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Enea: un profugo

Nel documento Lessico del calcio in swahili (pagine 72-75)

La speranza e il distacco

Quando ti metterai in viaggio per l’Ita-lia devi augurarti che la strada sia sicu-ra, fertile in avventure ed esperienze. I trafficanti di uomini e la furia del mare non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.

In trafficanti di uomini – no certo – né nell’irato mare incapperai se mai li porti dentro, se l’anima non te li mette contro. Devi augurarti che la strada sia certa e che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti italiani finalmente – e con che gioia! – toccherai terra per la prima volta. Non dimenticare ciò che hai lasciato e portalo nel cuore.

Impara una quantità di cose dai pericoli, ma sempre devi avere in mente la meta!

«Cara Saraya,

finalmente ho trovato il coraggio per scri-verti questa lettera; è probabile che quan-do la leggerai io sarò da qualche altra parte nel mondo, lontano da te, dalla mia famiglia, dai miei amici e dalla mia terra. Da parecchi anni questo Paese non cono-sce più pace, la guerra ormai fa parte della nostra quotidianità, la maggior parte dei miei amici è morta nel tentativo di avere un futuro migliore, di riportare la libertà. Ripensando a tutti coloro che sono caduti, sento che sarebbe disonorevole per il loro valore partire, lasciare tutto, scappare da questa violenza e da questo orrore che ha preso il sopravvento e ha portato questa terra alla deriva. Non credere che sia una scelta facile la mia, Saraya. Io lascio tutto questo per poi trovare che cosa? Ho pau-ra, non so chi mi accompagnerà in questo viaggio, non so dove arriverò, chi incon-trerò… E non so nemmeno se arriverò.»

La partenza e la tappa al capannone

Appoggio la testa contro la parete dietro di me, chiudo gli occhi e cerco di estra-niarmi da ciò che mi circonda. Sento la presenza di Nure vicino a me e so sen-za bisogno di aprire gli occhi che è cer-tamente nella mia stessa posizione, ma probabilmente sta tenendo la mano a Samir per cercare di dargli conforto:

in fondo Samir di anni ne ha solo sedi-ci, non è strano che sia spaventato. Io e Nure abbiamo la stessa età e ci siamo conosciuti a scuola, quando ancora ave-vamo abbastanza soldi per andarci, in-vece Samir si è unito in seguito alla no-stra “cricca” – sempre che di “cricca” si possa parlare visto che eravamo solo in due. Lo avevamo conosciuto una matti-na mentre giocavamo sugli scalini di casa mia; era arrivato con i suoi genitori e si era presentato come il mio nuovo vicino di casa, sembrava così indifeso ed io e Nure non avevamo potuto fare a meno di prenderlo sotto la nostra protezione: da quel momento siamo diventati inse-parabili, e ora ce ne stiamo andando da Mogadiscio, per sempre. Ricordare come ho conosciuto Nure e Samir non può che farmi pensare anche a casa mia e ai miei genitori, anche se in questo momento è l’ultima cosa che dovrei fare, devo riu-scire a scordarmi di tutto se voglio avere quella speranza di andarmene da qui. Tuttavia il mio corpo sembra non voler collaborare e la mia mano destra scende nella tasca dei pantaloni, come dotata di vita propria, e incontra la superficie di una fotografia, la fotografia. Saprei de-scriverla anche senza guardarla dal tanto che l’ho fatto in passato, ma cosa dovrei fare? È tutto ciò che mi rimane di casa mia! L’ho presa furtivamente poco prima di partire perché non potevo accettare di trovarmi un giorno a non essere in grado di ricordarmi del mio passato, no, l’idea era del tutto inaccettabile. Non appena la tocco però i ricordi mi assalgono e… «Aynea’s! Lo devi fare, è per il tuo bene, tesoro…» grida mia madre nella mia te-sta. «No, no, no non devo ripensarci, non devo…» ma la voce continua implacabi-le. «Io e tuo padre ormai siamo troppo vecchi per queste cose, ma tu no! E io ti ordino di andare». «Non posso farlo mamma, non posso, non posso lasciarvi qui!» grida il me stesso del passato. «In-vece puoi e devi! Non c’è altro modo». Alla fine mamma aveva vinto, ed eccomi qui insieme a Nure e Samir e tanti altri ragazzi come noi che hanno dovuto ab-bandonare le famiglie e le loro case per intraprendere un viaggio dall’esito incer-to. Siamo partiti dalla Somalia, come del-le bestie in una gabbia, tutti stipati in un camion, sporchi e senza niente da bere e da mangiare. Mi stendo. Dopo aver dor-mito qualche ora, sento un odore fami-liare: subito lo riconosco, è quell’odore

