3.1 Il videoclip: metodologie a confronto
Rimuovere le barriere tra l'immagine e il suono, tra il mondo visto e il mondo sentito! Generare un'unità e un rapporto armonioso tra queste due sfere. Che compito avvincente! I Greci e Diderot, Wagner e Scriabin, chi non ha sognato questo ideale? C'è qualcuno che non abbia fatto nessun tentativo per realizzare questo sogno?
Sergei Ėjzenštejn
Méliès è stato, come abbiamo visto, negletto, dimenticato, e in seguito riesumato da studiosi, critici, collezionisti, restauratori. Ma per rendere giustizia al Nostro, è necessario comprendere a fondo la vera eredità delle sue vues cinématographiques, quella immateriale appunto, quella che inaspettatamente ritorna in auge in contesti storici, sociali e produttivi apparentemente distanti anni luce dalla Parigi di inizio Novecento, ma che in realtà, mutatis mutandis, nascondono dinamiche molto simili. Nelle forme brevi dell'era digitale, infatti, vediamo rinascere quella volontà di stupire a breve termine che l'evolversi del cinema in senso narrativo ha inevitabilmente soffocato, e soprattutto di stupire col trucco, col montaggio.
Il montaggio, infatti, nasce proprio come una forma di trucco, di manipolazione della realtà, di rottura delle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. È proprio questo aspetto, come abbiamo visto, che caratterizzerà le avanguardie cinematografiche, tutte, in vario modo, tese a decostruire e a ricostruire una realtà secondo logiche che non siano puramente narrative. In contrapposizione a quelli che saranno poi i precetti di André Bazin, che auspicava la crescita e lo sviluppo di un cinema che rispettasse l’unità e l’ambiguità del reale e che non assumesse mai un ruolo “coercitivo” nei
confronti dello spettatore167, nascono correnti che proprio nel montaggio vedono il
quid dell'arte cinematografica, vuoi come generatore di senso (le avanguardie
sovietiche, che hegelianamente concepivano la sintesi di due immagini come un risultato superiore alla somma delle sue parti), vuoi per scopi ludici (i dadaisti). Ancora oggi buona parte della videoarte vede nel montaggio lo strumento principale con il quale esprimere la propria creatività. Tuttavia, come abbiamo anticipato nell'introduzione, analizzare le numerose influenze di Méliès nella videoarte esula dagli scopi di questa dissertazione; la nostra attenzione, infatti, si basa non solo sulle scelte stilistiche del singolo autore, ma anche e soprattutto sul contesto produttivo e di fruizione dei prodotti finali. In questo senso, la videoarte si pone come un corpo estraneo, in quanto prodotta e pensata, il più delle volte, per un pubblico colto e di nicchia.
Per quanto riguarda, quindi, l'intrattenimento di massa, il montaggio ha decisamente perso il suo significato di effetto speciale, per diventare raccordo narrativo. Talvolta viene caricato di un significato forte, talvolta costituisce una caratteristica tutt'altro che accessoria (si pensi al Memento di Christopher Nolan, dove il montaggio al contrario delle scene corrisponde al percorso a ritroso che il protagonista compie nella sua memoria), ma quasi mai viene palesato, quasi mai diventa il centro di interesse del film, se non in scene oniriche (l'incubo del protagonista di Vertigo di Hitchcock) o lisergiche (l'allucinazione di Easy Rider), ma in tutti i casi giustificato a livello diegetico dalla condizione psicofisica del personaggio. Terry Gilliam, nel suo
Paura e delirio a Las Vegas, sfrutterà per quasi tutto il film lo stato alterato dei
protagonisti per lanciarsi in un turbinio di effetti speciali e distorsioni della realtà, tanto da chiederci se i personaggi non assumano sostanze psicotrope solo per permettere al loro autore di dare sfogo alla sua visionarietà. Anche per Gilliam, quindi, la giustificazione diegetica è imprescindibile, e la narrazione non riesce mai a scendere dalla sua condizione di testo per farsi pretesto, cosa che avviene invece nei film di Méliès. Pochissimi, nel cinema “da grande schermo” (per quanto l'espressione oggi risulti anacronistica), sono i registi che, almeno in certe parti del film, osano compiere questo ribaltamento testo/pretesto, lo stesso ribaltamento che tanto stupore destava negli spettatori del teatro Robert-Houdin, e che tali spettatori “vergini” trovavano assolutamente normale in quanto i codici cinematografici non si erano ancora sedimentati nelle loro teste. Tra i registi che osano, vi è Michel Gondry, come vedremo più avanti, ma va detto sin da ora che la germinazione dei trucchi mélièsiani in film di più di cento minuti non sempre darà luogo ad esiti felici.
