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Non sarebbe elegante fare dei nomi, e non è questa la sede;

Raul Mordent

4. Non sarebbe elegante fare dei nomi, e non è questa la sede;

ma sembra evidente che se questa configurazione di mediazione fra autore, testo e pubblico dei lettori, che l’editore svolgeva, entra in crisi nel suo complesso (e l’informatica è parte essenziale di questa crisi, o collasso che dir si voglia), allora non si vede poi perché debba essere conservato proprio e solo un punto di essa, cioè la remunerazione dell’editore per una funzione di mediazione che egli di fatto non svolge più. Detta ancora più brutalmente: perché mai io dovrei remunerare un editore che non sceglie il mio libro né lo progetta, che non lo convalida culturalmente col suo prestigio, che non ne opera alcuna revisione editoriale degna, che non garantisce recensioni e presentazioni né la presenza del mio libro nelle librerie, e neppure la sua durevole reperibilità nel proprio catalogo e magazzino? Senza dire che a volte anche la composizione tipografica del libro, dai titoli correnti all’indice all’impaginazione delle note, è affidata al lavoro (gratuito) dell’autore stesso (a me personalmente è successo, e credo di non essere il solo). In questi ultimi casi il problema non è il 10% che va, o dovrebbe andare, all’autore, il problema è capire perché mai il 90% debba andare all’editore!

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Nella vecchia configurazione, che abbiamo definito gutenberghiana, l’autore partecipava, tramite l’editore, alla remunerazione con il cosiddetto copyright (che forse sarebbe ormai tempo di chiamare più precisamente "diritto d’editore" e non più "diritto d’autore"!). Dunque il discorso evidentemente riguarda e coinvolge anche il diritto d’autore, e a proposito del copyright io mi limiterò a dire alcune cose che mi sembrano ovvie, e che non vorrei sembrassero provocatorie (ma viviamo in un tempo infelice in cui le ovvietà suonano spesso come provocazioni):

1) anzitutto che il copyright non è sempre esistito, né sempre esisterà; Petrarca – per esempio – non si è mai sognato di campare coi diritti delle sue opere, ma esistevano al suo tempo forme di remunerazione pubblica e sociale dell’ingegno (e di garanzie dell’autorialità morale) che ormai conosciamo abbastanza bene, e che forse hanno oggi qualcosa da insegnarci; avanzo l’ipotesi che sia necessario tornare in modi storicamente adeguati a queste forme pre- capitalistiche di sostegno pubblico e diretto ai produttori di libri (e non a chi li edita), forse non attraverso il conferimento di rendite ecclesiastiche e di ordini minori (di cui usufruirono sia Petrarca che Boccaccio) però attraverso un adeguato finanziamento pubblico di queste attività autoriali, almeno di quelle frutto di ricerca svolta dalle università. Forse per la letteratura cosiddetta "di intrattenimento" (strana e labile definizione!) il discorso è diverso, ma faccio notare che quasi nessuno scrittore del Novecento vive dei diritti d’autore: Montale, che era Montale, viveva del "Corriere della Sera", Moravia che era Moravia delle recensioni cinematografiche sull’"Espresso", Vittorini e Calvino non poterono mai rinunciare al loro lavoro di redattori editoriali né Primo Levi al suo lavoro di chimico, e così via; per non dire delle difficoltà economiche gravissime che accompa-

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gnarono fino alla morte (per fare un solo esempio) Elsa Morante, non solo la scrittrice italiana più grande del secolo scorso, ma anche fra le più vendute;

2) che il copyright è strettamente legato alla forma-merce del testo, cioè all’oggetto-libro a stampa ed all’industria editoriale (dunque, se ci pensiamo, è durato pochi secoli), e che farsi pagare un non-libro informatico incontrerà problemi analoghi a quelli già incontrati dall’industria discografica nel cercare di farsi pagare dei non-dischi, cioè i file di musica. I migliori auguri a quelli che ci hanno provato, ci provano e ancora ci proveranno (io credo invano), a condizione che per trarre profitto dalla rete costoro non riescano a mettere qualche mordacchia al web;