che sentivo a casa mia, quell’odore che mi dava speranza perché stranamente mi colmava; mi alzo in piedi e appena mi giro vedo il mare, uno strano sorriso passa per la mia bocca, ma poi, stanco morto, mi sdraio di nuovo perché devo conservare le energie. Mentre dormo, improvvisamente il camion si ferma e mi sveglio, e lentamente ci fanno scendere.

Ibant obscuri sola sub nocte

Che fatica questo viaggio… ho fame, ho sete… ma non possiamo fermarci. Ecco, finalmente si ferma. Ma… chi sono que-sti? Urlano, hanno i fucili e degli sguardi feroci. Uno di questi mi afferra, mi trasci-na giù dal furgone e grida in utrasci-na lingua che non conosco. Insieme agli altri mi costringono a salire su un camion spin-gendomi forte, con violenza. Siamo tutti spaventati, non capiamo. Il camion par-te, qualcuno piange, gli altri in silenzio si aggrappano per non cadere… non capi-sco cosa stia succedendo… dove ci stan-no portando? E penso improvvisamente a casa mia… se fossi rimasto… sarei con mia madre che anche sotto le bombe mi teneva la mano. E adesso capisco l’im-portanza di quella stretta. Poi penso che lei mi aveva detto di andare, di cercare un futuro. Così stringo le mie mani e im-magino che una sia la sua. Intanto il sole sta calando, la polvere ci entra negli oc-chi e nel naso. Nessuno sa cosa ci aspet-ta. È freddo ora, la strada diventa sempre più stretta e piena di buche. Mi sembra che intorno nel buio non ci sia nulla. Vi-cino a me un uomo vomita, un bambino si stringe nella gonna della mamma che sta tremando forte. Nessuno parla. Solo un uomo bisbiglia pregando. Il camion si ferma, siamo davanti ad una grande ba-racca e urlando ci spingono dentro. Un ragazzo cerca di scappare e improvvisa-mente esplode un rumore a me familia-re… il ragazzo cade a terra, colpito. È buio. Freddo. Sento delle voci, parlano un dialetto arabo, hanno delle catene, sento il rumore del loro strusciare contro il cemento, sempre più vicino. Mi cade dell’acqua sulla coscia e non so se siano le mie lacrime o l’umidità che cola dal tetto di questa cantina, di questo buco nella terra che divora amore e speranza. Da forse più di tre giorni ho la gola sec-ca, lo stomaco ridotto ad una pallina da golf, il cemento è bagnato, e non è acqua. La luce? Beh, la luce la vedo; la vedo cir-ca due volte al giorno, la prima quando

entrano altre anime, altre speranze. La seconda? In quel caso vorrei esser cieco, o già morto: entra sempre una donna anziana con una candela in mano o una lanterna, cerca le bambine, le donne gio-vani, parla loro all’orecchio, sorridono, rivedo la speranza nei loro occhi, i geni-tori ringraziano Dio e incitano la picco-la anima ad andare. Chissà, chissà cosa

pensano, chissà quale promessa quel Ca-ronte fa loro, chissà perché Dio ci ha dato la possibilità di decidere di fare ciò che vogliamo, che sia bene o male, ma Dio, Dio mio, si fa sempre la scelta sbagliata. Quelle anime verranno distrutte, private di ciò che avevano anche non posseden-do nulla, nessuna promessa, nessuna sal-vezza. Un sorriso alla morte.