Insomma, dopo Méliès la narrazione al cinema è definitivamente diventata il centro dell'attenzione, ed era inevitabile che fosse così. Ma esiste un'altra forma audiovisiva commerciale (e sottolineo il commerciale) che negli ultimi tre decenni ha conosciuto un successo enorme, e che spesso è stata sottovalutata e snobbata a livello accademico: il videoclip. Nel videoclip rinasce, in contesti ovviamente molto diversi, il “filone Méliès”; prima di addentrarci in tale confronto, però, è necessario riflettere su cosa sia il videoclip, su come sia nato, e soprattutto su quale sia l'atteggiamento da adottare, dal punto di vista dello studioso, nei suoi confronti. Con le righe che seguono cercheremo appunto di tracciare le varie piste da seguire (e quelle da non seguire) nello studio dei prodotti videomusicali.
Il videoclip e la literacy moderna
Non ci attarderemo troppo sulla definizione di videoclip, tema che apre a speculazioni ampie e che poco aggiunge alla nostra trattazione. Ci limiteremo ad adottare la definizione, semplice ma esaustiva, che ne dà Sibilla:
Il videoclip è un breve testo audiovisivo, della durata media di tre- quattro minuti, in cui si mette in scena per immagini una canzone, in modo da poterla programmare in televisione. Il videoclip nasce quindi dalla musica e per la televisione. In esso confluiscono cultura musicale, formato audiovisivo ed esigenze di mercato168.
La storia di questo medium, che ha tanto rivoluzionato il nostro modo di fruire la musica, quanto modificato la nostra generale percezione dell'immagine in movimento, è tutta, come scrive Bruno Di Marino, “racchiusa schizofrenicamente tra i due poli dell'arte e della pubblicità”169. Il suo studio, prosegue lo studioso, presenta non pochi problemi.
Il maggior limite dello studio sui videoclip è di tipo geografico: la gran parte dei prodotti che noi vediamo sul piccolo schermo sono di produzione britannica e statunitense, anche per questione di budget. Sarebbe lungo tentare una disamina delle peculiarità stilistiche e culturali dei diversi Paesi, che attengono anche alla sociologia, all'antropologia culturale, alla comunicazione di massa ecc. Questo è un punto chiave: l'interdisciplinarietà, già necessaria negli studi cinematografici, lo
168Sibilla, Musica da vedere, Op. cit., p. 17.
diventa ancor più in quella degli studi relativi al videoclip, proprio per la natura sfuggente dell'oggetto di studio, e la sua refrattarietà ad essere isolato dalla semiosfera in cui è inserito. Silvestra Marinello è molto chiara a riguardo, e la sua riflessione merita di essere citata per esteso:
Il fatto che le relazioni sociali prendano forma nei e attraverso i media, prova la necessità di passare da una teoria della società che contiene i media, a una teoria in cui società, relazioni sociali e media si co- costruiscono permanentemente170. Ma come pensare questa dinamica?
Come articolare questa teoria? Come conoscere questa co-costruzione che disarciona definitivamente il soggetto dalla sua posizione di controllo?
Una delle domande che si pongono e, anzi, si impongono è proprio quella della literacy171. Abbiamo i mezzi per capire, vedere, dire le
relazioni? La cultura alfabetica, quella del testo, del leggere e dello scrivere, ci ha abituato a separare, a isolare, a oggettivare, a immobilizzare per conoscere. Non siamo forse in presenza di un divario, spesso drammatico, tra l'esperienza vissuta (la nostra vita con i media) e un discorso che appartiene ancora tutto alla literacy moderna, che si sforza si spiegare e capire tale esperienza e che è spesso inadeguato al compito?172.
Il testo non è, in altre parole, un messaggio chiuso in una bottiglia, che naviga in un mare vasto e indifferenziato: la sua tessitura è in stretto rapporto con quella di un ambito semiotico progressivamente più vasto, fino a coincidere con una cultura o con
un “campo semantico globale”, secondo la visione di Eco173.
