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L'IMMAGINARIO, I NUOVI MEDIA E I NUOVI MERCATI L'eredita materiale di Georges Melies nell'era digitale

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2013/2014

Corso di Laurea Magistrale in

STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO

SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

L'IMMAGINARIO,

I NUOVI MEDIA E I NUOVI MERCATI

L'eredità materiale di Georges Méliès nell'era digitale

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa Sandra Lischi

Tesi di Laurea di Raffaele PAVONI

Matricola n. 512480

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Indice

Indice...3

Introduzione...5

1. L'opera di Georges Méliès...11

1.1 Cenni biografici...11

1.2 Arte e artigianalità: la tecnica come centro di interesse...25

1.3 Logiche folli e ricostruzioni distruttive: Méliès e l'uso del medium cinematografico...47

2. L'opera di Georges Méliès...57

2.1 Problematiche connesse al recupero e al restauro delle pellicole di Méliès....57

2.2 Fedeltà e ricontestualizzazione: il restauro della copia a colori di Le voyage dans la lune...71

2.3 L'opera d'arte nell'epoca della reinterpretazione tecnica: nuova distribuzione e fruizione delle opere restaurate di Méliès...97

3. Eredità immateriale...113

3.1 Il videoclip: metodologie a confronto...113

3.2 Georges Méliès e i video musicali...151

3.3 Un caso di studio: Michel Gondry...177

Conclusioni...201

Bibliografia...203

Filmografia parziale di Georges Méliès...209

Videografia selezionata...215

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Introduzione

Georges Méliès è stato il primo a concepire e a utilizzare il cinema come luogo dell'immaginazione, il primo a concepire un mondo immaginario o di ricostruzione storica, senza interessarsi minimamente a qualsiasi principio di verosimiglianza. Come scrive Laurent Mannoni, Méliès “è stato il simbolo più lampante dell'incontro

tra la magia e il cinema, il maestro assoluto delle fantasmagorie filmiche”1. Il corpus

delle opere di Méliès, in larga parte distrutto, è stato spesso citato, più o meno consapevolmente, da tutta una serie di autori che su questa falsariga hanno fondato il loro universo e il loro stile. Ma è solo negli ultimi anni che, per ragioni che concernono da una parte i mutati contesti di distribuzione e fruizione della Settima Arte, dall'altra le moderne tecnologie di restauro, l'opera dell'illusionista di Montreuil ritorna in qualche modo centrale, e con essa tutta una concezione di cinema come artificio, artigianalità, stupore, decostruzione. Una rinascita che è al contempo materiale e immateriale, riconoscimento postumo dell'artista e introiezione delle sue innovazioni nel quotidiano, nel digitale, nel web.

Inizialmente si cercherà di analizzare l'opera di Méliès, non solo (o non tanto), dal punto di vista biografico, data la quantità di inchiostro già spesa per narrare, in modo più o meno attendibile, quella che è stata una vita incredibile. Si cercherà di analizzare il suo stile e la sua poetica, cercando di inserire la sua esperienza nel contesto storico-artistico dell'epoca.

L'immaginario di Méliès ha infatti specificità molto forti, che si legano a tre aspetti del suo passato, nonché della storia dello spettacolo del XIX sec.: l'arte magica, il teatro, il disegno. Méliès, non a caso, operava in tutti questi settori, e la sua forma

mentis caratterizzò la sua opera cinematografica sia in senso restrittivo

(corrispondenza di tempo dell'azione e tempo del racconto, punto di vista fisso) sia in senso innovativo (usare l'apparecchio cinematografico, e in particolare lo strumento del montaggio, come creatore di immaginari, decostruttore della realtà). Tutti gli autori e artisti che da queste basi costruiranno le loro opere non potranno a loro volta essere dissociati da queste tre arti, se così le si vuole chiamare, arti che, in netto

1Mannoni L., Méliès. Magie et cinéma, in Malthête J., Mannoni L. (a cura di), Méliès, magie et

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declino nel ventesimo secolo, penetreranno nell'arte cinematografica, depositandosi stabilmente ai margini della scena.

La seconda parte della dissertazione verterà, invece, sull'eredità materiale dell'opera di Méliès. Si tratta di un'eredità frammentata, il frutto di innumerevoli sventure: tra tutte, il celebre rogo con cui l'artista diede alle fiamme tutte le sue pellicole (gli storici stimano circa 500 negativi), netta rottura col passato e con un pubblico che gli aveva voltato le spalle. Quella che è considerata dai restauratori cinematografici una delle vicende più sciagurate della storia della conservazione filmica, ha fatto sì che per più di un secolo la ricostruzione della filmografia mélièsiana costituisse un rebus inestricabile. Benché spesso si dica che nulla nel cinema venga mai distrutto, nel caso di Méliès molte opere, magari dall'alto valore artistico, sono andate irrimediabilmente perdute. Molte sono, comunque, le fonti a cui ispirarsi per avere indizi importanti: disegni, foto di scena, ritratti, fotogrammi singoli, apparecchi magici, costumi, accessori, manoscritti, cataloghi, locandine, programmi, macchine o accessori cinematografici. Il recupero e il restauro dell'opera del maestro di Montreuil è indubbiamente un lavoro stimolante e sterminato.