3) che, infine, l’essenziale è per noi garantire il rispetto dell’autorialità – diciamo così – "morale" (e questo sembra possa essere largamente garantito dalle modalità cosiddette copyleft e dal sistema Creative Commons), ma tutt’altra cosa è la bizzarra idea che da ogni atto di lettura del suo testo un autore debba trarre un profitto;

4) che, in ogni caso, sembra assolutamente intollerabile il fatto che le università non abbiano i soldi per poter leggere e far leggere ai propri studenti nelle loro biblioteche i saggi o gli articoli o le ricerche prodotti dai loro stessi professori; questi lavori sono ceduti dagli autori gratuitamente alle riviste scientifiche, e dalle stesse riviste sono fatti pagare a costi salatissimi, anzi tanto più salati quanto più la rivista è importante e dunque la lettura dei suoi saggi indispensabile. Qui occorre dunque cambiare, e radicalmente. Questa follia è tanto più insopportabile se la collettività ha già pagato quel prodotto dell’ingegno (chiamiamo immodestamente così le nostre opere), anzi le ha pagate due volte, sia perché l’autore

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universitario già gode di uno stipendio in quanto dipendente dell’università pubblica, sia perché spessissimo (almeno in Italia) tali pubblicazioni sono pagate agli editori coi fondi pubblici della ricerca, i quali dunque spesso finiscono per pagare editori privati (e i libri così prodotti sono destinati a finire ammucchiati nei corridoi dei nostri Dipartimenti). D’altra parte, credo che non ci siano uomini o donne di cultura degni di questo nome che – chiamati a scegliere – non preferiscano mille volte che la loro opera sia letta da migliaia di persone in tutto il mondo, piuttosto che trarne qualche (di solito, nei nostri casi, miserabile) profitto. Se l’università paga il mio lavoro di ricerca, perché mai il prodotto di quel lavoro, per ipotesi un libro, deve arricchire il mio editore, e magari anche me, e non invece l’università che mi stipendia? Insomma la gratuità e il carattere pubblico dell’università a me sembrano strettamente legate: simul

stabunt e simul cadent, e proprio perché siamo in una fase in cui è

attaccato direttamente e violentemente (e, ahimè, non senza visibili risultati) il carattere pubblico dell’università, io credo che non possiamo più permetterci il lusso di trascurare questo punto vitale. Peraltro oso dire che a me sembra che anche la rete sia essenzialmente gratuita per sua natura, e che gli sforzi di far pagare la rete somiglino, appunto, agli sforzi di coloro che imitavano supinamente con la stampa i manoscritti, o che mettevano teste di cavallo impagliate sulle automobili per farle somigliare alle carrozze. Dunque l’incontro fra università pubblica, informatica e open access mi sembra che sia nella natura delle cose, e nella natura delle cose mi sembra sia che tale incontro avvenga sotto il segno della gratuità.

Insomma, credo che l’informatica ci consenta e ci costringa (al tempo stesso le due cose! ci consente e dunque ci costringe) a guardare alla cultura per quello che effettivamente essa è, cioè come

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a un bene comune (e dico comune non privato; comune non statale!), cioè un bene le cui caratteristiche essenziali sono la diffusione e la

condivisione, e a cui non è possibile applicare il principio di

esclusività ("o questo bene è mio, oppure è tuo, se è mio non è tuo": un principio rozzo tratto, a ben vedere, dal modello arcaico costituito dalla proprietà della terra). Esattamente come succede per un tramonto o per un paesaggio o per l’acqua e l’aria pulita, il fatto che altri ne goda non impedisce affatto che ne goda io, e lo stesso è per la cultura; si potrebbe anzi sostenere la tesi inversa, cioè che della cultura si gode tanto più quanto più essa è diffusa e condivisa, e che tale generale diffusione e condivisone rappresenta un interesse primario, e non comprimibile, di una società che si voglia dire civile.