Il secondo limite, riprendendo Di Marino, è di tipo cronologico, dal momento che nel momento in cui scriviamo qualcosa a riguardo, questo qualcosa è già invecchiato: “si
170Cisneros J., "Remains to be seen...", 2014, presentazione del progetto di ricerca,
https://www.youtube.com/watch?v=rm1DKZpoiS0.
171Cfr. Mariniello S., La litéracie de la différence, in Déotte J. L., Froger M., Mariniello S. (a cura di),
Appareils et intermédialité, Parigi, Harmattan, 2007. La literacy è qui intesa come un modo di
orientarsi e comunicare all'interno di una configurazione del sapere.
172Mariniello S., L'intermedialità dieci anni dopo, in Mariniello S. (a cura di), Immagini migranti:
l'intermedialità dieci anni dopo, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 24-25
tratta di un ulteriore elemento che evidenzia la natura sfuggente, onnivora e
metamorfica di questo testo cinetico/sonoro”174. Per usare le parole di Matt Hanson,
Music video is a perfectly formed, contemporary moving image form: Quintessentially based on reinvention, re-imagining, never standing still; always looking different; being in flu; moving. What is in vogue this year should be completely different from the last. One minute, it's clean lines, vector graphics, and silhouettes; the next, stop motion with Fuzzi Felt, Lego bricks, and old cards. The frame can't freeze175.
Problematiche storiche
Una vera storia del videoclip, quindi, si configura semplicemente come impossibile, e questo è un altro punto chiave: prima di riconoscere le piste da seguire, è infatti necessario eliminare le piste da non seguire. In primis, quella storica: non solo, infatti, stiamo parlando di una forma espressiva troppo giovane e diversificata (avendo bisogno tendenzialmente di meno budget, salvo casi particolari, la produzione di video musicali è sicuramente più ampia di quella di film per il grande schermo), ma anche e soprattutto di una convergenza onnicomprensiva, che puntando a stupire in tre-quattro minuti accoglie in sé materiali anche molto eterogenei tra loro, da performance live a elementi di finzione a filmati di repertorio a spezzoni di film a immagini astratte a elementi di computer grafica ecc. Qualsiasi storia del videoclip che non voglia apparire troppo tendenziosa, dunque, dovrà limitarsi a segnalare quelle poche (e in fondo neanche troppo interessanti) date chiave: nascita di Mtv, messa in onda di Video Killed the Radio Stars dei Buggles (1979), Thriller di Michael Jackson (1984), Bohemian Rapsody dei Queen (1975). In seguito, andando a ritroso, lo storico se vorrà potrà, al massimo, cercare di individuarne gli eventuali progenitori (i soundie, gli scopitone, le esibizioni dei cantanti per show televisivi, i musical, i film-concerto, sino al pre-cinema, alle avanguardie storiche e ai primi brevetti di strumenti musicali che generano colori, come l'organo inventato da Rimington). Come sintetizza Guido Michelone,
Si tratta (…) di una metamorfosi che potrebbe parlare in profondità delle strutture codicali di un testo audiovisivo, ma che (nella specifica
174Di Marino B., Op. cit., p. 6
175Hanson M., Reinventing music video: next-generation directors, their inspiration and work,
considerazione del videoclip) rende complessa e tortuosa se non addirittura sterile e velleitaria, almeno per questi anni, una definizione e un profilo valoriale netto di questo cammino tecnico-espressivo176.
Parlando di videoclip, insomma, qualsiasi classificazione o categorizzazione rischia di essere tendenziosa, essendo lo storico costretto a selezionare un artista rispetto a un altro a seconda non dell'importanza effettiva di quell'artista nel panorama internazionale ma del gusto personale, e correndo il rischio di autorializzare prodotti che spesso di autoriale hanno ben poco, derivando, ancor più direttamente rispetto al cinema, da precise strategie di marketing. Inoltre, se la selezione operata da distributori e festival ci dà un'indicazione su quali siano i film più importanti del periodo in cui viviamo, per i videoclip questa selezione è impossibile: tutti i video, prima di essere visti, si equivalgono, sono sullo stesso piano, e il loro successo dipende in grande misura dal successo della canzone che propongono. Come dice il sociologo Simon Frith, è un dato di fatto che “un buon video non può vendere una cattiva canzone, ma una buona canzone può spingere un cattivo video”177. Il paradosso è che, per quanto un video sia apprezzato e rimanga associato nella mente del pubblico alla canzone che promuove, all'interno del palinsesto tende in realtà a scomparire, riassorbito dal contenuto musicale. A prevalere è insomma, come dice Di Marino, “la natura di veicolo pubblicitario del medium, e non la sua capacità di costituirsi come sguardo incrociato del regista e del musicista”178.
