità e una comunanza di sentimenti che dopo la Liberazione si infrangono come se non fossero mai esistite: Giustino infatti non riconosce l’amico Danilo nell’uomo che dal podio tiene un discorso «un po’ troppo bello, un po’ troppo fatto bene, con le pause e gli scoppi di voce e perfino qualcosa per far ridere di tanto in tanto».12 Il giovane ammette una certa insofferenza verso il

dovere di tornare ad una vita normale, che appare grigia e noiosa se paragonata alla entusiasmante dimensione partigiana:

10 Ivi, pp. 271-272. 11 Ivi, p. 315. 12

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Ma Giustino disse che non aveva niente voglia di mettersi con una donna, la sola voglia che aveva era essere ancora Balestra e nascondersi sulle montagne e avere i tedeschi intorno e far saltare i treni. Invece non c’erano più treni da far saltare e lui doveva finire l’università e poi cercarsi un impiego per tirare avanti.13

La Resistenza è quindi dipinta in pochi tocchi – si noti l’assenza quasi totale della figura del nemico nazi-fascista – come una parentesi positiva di libertà, verità ed entusiasmo ma sospesa sul baratro della morte, precaria e presto destinata ad esaurire la sua forza vitale per lasciare il posto alle bugie e alle convenzioni della società civile; le stesse menzogne del periodo fascista. Si crea quasi una dicotomia in cui il Fascismo appare come la dimensione della menzogna che si oppone alla Resistenza nella quale invece trionfa la verità.

Anche il personaggio di Emanuele riporta la medesima impressione. Egli ha trascorso il periodo dell’occupazione a Roma, a stampare giornali clandestini, e dopo la Liberazione ha tentato di continuare l’attività giornalistica, decidendo alla fine di abbandonarla poiché, cambiati i tempi, non si sente più adatto per quel mestiere che prima, in clandestinità, svolgeva con allegria e passione. Dice la voce narrante:

Ma fra poco lasciava lì il giornale e se ne andava da Roma per sempre, perché i giornali lui non li sapeva fare. Sapeva fare i giornali segreti ma non quelli non segreti, fare i giornali segreti era facile, uh com’era facile e bello. Ma i giornali che dovevano uscire ogni giorno alla luce del sole, senza più pericolo né paura, era un’altra storia. Bisognava mettersi a sgobbare a un tavolo, e venivano fuori delle parole ignobili e si capiva bene che erano ignobili e ci si odiava a morte per averle scritte ma non si cancellavano perché c’era premura di far uscire il giornale che la gente aspettava. E invece era incredibile come la paura e il pericolo non dessero mai parole ignobili ma sempre vere, strappate dal profondo.14

Come Giustino, anche Emanuele capisce l’eccezionalità dell’evento appena vissuto, e la sua irripetibilità in un contesto in cui ritornano intatte le convenzioni e le bugie del passato. Il trio di voci che il lettore ritrova alla fine del

13 Ivi, p. 316. 14

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racconto è composto proprio dai tre personaggi a tutto tondo – Anna, Giustino ed Emanuele – che, sopravvissuti alla guerra, sono cresciuti in essa, al contrario degli altri – Amalia, Giuma e la madre, ai quali la voce narrante guarda quasi con sufficienza – che invece dopo la Liberazione il lettore ritrova vuoti perché uguali a come li aveva lasciati. I tre amici proiettano il loro sguardo di vitalistica speranza su un futuro in cui realizzarsi con il ricordo di chi è rimasto sommerso

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