Il recente ritrovamento e restauro di una copia a colori, della cui esistenza non si avevano nemmeno notizie certe, di quello che è considerato (a ragione) il suo capolavoro, il Voyage dans la lune, introduce però nuove problematiche in questo discorso. Se è vero infatti che il restauro è sempre una reinterpretazione, questo è ancor più vero nel caso di Méliès, dove l'assenza o la mancanza di fonti spingono spesso i restauratori a compiere operazioni talvolta acrobatiche per eliminare le lacune del film, cercando al contempo di comprendere la strategia di messinscena dell'autore.

Si potrebbe, parafrasando il noto saggio di Walter Benjamin, parlare quindi non tanto di opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica, ma di opera d'arte nell'epoca della reinterpretazione tecnica: di come, cioè, problemi oggettivi, cambiamenti tecnologici e mutamenti del contesto produttivo e distributivo possano dare sì nuova vita ai capolavori del passato, ma una nuova vita artificiale, tutta tesa tra uno sforzo di fedeltà assoluta a un originale (il quale riconquista d'improvviso l'aura che aveva perduto) e una ricontestualizzazione nell'ambito dei mezzi di diffusione informatici e digitali.

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Nell'ultima parte, infine, si dimostrerà come le intuizioni, spesso istintive e guidate forse da una pura follia, del Nostro abbiano appunto dato vita a un filone cinematografico che, più o meno sotterraneo, è sempre esistito nell'arte cinematografica, intersecandosi spesso con nuove influenze e nuovi media. I film di Méliès brillavano particolarmente per la loro fantasia dinamica, per la loro immaginazione incoercibile, per la loro gioia irresistibile. La sua cosmogonia era fatta di effetti speciali, diavolerie, trompe-l'oeil, illusioni, fiamme, vapori, complesse macchinerie teatrali. Quello che lo distingueva, però, dai suoi colleghi illusionisti non era solo l'intuizione, geniale, di usare il neonato medium cinematografico per i suoi scopi, ma anche – e questo è un aspetto spesso trascurato dagli storici del cinema – la sua poetica, i suoi mondi audaci, personali, misteriosi, così lontani da quello che era il cinema di allora, ma che al contempo solo tramite il medium cinematografico potevano esistere, prendere forma, animarsi. Il rapporto tra filmico e profilmico è ridiscusso, lo statuto stesso dell'immagine è messo in discussione, con ripercussioni d'importanza capitale sulla percezione degli spettatori, sia a livello artistico che a livello ontologico in senso lato. E nella decostruzione di tale immagine-verità non solo c'è una rivoluzione a livello percettivo, ma anche una critica sociale spesso non banale. All'anarchia (e l'autarchia) formale corrisponde quindi un'anarchia sociale, essendo entrambe le posizioni tese a decostruire e a mettere in discussione la realtà “istituzionale” esperita. Il meraviglioso tende a questo, e in tale messa in discussione trova la propria ragion d'essere. Ogni fantastico, come scrive Adonis Kyrou, non è meraviglioso. “Il fantastico senza meraviglioso”, prosegue lo studioso, “lo lascio volentieri ai curati, a Cocteau e alle riviste del grande spettacolo. Io non prendo gli ostensori per lanterne e non vado in estasi davanti a ogni vampiro e ogni apparizione. (…) Il meraviglioso esplode per

terra. I maghi dei paesi selvaggi e gli alchimisti attingono al meraviglioso quando

distruggono (spesso senza volerlo) ogni idea di dio, di potere supremo, di forze extraterrestri, di peccato”2. Non a caso Kyrou dedica a Méliès parole d'amore, paragonando i suoi film alle poesie di Benjamin Péret e, soprattutto, ai quadri di Henri Rousseau: “Come nelle più nelle tele del Doganiere Rousseau, una tenerezza, un amore dell'umano fiorisce in mezzo a piante stilizzate e a apparizioni fantastiche”3.

2Kyrou A., Le Surréalisme au cinéma, Le terraine Vague, Paris, 1963, pp. 63-64. (corsivi nel testo). 3Ivi, p. 70.

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Questo è il filo rosso che percorre tutta la storia del cinema e che parte, appunto, da Georges Méliès. A lui, e a questa concezione della Settima Arte, devono molto registi come Jean-Pierre Jeunet, Michel Hazanavicius, Tim Burton, George Lucas, Terry Gilliam, Zbigniew Rybczyński.