L’attraversamento del Sahara. Et Lybiae vertuntur ad oras

Abbiamo lasciato il deposito il giorno dopo, con gli occhi pieni di polvere e dimentichi del perché di questo viag-gio, del perché ci ostiniamo ancora a vivere. Ci hanno fatto salire in un pick

up, eravamo 26 persone in uno spazio

di tre uomini sdraiati. Davanti a noi solo un’immensa distesa di sabbia e un sole cocente che fa girare la testa. Partita la macchina, ci fu ben chiaro che non ci sarebbero state protezioni per evitare che venissimo sbalzati fuori dal furgo-ne e così le nostre mani si aggrappano ai vestiti degli altri, alle maniglie… e abbiamo viaggiato così per ore, con-centrando le poche forze sulle mani, che sono l’unico filo che può tenerci in vita. Ad un certo punto le nostre orec-chie hanno sentito un rumore sordo e i nostri occhi hanno visto una vecchia cadere ed una ragazza che urlava e si protraeva in avanti, vedendo tutto ciò che le rimaneva andarsene. E qualcuno di noi ha avuto pure la forza di urlare «Fermatevi, fermatevi!» ma nulla, la macchina sembrava essere guidata da fantasmi e abbiamo visto la vecchia dal vestito rosso scomparire, piano piano. E non ho avuto nemmeno la forza di capire o di piangere per quella morte che sarebbe potuta toccare a me. Poi, dopo sabbia e sole siamo arrivati in una città, e lì finiscono i miei ricordi, perché quando ci hanno ordinato di scendere da quella macchina che sapeva di vomi-to ed urina il sollievo è stavomi-to talmente tanto che il mio corpo si è abbandonato tra le dolci braccia di Morfeo.

Finalmente siamo arrivati in Libia. Sia-mo Sia-molto impauriti e spaventati, non sappiamo dove andare e come muover-ci. Intorno a noi c’è solo polvere. Dopo essere riusciti ad uscire da quella nube di terra e di persone, ci guardiamo ne-gli occhi, cosa che non facevamo da pa-recchio tempo, e tiriamo un sospiro di sollievo. Ce l’abbiamo fatta. Ora il nuovo obiettivo consiste nel raggiungere la co-sta il più velocemente possibile, così da imbarcarci e giungere in Italia. Abbiamo chiesto ripetutamente informazioni a diversi passanti senza ottenere rispo-sta. Ci sentiamo esclusi, come rinchiusi in una bolla d’aria dalla quale nessuno può o vuole ascoltarci. Finalmente in-contriamo un ragazzo più o meno della nostra età, che ci dà le indicazioni per dove dirigerci. Allora inizia l’ennesima camminata, ma questa volta attraverso la città. Per fortuna la costa si trova solo ad una settimana di cammino. Più di una volta ci siamo persi, abbiamo dor-mito per strada e ci è capitato anche di rubare, frutta o semplicemente pane. Otto giorni dopo siamo arrivati al porto, dove abbiamo riconosciuto subito i tan-to cercati trafficanti e abbiamo chiestan-to quanto costasse il biglietto. Uno ci ha risposto una cifra che nemmeno riusci-vamo ad immaginare. Dopo aver sentito quella cifra esorbitante abbiamo detto al trafficante quale fosse la somma che possedevamo, ma non ha cambiato idea. «Datemi quei soldi e partirete, altrimen-ti resterete a terra. Ah, un’ulaltrimen-tima cosa. Non portate giubbotti di salvataggio, noi ne abbiamo, ma tanto non serviranno». Allora ce ne siamo andati. Nuovo obietti-vo: trovare tutti quei maledetti soldi. Abbiamo camminato per alcuni giorni nei pressi del porto chiedendo informa-zioni a degli operai.

Ci avevano fatto il nome di un certo Talek e lo avevano descritto come un omone sulla cinquantina molto serio e con dei grandi baffi sotto il naso.