Insomma, lo storico non ha grandi strumenti a disposizione per potersi orientare nel
mare magnum dell'industria videomusicale. D'altronde, numerosi sono stati i tentativi
di classificare il video musicale negli anni '80, ma nessuno sembra basarsi su una precisa ideologia, né tentare ulteriori approfondimenti al di là delle lapidarie definizioni. Senza pretesa di essere esaustivi, basti citare qualche esempio: il già citato Frith divide il clip in a) commedia b) concettuale c) d'azione, utilizzando una
terminologia vicina ai generi cinematografici179. Anne Kaplan lo distingue invece più
176Michelone G., Film-lampo: per un approccio parasemiologico, in Michelone G., Raiteri C. (a cura
di), Dal cinema al video: tempi post-moderni tra film e clip, CGS, Roma, 1992, p. 47.
177Di Marino, Op. cit., p. 18. 178Ivi.
179Cfr. Frith S., Goodwin A., Grossberg L (a cura di), Sound and Vision: The Music Video Reader,
chiaramente in a) romantico, b) moderno, c) postmoderno180. Il primo presenta plot che ruotano intorno ad amori ostacolati o a coppie che si riappacificano, il secondo esprime invece un'ideologia o un'istanza di giustizia e libertà, mentre il terzo è più aggressivo e frammentato dal punto di vista linguistico, e presenta una situazione conflittuale tra uomo e donna. Semplifica molto le cose John Walker, che riduce il
tutto a due opzioni: a) dal vivo; b) a soggetto181. In tempi molto più recenti anche
Sibilla ha preferito parlare di tre tipologie: a) performance; b) narrativo); c) concettuale182.
Tutte queste classificazioni (come altre che per ragioni di spazio non citerò) sono ovviamente arbitrarie e discutibili, ma va chiarito che ricercarle non è una scelta priva di senso. Classificare i videoclip in macrogeneri può infatti fornire strumenti efficaci nell'analisi degli stessi. Non è sbagliata la classificazione in sé; semmai, è sbagliato usare tali categorie non per individuare tendenze stilistiche o strutturali, bensì per sviluppare un discorso puramente storico, che risulterebbe inevitabilmente ricco di forzature.
Alla ricerca su base storica viene posto poi un altro limite, evidenziato anche da Di Marino, di carattere informativo: per molti anni l'autore di videoclip, tranne rare eccezioni, oppure quando si trattava di grandi nomi “presi in prestito” dal cinema, è rimasto avvolto nel mistero, oscurato dalla star musicale. Del resto impersonalità, reversibilità, autoreferenzialità e trasmigrazione dei simboli all'interno dell'immaginario videomusicale sono concetti tra loro correlati che contribuiscono a rafforzare la sua duplice natura artistico-promozionale. “Chi analizza un video musicale deve infatti essere interessato primariamente all'immagine”, scrive Di Marino, che si mostra tuttavia più possibilista sull'eventualità di classificare i prodotti videomusicali in generi visivi, magari trasversali ai corrispettivi generi musicali.
Refrattarietà del mondo accademico
Il pregiudizio è sicuramente il maggior nemico degli studi nel settore videomusicale. Certo, c'è un diffuso disinteresse da parte del mondo accademico (non solo in Italia),
180Cfr. Kaplan A., Rocking around the clock: music television, postmodernism and consumer culture,
New York, Methuen, 1987.
181Cfr. Di Marino, Op. cit.
ma ciò che inquina maggiormente lo stato dell'arte di tali argomenti non è tanto lo snobismo di chi non si cimenta con i video musicali, ma quello di chi vi si cimenta. La seconda pista da non seguire, infatti, è quella di ripercorrere la storia dell'industria videomusicale sentenziando giudizi di valore su un corpus di elementi selezionati in modo casuale, e approcciandosi al videoclip come al fratello scemo del cinema: cinema e videoclip non sono fratelli, al limite lontani parenti, hanno un antenato in comune, e questo antenato (è ciò che mi sforzerò di dimostrare più avanti) si chiama Georges Méliès.