Il cineasta che però, più di chiunque altro, ha saputo introiettare e reinterpretare la lezione mélièsiana, conservandone lo spirito originario, è stato a mio parere Michel Gondry, nei suoi film ma ancor più nei suoi video musicali. Tramite un'analisi letteraria di un corpus di videoclip di Gondry si dimostrerà, infatti, come certe tendenze (la ricerca di stupore a breve termine, la decostruzione della realtà, l'esibizione del trucco, l'artigianalità, la centralità del montaggio) non solo siano immutate dai tempi di Méliès, ma come anzi, esse vibrino e ridiventino centrali in quella che forse è la deriva più postmoderna dell'arte cinematografica: il videoclip. Riprendendo il concetto di modernità di Bauman, infatti, e in particolare il postmoderno come essenza liquida che non si lascia arginare, possiamo dire che il videoclip contiene, al suo interno, narrazione, marketing e arte d'avanguardia, ed è persino multimediale, in quanto condiviso dalla tv e da internet. Questa concezione onnivora e in un certo senso infantile dell'arte cinematografica, dove tutto nasce da zero per crescere nutrendosi di qualsiasi stimolo con scopi eminentemente ludici, si ricollega, con una vertigine temporale, proprio alla concezione mélièsiana della Settima Arte, portando alla luce una connessione che potrebbe essere d'impulso anche per futuri studi sulla materia.

Va precisato, sin da ora, che nella nostra trattazione non ci soffermeremo su tutte le forme brevi digitali, ma quasi esclusivamente sul videoclip. Quello dei video musicali è, infatti, un territorio che già di per sé si presenta come sconfinato: la produzione massiccia e policentrica ne fa un oggetto assolutamente non monitorabile, e refrattario a qualsiasi suddivisione in categorie, siano esse storiche o tematiche (il che spiega anche una certa indifferenza da parte del mondo accademico). Già, quindi, prima di individuare quanto di mélièsiano ci sia nel videoclip bisogna cercare, nei limiti del possibile, di capire se sia corretto approcciarsi ad esso come a un corpo unitario, al netto di tutte le variabili tecnologiche, spaziali, temporali e di fruizione. Espandere questa ricerca alle a tutte le altre forme brevi digitali (spot, banner, trailer, cortometraggi, videoarte) sarebbe un lavoro sicuramente interessante ma altrettanto sicuramente di proporzioni gigantesche. La videoarte, in particolare, mostra un forte debito nei confronti di

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Méliès, soprattutto nella sua componente neo-dada e surrealista (si pensi a Michel Jaffrennou, a Nicolas Bériou, a Zbigniew Rybczynski), ma manca di quello spirito

mainstream che è che accomuna, come dimostreremo, Méliès e i video musicali. In

altre parole, lo scopo di questo confronto non è quello di dimostrare che certe innovazioni stilistiche e poetiche siano sopravvissute e si siano sviluppate anche nei sette decenni che separano il rogo di Montreuil dalla nascita di Mtv; ciò che conta è capire perché esse siano ritornate in auge. Esse ritrovano il loro spazio, appunto, principalmente in una forma espressiva come il videoclip, che pur rivolgendosi ad un pubblico vasto e popolare permette di sperimentare soluzioni visive e testuali innovative. L'importante è meravigliare lo spettatore, farlo presto, e farlo con ogni mezzo necessario. Se tutto il cinema popolare deve rispondere ai desideri del pubblico, nel caso del videoclip, più che in qualsiasi altra forma breve, tali desideri sono molto simili a quelli che Méliès cercava di esaudire nei suoi spettacoli Robert Houdin. Resta da dimostrare se siano simili anche i prodotti finali, e in che misura.

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1. L'opera di Georges Méliès

1.1 Cenni biografici

Nel 1923, viene inaugurato, a Parigi, il prolungamento del Boulevard Haussman. Per Méliès non è un momento facile: il suo théâtre Robert-Houdin è stato demolito per l'occasione. Rovinato, vinto dall'impossibilità di far fronte ai suoi debitori, non gli resta che vendere la sua proprietà di Montreuil, e gli studioss, ormai abbandonati. Prima di lasciare la proprietà, Méliès vuota una ad una le scatole accumulate nel corso degli anni e manda al rogo tutti i suoi film: cinquecento negativi, in fiamme. È una specie di suicidio artistico, o una protesta, se si preferisce (in tutti i suicidi, d'altronde, è presente una componente di protesta). O ancora, una drammatica ammissione di inadeguatezza al mondo circostante: si tratta di tre aspetti quasi sinonimici, d'altronde. Mai, nella lunga casistica di artisti che distruggono le loro creazioni, è stata raggiunta una tale radicalità, un tale taglio netto con il passato. Tra tutti gli eventi storici che hanno pesantemente influenzato la storia del restauro cinematografico, questa è probabilmente la più sfortunata in assoluto. Siamo nel 1923, e i 21 anni che separano questo gesto autodistruttivo dalla celebrità internazionale ottenuta con il Voyage dans la lune sembrano un'era geologica. Tutto è cambiato: i gusti del pubblico, la tecnica cinematografica, il linguaggio filmico, etc. A tutto ciò si aggiunse, come vedremo, tutta una serie di disavventure che non hanno assolutamente niente a che vedere con l'arte in senso stretto: Méliès era un autarchico, per citare il film di Nanni Moretti, e le major cinematografiche che stavano in quegli anni nascendo, al di qua e al di là dell'oceano, non esiteranno a inghiottirlo e a irretirlo in una spirale di cinismo e di doppi giochi.