Non è stato difficile riconoscerlo: se ne stava seduto sulla ringhiera che si affacciava sul mare, con aria rilassata, tenendo tra le labbra un sigaro spento. Vedendoci arrivare si è guardato intorno e si è sistemato il colletto della camicia, troppo stretto per quel collo robusto, e ci è venuto incontro. «Salve, lei deve essere Talek». «Si, sono io, ma voi chi siete?» ci ha detto con aria arrogante. Un po’ sco-raggiato ho risposto: «Io sono Aynea’s e

loro sono Nure e Samir. Veniamo dalla Somalia». Il signor Talek ci ha offerto un lavoro, se così si può chiamare, che con-sisteva nel ripulire le vasche in cui veniva trasportato il pesce. Era un lavoro molto faticoso ma potevamo dire di essere sta-ti fortunasta-ti. Non avendo un posto in cui dormire, ci aveva dato il permesso di tra-scorrere le notti nello scantinato. Abbiamo lavorato per tre mesi consecu-tivi, senza mai fermarci un momento, ma mancava ancora tanto denaro per raggiungere la somma richiesta. Una calda mattina, mentre io, Nure e Samir eravamo intenti a lavare le vasche, si è avvicinato a noi un giovane dalle belle vesti, che ci ha detto che per le nostre esili mani eravamo sprecati in quel rozzo lavoro. Così ci ha offerto un posto come tessitori di tappeti nella sua fabbrica, proponendoci uno stipendio molto più redditizio del precedente. Nure però, troppo rozzo secondo il parere dell’uo-mo, non poteva seguirci, ma non poteva-mo permetterci di restare a lavare vasche di pesce e, d’accordo con lui, abbiamo accettato il nuovo impiego. Malgrado l’iniziale titubanza, ci siamo ambientati abbastanza presto. Infatti il lavoro proce-deva a gonfie vele. Per questo siamo stati ripagati e nel giro di pochi mesi abbiamo raggiunto il nostro obiettivo.

Il viaggio sul barcone: humilemque videmus Italiam

E ora sono qui, su uno dei tanti barco-ni che ogbarco-ni giorno partono, portando al loro interno persone che come me, scappano dalla propria terra, le stesse che come me desiderano avere una vita migliore. Tutti noi siamo su questo bar-cone per combattere per una vita che qualcuno ha deciso di rendere compli-cata senza alcun motivo. Mi chiedo solo se sarò abbastanza forte per sopportare tutto quello che mi succederà.

E ora sono qui, continuamente spintona-to qua e là in mezzo a persone dai visi scavati dalla paura e dagli occhi vitrei, alcuni sono paralizzati, pensano a quel-lo che potrà capitar quel-loro, se il quel-loro corpo riposerà in pace o rimarrà disperso nelle fredde acque. Chissà quanti uomini han-no passato e passeranhan-no quello che sto affrontando io. Quanti sono morti in que-ste acque e quanti ancora ne moriranno. Quando finirà tutto questo? Fortunati coloro che hanno un letto dove dormire, un tetto dove ripararsi, una tavola

bandi-ta di cibo, una famiglia che li supporbandi-ta. Io sono qui e devo lottare per la mia stessa vita.

Cerco di calmarmi ma il pensiero di aver perso di vista Samir mi rende inquieto. Il rombo di un tuono mi desta dai miei pensieri, alzo gli occhi verso il cielo scu-ro e delle gscu-rosse gocce di pioggia scor-rono sul mio viso. Solo adesso i rendo conto che sono troppo vicino al bordo del barcone e che al minimo scossone sarei tra i primi a cadere di sotto. Cerco istintivamente di ritrarmi verso l’interno spintonando chiunque mi trovi davanti, senza preoccuparmi della loro storia, ora devo pensare solo a me stesso. In quel momento uno scossone particolar-mente violento fa cadere alcune persone davanti a me e mi si libera la visuale. Ec-colo! Ho visto Samir! È caduto in acqua e annaspa con ansia. Senza pensarci trop-po mi riavvicino al bordo del barcone e inizio ad urlare: «Samir! Samir! Vieni qui, avvicinati al gommone, tieni duro ora arriveranno i salvagente! Avvicinati, andrà tutto bene!».