È chiaro che un videoclip tendenzialmente non raggiungerà mai, sia per durata che per la sua finalità, la complessità e la profondità concettuale di un buon film. Non mancano però esempi in cui, anche in ambito puramente videomusicale, si è cercato di costruire una drammaturgia convincente e addirittura commovente. Si vedano, a tal proposito, prodotti come Coffee & TV dei Blur (1999) o Songs to say goodbye dei Placebo (2007). Il punto vero, però, è che il videoclip neanche ci prova, a raggiungere tale obiettivo, né d'altronde è tenuto a farlo, quello semmai è lo scopo del cinema. Eppure, come tanti critici del cinema nei suoi primi decenni di vita erano fortemente condizionati dalla critica letteraria, così tanti critici dei videoclip sono fortemente condizionati dalla critica cinematografica, e anche quando si sforzano di cimentarsi col videoclip, lo fanno spesso per puro esercizio o speculazione intellettuale, se non semplicemente per una sorta di divertimento pop.
Tra di essi, figura sicuramente Serge Daney, il quale si chiede, significativamente, se il clip non sia forse “la forma più seducente di una derisione”, ossia “una maniera in fondo modesta di dire che se sappiamo citare tutto, non sappiamo più nulla di quello
Blur, coffee and tv
che citiamo?”183. E ancora: “il clip non è, come si dice, un piccolo film, è il falso riassunto di un grande film introvabile. Il clip è qualcuno che ti trascina in una serie di scorciatoie senza avere il coraggio di dire che, comunque, non conosce la strada giusta. Ed è proprio questo che è interessante”184. In parte il clip è un trailer – indipendentemente dalla tipologia analizzata – proprio perché accetta di essere incompleto, di mostrarci soltanto frammenti di una possibile storia. “Il clip”, aggiunge Daney, “è la memoria del cinema in quanto il cinema è finito Ma è anche la promessa del cinema in quanto il cinema comunque si ricompone. Ci sono due modi di vedere una clip. Come un simulacro (frammenti di un tempo perduto) o come un
sintomo (frammenti di un tutto da scoprire)”185. Riconoscere nel videoclip solo una
citazione superficiale e confusa di un grande passato cinematografico, perché questa in fondo è la parafrasi delle parole di Daney, è il segno non tanto di un'arroganza, quanto di una forma mentis dura a morire.
Un simile atteggiamento è adottato anche da quel filone critico che nel videoclip vuole vedere nient'altro che un'emanazione diretta dell'ideologia capitalista, un sottoprodotto che, data la sua stessa natura commerciale, non può in nessun modo assurgere allo stato di arte (come se le major cinematografiche hollywoodiane fossero dei soviet). Ad esempio, uno dei massimi teorici cinematografici di sempre, Christian Metz, non ha lesinato parole dure nei confronti di questa forma espressiva, definendola una bassa parentela “tra una musica tonitruante con funzione di interpellazione manifesta e persino volgare” da un lato e un”continente visivo rutilante, appiattito e frantumato” dall'altro. Si tratta di un “nuovo cinema sonoro”, prosegue Metz, “convulso e impastato, che combina le seduzioni dell'isteria con quelle dell'obesità”186.
Posizioni simili sono ben sintetizzate da Dick Hebdige, che spiega come nella percezione di certi accademici “i videoclip siano visti come ulteriore congelamento- mercificazione di una cultura autentica in un prodotto inautentico (confezionato), in
un processo che porta alla primazia del televisivo: il simulacro”187.
183Daney S. in Libération, 2 ottobre 1985, incluso in Ciné Journal, Roma, Biblioteca di Bianco &
Nero, 2000, p. 293.
184Ivi 185Ivi
186Peverini P., Il videoclip: strategie e figure di una forma breve, Roma, Meltemi Peverini, 2007, pp.
Sul versante più strettamente politico, poi, i videoclip sono tirati in ballo, tra gli altri, da Benjamin R. Barber. Lo studioso statunitense, nel 1996, parla di un “nuovo semisovrano del McMondo”, costituito dalla classe di “specialisti dell’informazione e delle comunicazione che creano e controllano i beni immateriali della nostra civiltà globale: libri, film, programmi informatici, riviste, videoclip, parchi tematici, annunci pubblicitari, canzoni, software, quotidiani e programmi televisivi”188. Il videoclip, quindi, rientrerebbe in una strategia di potere definita Infotainment
Telesector. Le preoccupazioni di Barber, che saranno pienamente condivise dal
popolo di Seattle e dai movimenti No Global che di lì a qualche anno prenderanno piede, non sono sbagliate, ma appunto, dal punto di vista degli studi specifici sul