L'incendio delle pellicole ha quindi un valore non solo di taglio netto personale con il passato, ma soprattutto di disprezzo per tutto quello che fu, per tutto quello che il cinema diventerà: una gigantesca macchina di storie, una fabbrica di sogni, davanti alla quale il povero Georges non potrà che arrendersi. La pista del disprezzo verso la Settima Arte è d'altronde confermata dal fatto che, all'epoca, era estremamente difficile che uno studio distruggesse le pellicole. Piuttosto, si cercava di rifonderle e venderle per ricavarci qualche soldo. Le pellicole, fuse, diventavano allora tacchi, scarpe, etc. Méliès sicuramente non avrebbe troppo apprezzato l'idea che la borghesia parigina potesse camminare in scarpe derivate dai propri film, e, malgrado le

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opinioni politiche di Méliès non siano che accennate nelle sue opere, nel fuoco vi era sicuramente un disprezzo implicito di un intero sistema economico, dello show-business tout-court. E una certa dose di follia, evidentemente; come anche la convinzione, evidentemente sbagliata, che nessuno si sarebbe più interessato dei suoi film, che presto quelli che lo avevano acclamato e che erano accorsi in massa ai suoi spettacoli non si sarebbero neanche ricordati del suo nome.

Si sbagliava, appunto: non solo le Università e gli Archivi faranno ciò che sarà in loro potere per recuperare tutto il materiale che Méliès ha girato, scritto, disegnato, dipinto, fotografato; ma – cosa ancor più importante – il suo stile e la sua poetica influenzeranno e daranno il via al cosiddetto “genere Méliès”, da cui deriverà il filone fantastico del cinema, e che influenzerà tutte le generazioni a venire (ancora oggi, le sue opere non cessano di portare la propria ombra sulle nuove generazioni). Gli storici tendono a separare il filone Méliès dal filone Lumière, identificando il primo con la nascita del cinema di finzione, il secondo con la nascita del film

documentario. Citando Burch4, si può dite che tutta la storia del cinema sia tesa tra

un'affermazione della superficie (Méliès) e un'affermazione della profondità (Lumière). In realtà, si tratta di una semplificazione critica: non è possibile lavorare su Méliès prescindendo dai fratelli Lumière, come d'altro canto non è possibile lavorare sui fratelli Lumière prescindendo da Méliès (illuminante, a questo proposito, la polemica innescata da Jean Luc Godard5). Da ambo le parti, infatti, abbiamo aspetti di continuità, e certe scelte stilistiche comuni non possono che testimoniare, d'altronde, la circolazione delle loro idee dall'uno all'altro. Vediamo quindi come gli ingegneri di Lyon, dopo un iniziale periodo proto-documentaristico, arrivino a cercare nuovi stimoli proprio nei film di finzione; è vero, parimenti, che la composizione del quadro e la visione frontale del cinema di Méliès sono aspetti molto più vicini al teatro del diciannovesimo secolo che alla scrittura filmica che nascerà nel ventesimo. In questo senso, quindi, le prospettive dinamiche dei Lumière apriranno, molto più di quanto farà Méliès, le porte al cinema di finzione, e in particolare a quello drammatico, genere che sarà dominante negli anni della Prima Guerra Mondiale.

4Cfr. Burch N., Porter ou l'ambivalence, in Bellour R. (a cura di), Le cinéma americain, Paris,

Flammarion, 1980.

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Ciononostante, si può affermare, senza dubbio, che Méliès sia stato il primo a utilizzare il cinematografo come luogo dell'immaginazione, il primo a concepire un mondo immaginario o di ricostruzione storica, non interessandosi affatto a un qualsivoglia principio di verosimiglianza, al punto da impiegare scenografie artificiali persino nelle rare scene girate in esterni.