Ma nello stesso momento in cui pronun-cio queste parole capisco quanto siano false, non siamo su una nave di lusso, non ci sono bottiglie d’acqua per disse-tarci, figuriamoci dei salvagente. Com-prendo la situazione ma non voglio smet-tere di provare, urlo, chiedo aiuto ma le mie parole sono soffocate dalle grida di disperazione e dal forte scroscio delle onde, che ci sbalzano da ogni parte come palline dentro ad un flipper. Disperato ri-torno sul fianco del barcone, quanto più vicino a Samir mi è possibile, provo a parlargli, ma mi accorgo che il mio amico non ce la fa più e improvvisamente non è più lì; sopraffatto dalla stanchezza e dalla violenza delle onde non torna più a galla. Siamo ancora tutti aggrappati l’uno all’altro per non cadere e per avere qualcuno a cui sostenerci. Il viaggio è interminabile e ancora più difficile per la fame e la sete che ci torturano da giorni come ospiti non graditi. Per questo il piccolo Rashid, un bambino che avrà avuto circa sei anni, mi tiene il braccio e comincia a piangere. Suo zio Ahmed, che lo accompagna, mi raccon-ta che i suoi genitori sono morti prima della loro partenza. Una bomba è esplo-sa molto vicino alla loro caesplo-sa e ha fatto crollare gran parte dell’edificio, ma il piccolo Rashid si è salvato per miracolo, forse l’unico modo in cui anche noi ci

saremmo potuti salvare, per miracolo. Per sua fortuna infatti lo zio era subito accorso alla casa distrutta di sua sorella ed era riuscito a prendere il bambino dalle macerie.

I suoi famigliari avevano deciso di far partire per l’Europa Ahmed e avevano raccolto tutti i soldi che avevano e che sarebbero serviti a pagargli il viaggio. I militari erano venuti a cercare rinforzi e lo avevano chiamato tre volte. La prima di queste, quando erano arrivati, lui ave-va aperto la porta ma non aveave-va accetta-to di unirsi a loro. Quando erano accetta-tornati lui aveva risposto di no ancora e questa volta però lo avevano picchiato.

La terza volta avevano sfondato la porta di casa e lo avevamo picchiato di nuovo e avevano detto che fino ad allora erano stati troppo gentili, quindi, se quando sarebbero tornati, lui si fosse rifiutato di seguirli, lo avrebbero ammazzato. Allo-ra Ahmed decise di partire e alla svelta. Stava prendendo le ultime cose per il viaggio quando lo chiamarono perché era scoppiata la bomba che aveva ucci-so sua ucci-sorella.

Il resto della storia non me l’ha voluta raccontare ma so che non sarà stata tan-to diversa dalla mia e dalle altre stan-torie che ognuno di noi ha da raccontare e che non ci scorderemo mai.

Non posso crederci, ce l’ho fatta: sono in Italia

Appena arrivati al porto ci fanno alzare e subito mi accorgo che le mie gambe fanno fatica a reggermi in piedi. Provo a chiede-re aiuto ma nessuno mi capisce. La gente stipata in fondo comincia a spingere e ci troviamo tutti all’uscita della nave dove gli uomini vestiti di bianco che poco fa ci hanno salvati in mezzo al mare ci indica-no gesticolando dove andare: scendiamo lentamente dalla nave; la luce del sole è spaventosamente meravigliosa. Tante persone ci vengono incontro per aiutar-ci, alcuni sostenendo chi ha difficoltà a camminare, altri portando in braccio dei bambini, altri ancora portando coperte o vestiti asciutti. Una ragazza mi viene incontro sorridente e comincia a parlar-mi mettendoparlar-mi una coperta sulle spalle: la sua voce è rassicurante e sembra una persona disponibile. Mi prende e mi ac-compagna davanti ad un tendone. All’in-terno c’è una lunga fila di brandine, molte già occupate da altri profughi. Dopo una serie di controlli esco dal tendone con la

ragazza che mi era venuta incontro al mo-mento dello sbarco. I suoi occhi e il suo

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