Sottolineare la connessione tra l'arte magica e la nascente arte cinematografica è fondamentale per capire meglio la sua opera. Senza entrare nei dettagli della sua biografia personale, basti sapere che molto prima dell'invenzione del cinema, nel 1985, Méliès aveva deciso di rilevare il teatro Robert-Houdin, in Boulevard des Italiens, salvandolo dal fallimento. All'interno di tale struttura si tenevano spettacoli di magia, di illusionismo e di prestidigitazione. Dopo aver assistito a una delle prime proiezioni pubbliche dei fratelli Lumière, il giovane Georges resta meravigliato dal medium cinematografico, e decide di inserire brevi film all'interno dei suoi spettacoli. Le prime scene che egli gira sono totalmente realistiche, sulla falsariga dei fratelli Lumière (si veda la sua prima ripresa in assoluto, Une partie de cartes). Solo in seguito Méliès inventerà qualcosa di più originale, mettendo in atto i due trucchi che, secondo lui, erano gli unici strumenti filmici che potessero sostituire o aggiungersi ai trucchi che oggi definiremmo profilmici. Questi due trucchi, come vedremo più avanti, sono la sovrimpressione e, soprattutto, la sostituzione.

Il primo lavoro, se così si può dire, veramente “mélièsiano” di Méliès è Escamotage

d'une dame, che riprende un classico del repertorio illusionistico dell'Ottocento e

oltre. Una signora, seduta su una sedia, è coperta da un telo; il prestidigitatore (Méliès stesso, primo caso in assoluto di attore-regista) muove le sue mani e la signora scompare. Sul palcoscenico teatrale, tale escamotage necessita degli accessori speciali, macchinerie talvolta anche molto complesse, e per nascondere le quali era necessaria una grande abilità. Qua, al contrario, Méliès rende questo trucco tramite il montaggio, operando una sostituzione. Questo effetto sarebbe, secondo la leggenda, stato scoperto da Méliès per puro caso, filmando delle carrozze in movimento davanti all'Opera.

J'avoue sans fausse honte que cette gloire, si gloire il y a, est celle de toutes qui me rend le plus heureux. Veut-on savoir comment me vint la première idée d'appliquer le truc au cinématographe ? Bien simplement, ma foi. Un blocage de l'appareil dont je me servais au début (appareil

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rudimentaire, dans lequel la pellicule se déchirait ou s'accrochait souvent et refusait d'avancer) produisit un effet inattendu, un jour que je photographiais prosaïquement la place de l'Opéra : une minute fut nécessaire pour débloquer la pellicule et remettre l'appareil en marche. Pendant cette minute, les passants, omnibus, voitures avaient changé de place, bien entendu. En projetant la bande, ressoudée au point où s'était produite la rupture, je vis subitement un omnibus Madeleine-Bastille changé en corbillard et des hommes changés en femmes6.

Ovviamente, a parte quella dello stesso Méliès (la cui attendibilità, come vedremo, è abbastanza scarsa) non esiste alcuna testimonianza dell'accaduto. Non siamo però, si badi bene, nell'ambito della ricostruzione storica, ma di quello della leggenda: la vicenda dei cavalli di Place de l'Opéra è uno dei miti fondatori del cinema, così come quello degli spettatori in fuga durante la proiezione dell'Arrivée d'un train en gare de

La Ciotat dei fratelli Lumière, e in quanto mito è da considerare non come effetto di

una realtà storica, ma nel suo effetto reale sulla storia a venire.

Escamotage d'un dame è il primo film di Méliès a presentare una manipolazione

ottica. In realtà, ci ricorda Worley7, non è la prima volta che l'effetto di sostituzione

viene messo in atto nella storia del cinema. Edison, in uno dei suoi primi film con Kinetoscope (The execution of Mary, Queen of Scots) sostituirà, secondo un procedimento analogo, l'attrice con un manichino impiccato. L'effetto stop-action è identico in entrambi i film, ed è difficile credere che il maestro di Montreuil non sia mai entrato in contatto con tale opera. L'originalità di Méliès rispetto a Edison, semmai, sta non nell'aver inventato la tecnica, ma nello scopo finale: se Edison vuole sostenere l'illusione di realtà, Méliès, al contrario, vuole sostenere la realtà dell'illusione.

Vero o no che sia il frutto di un semplice errore dell'apparecchio, quindi, quello dell'Escamotage d'une dame è il primo caso documentato di un uso del montaggio nel cinema non come semplice connessione di più scene tra loro, ma come strumento grammaticale con una funzione propria. Per l'arte cinematografica, ciò avrà lo stesso

6Méliès G., Les vues cinématographiques, in La revue du cinéma, Paris, 15 ottobre 1929, p. 5. 7Cfr. Worley A., Empires of the imagination: a critical survey of fantasy cinema from Georges Melies

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effetto, con tutti i dovuti distinguo, dell'introduzione che la punteggiatura aveva avuto sulla scrittura.

Nonostante l'ingegnosità di queste trovate, scrive Farina8, i primi film restano ancora

nei limiti della rappresentazione della prestidigitazione. Anche se presto i trucchi diventeranno praticamente tutti fotografici, la situazione descritta resta sempre teatrale, con l'illusionista che si rivolge agli spettatori e fa il suo numero dichiaratamente a loro beneficio. Ma Méliès differenzia la produzione cominciando a realizzare in studio ricostruzioni di avvenimenti storici. Tra i generi più apprezzati dal pubblico i filmati di attualità avevano una posizione di privilegio. La nascita del cinema aveva fatto infatti vagheggiare progetti di archivi audiovisivi di eventi storici, la cui autenticità non avrebbe potuto essere messa in dubbio da nessuno. Se la prima caratteristica della fotografia infatti era l'oggettività, a maggior ragione il vero sarebbe stato l'oggetto primo della fotografia animata, cioè del cinema: impossibile manipolare uno per uno migliaia di fotogrammi. Méliès si muove in direzione opposta, approcciandosi all'attualità e alla cronaca non per dimostrare il vero ma per abbellire il trucco.

Georges Sadoul9 mette in relazione la comparsa di trucchi che comportano un uso

sistematico di sovrimpressioni, mascherini e riprese su fondo nero con la probabile conoscenza di un libro di Albert A. Hopkins, direttore dello Scientific American, che illustrava in modo dettagliato i principi tecnici di un gran numero di trucchi teatrali e fotografici10. Secondo Hammond11, invece, l'importanza di questo libro va ridimensionata, essendo nient'altro che una sintesi dei principali trucchi in uso negli studi fotografici e largamente noti ovunque. In tutti i casi, grazie a Méliès il trucco diventa, al pari della ripresa dal vero, uno degli elementi costitutivi dello spettacolo cinematografico e il punto di partenza dei suoi successivi sviluppi come linguaggio. “Nel sistema tesuale di Méliès”, scrive Costa, “il trucco non ha funzione

riproduttiva, ma produttiva, secondo una logica che, più che di una grammatica, è

quella di una retorica (con tutta una varietà di funzioni e di regimi percettivi) e di una metrica (i trucchi come elementi di una scansione ritmica)”. Il trucco, quindi, non è

8Cfr. Farina A., Georges Melies: inventore del fantastico, Roma, Fanta Festival, 1990. 9Cfr. Sadoul G., Les pionniers du cinéma. De Méliès à Pathé, Paris, Editions Denoël, 1948.

10Cfr. Hopkins A. A., Magic Stage Illusions and Scientific Diversions Including Trick Photography,

New York, Dover Publishers, 1976.

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solo un procedimento tramite il quale generare il meraviglioso, “ma ne è anche la marca di enunciazione”12. Il cinema, d'altronde, dilata enormemente (rispetto al teatro) la possibilità di produzione dei trucchi. Ciò ne riduce rapidamente la credibilità, più rapidamente di quanto non fosse avvenuto nel teatro di magia. Méliès agisce a partire da questa coscienza (in questo senso egli rimane ancora legato alla logica del teatro, nel senso cioè che non lavora per rafforzare i codici della rappresentazione realista, come farà invece il cinema nel suo complesso).

Già nei film di esplicita ambientazione teatrale, la realizzazione cinematografica del trucco (arresto e sostituzione, con i successivi interventi in fase di edizione) e la necessità di concentrare nel breve lasso di tempo concesso dai venti metri di pellicola introducono accentuazioni iperboliche del ritmo e degli effetti, che sono elementi non trascurabili di differenziazione rispetto alla pratica teatrale. Sarà sufficiente esaminare a questo proposito quello che è già un piccolo capolavoro, Un homme de

tête, in cui lo stesso Méliès si stacca per tre volte la testa dalle spalle, rimanendo

disgustato dal pessimo coro che le tre teste eseguono assieme.

Se resta ancora qualcosa da interpretare, essa riguarda più Méliès uomo e meno la sua opera: quale era la consapevolezza dell'autore di fronte al suo lavoro? All'idea di un Méliès naïf, che usa l'apparecchio cinematografico come puro compendio della propria attività illusionistica, si oppongono in molti. Riccardo Redi13 ci ricorda, infatti, che Méliès non era solo un giostraio, ma aveva sviluppato delle capacità tecniche e artistiche tutte sue: era un tecnico prodigioso, un grande inventore di soluzioni formali (quindi anche narrative), un abile organizzatore. Nei confronti del prodotto che usciva dalle sue mani, egli aveva un atteggiamento di modestia e di ironia allo stesso tempo, consapevole forse che il grande “trucco” che sta alla base del suo lavoro (al Robert-Houdin come a Montreuil) non era altro che un gioco. L'estetica del prestigiatore consacra l'abilità come autentico valore. Nel passaggio al cinema, egli impiegherà gli “effetti speciali” non come mezzo, ma come vero e proprio oggetto della rappresentazione. Non ci interessa, cioè, sapere se la donna è stata tagliata in due, ma come questo sia possibile. Ed è in quel come che si sviluppa tutta la sperimentazione mélièsiana.

12Costa A., La morale del giocattolo. Saggio su Georges Méliès, Bologna, CLUEB, 1989, p. 101. 13Cfr. AA.VV., Melies: verso il centenario, a cura di Riccardo Redi, Roma, Di Giacomo, 1987.

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L'arte degli illusionisti, infatti, si basa sulla perizia tecnica e sull'invenzione. Lo spettatore sa che c'è un trucco, tutto sta nel capire quale: è la sfida alla capacità di comprensione del pubblico che costituisce il quid stesso degli spettacoli di magia. D'altronde, al diciottesimo secolo, illuminista e razionalista, segue un periodo come l'Ottocento che, al contrario, è il secolo ritenuto generalmente più romantico e irrazionale (il secolo di Robert-Houdin, appunto). Nonostante dividere così nettamente le due epoche possa sembrare una semplificazione, è indubbio che nell'Ottocento la gente, soprattutto quella delle classi più povere, ha un desiderio maggiore di essere meravigliata, stupita, incantata dall'intelligenza del mago, in una specie di sfida cerebrale: il mago vuole essere più intelligente del pubblico, per ingannarlo, e il pubblico desidera, al contrario, di essere più intelligente del mago, per svelare il trucco.

Tornando alla connessione tra la magia e il cinema, bisogna aggiungere che quasi tutti gli illusionisti amavano questo nuovo medium, e bisogna pensare che un illusionista è sempre, in una qualche misura, un bricoleur: modifica gli apparecchi, perfezionandoli e inventandone di nuovi, in una sfida costante con i concorrenti. La breve storia del suo studio è allo stesso tempo la storia dei suoi perfezionamenti tecnici. Nel 1897, Méliès, dovendo fare un piccolo film per il cantante popolare Paulus, ebbe l'idea dell'illuminazione artificiale, realizzata tramite quindici lampade ad arco (Paulus gli diede anche l'idea di sincronizzare immagine e suono). I giostrai, inoltre, non solo terranno vivo il cinema, ma garantiranno il successo dei film di Méliès, soprattutto tra il pubblico rurale. Tutti questi illusionisti, infatti, operavano in una sorta di zona comune tra la féerie e gli ambienti mondani (musical, teatri popolari). Insomma, è chiaro che la diffusione della Nuova Arte era un compito che non poteva che spettare ad essi. Soprattutto, vale la pena ricordarlo, nelle zone periferiche della Francia. Lì la composizione sociale del pubblico è infatti molto mutata dopo l'incendio al Bazar de la Charité, il pomeriggio del 4 maggio 1897. Si trattava di un grande evento di beneficenza, organizzato dalla aristocrazia cattolica francese a Parigi, all'interno del quale si potevano anche ammirare le immagini in movimento proiettate dalla tecnologia dei fratelli Lumière. Le attrezzature del proiezionista (utilizzando un sistema di etere e di ossigeno anziché di energia elettrica) presero fuoco: il conseguente incendio, e il panico scatenatosi tra la folla, causarono la morte di 126 persone, soprattutto donne aristocratiche. Dopo tale

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episodio, la borghesia si allontanerà dal cinema, che resterà in mano, appunto, ai giostrai.

La pellicola si rivelava un mezzo pratico ed economico per far circolare in nuova veste i vecchi trucchi, oltre che un espediente per produrne di nuovi con i procedimenti della ripresa cinematografica. La breve descrizione di tale contesto produttivo è essenziale, come vedremo, per capire il cinema di Méliès, nel suo sforzo di interpretare i gusti e i desideri del pubblico non colto di allora, pur non rinunciando ad inserire in tali prodotti di entertainment elementi non solo tecnicamente e semioticamente rivoluzionari, ma anche tutt'altro che banali dal punto di vista contenutistico e drammaturgico.

Una volta dimostrato che Méliès non è solo un giostraio con una macchina da presa in mano, è altresì vero che, se parliamo della poetica di Méliès, non possiamo prescindere da influenze che lascino da parte la storia del cinema in senso stretto. Le radici della sua arte, infatti, sono da ricercarsi altrove, tanto che parte della storiografia contemporanea gli riconosce non solo il ruolo di pioniere del cinema (e dunque del ventesimo secolo), ma anche uno degli ultimi grandi rappresentanti del teatro magico del diciannovesimo secolo. Non è a caso che il “secolo lungo”, che

Eric Hobsbawm14 contrapponeva al più noto “secolo breve” comunista, finisca non

nel 1900, ma nel 1914. Spartiacque tra i due secoli sono stati, infatti, da un lato la rivoluzione francese del 1789, che portò in Europa la costituzione di una forma di governo repubblicano, dall'altro l'inizio della prima guerra mondiale, che segnò un cambio di segno repentino dell'organizzazione economico-politica della società, e non ultimo, nell'ottica marxista hobsbawniana, del modo di autorappresentarsi di tale società.

La corrente “fantasmagorica” dell'arte (o meglio, della féerie) segue il suo cammino parallelamente alla ricerca della prospettiva, del realismo, della riproduzione chimica e artificiale delle scene esatte che offre la camera obscura. Nel diciassettesimo secolo, la scienza fisica, quella ottica, quella diottrica e quella catottrica, erano confluite tutte insieme in una nuova arte, battezzata Art Trompeur. Due secoli più tardi, lanternisti e photographes spirites riprenderanno questo trucco: lasciando uno sfondo nero, è possibile fare apparire una giustapposizione di immagini. Méliès esplorerà questo procedimento con successo, come quello di usare mascherini. La

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féerie, dal canto suo, eserciterà un'influenza importantissima nell'immaginario del

giovane Georges, il quale, come sottolinea la nipote Madeleine Malthête-Méliès15,

era un habitué dei teatri parigini. Molto importante, a tale proposito, è stata sicuramente La biche au bois, féerie dei fratelli Théodore et Hippolyte Cogniard: è la prima volta che viene sviluppata l'idea di inserire il cinema come attrazione supplementare nel cuore della pièce, sulla scena teatrale. Ma influenza diretta devono aver avuto anche anche gli scritti di Binet riguardanti la psicologia della prestidigitazione: la concezione mélièsiana di magia passa dalla sua definizione della prestidigitazione, che si lega a quella dell'Art Trompeur che Charles Patin formulò nel 1647, e che si applica perfettamente ai futuri film di Méliès.

La prestidigitation est un art qui s’est proposé un but singulier : celui de rechercher et de développer toutes les influences qui peuvent nous induire en erreur et nous tromper sur ce que nous voyons. Quand une personne assiste à une séance de prestidigitation, sans comprendre les moyens employés, elle est sollicitée par certains gestes et certaines paroles, elle croit avoir vu poser en un endroit un objet qui réellement a été posé ailleurs, elle voit ce qui n’existe pas et ne voit pas ce qui existe. On comprend de quel intérêt est pour le psychologue l’étude des procédés employés pour produire l’illusion, puisque cette étude nous renseigne sur la marche ordinaire de notre pensée pendant que nous percevons les objets extérieurs, et nous découvre les points faibles de notre connaissance16.

L'illusione della testa semovibile, sfruttata spesso da Méliès, non è che una ripresa perfezionata della placca animata di Huygens, mentre in Danse de mort vediamo uno scheletro che gioca con il suo teschio: è solo in seguito che il Nostro si sbarazzerà di questo tema funebre e pomposo, tipicamente romantico, per adottare con fantasia, humour e gioia di vivere, il genere delle diavolerie grottesche.

Dell'esperienza prestidigitatoria Méliès conserverà non solo i temi visivi (maghi con cappelli a punta e barba lunga, taumaturgi cinesi, apparizioni del diavolo, etc.), ma anche, allo stesso modo, i principali effetti magici: sparizioni, apparizioni,

15Cfr. Malthête J., Méliès, images et illusions, Paris, Exporégie, 1996.

16Binet, A. (1894), La psychologie de la prestidigitation, in Revue Philosophique de la France et de

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trasposizioni, trasformazioni, levitazioni. A tutto ciò egli aggiungerà i due effetti filmici già citati di sostituzione e sovrimpressione. È lì che va ricercata la vera differenza tra la magia tradizionale e la “nuova magia” di Méliès: in quest'ultimo, è introdotta una questione forte sull'identità del corpo sullo schermo, su cosa sia e come sia possibile utilizzarlo. Questo aspetto è trattato da Burch, ma il suo studio è semplificato, ed evita di guardare Méliès da un punto di vista troppo psicanalitico (va anche detto, tuttavia, che all'epoca di Burch non c'erano troppi film di Méliès in circolazione)17.

L'altra fonte di ispirazione certa di Méliès è stata senza dubbio il disegno. Georges era un disegnatore instancabile, quasi maniacale. Egli stesso, per il Dictionnaire des

hommes illustres, mai pubblicato, scriveva di se stesso (in terza persona): Méliès était travaillé par le démon du dessin […] C’était plus fort que lui, et tandis qu’il ruminait une dissertation française ou des vers latins, sa plume machinalement, dessinait des portraits ou des caricatures de ses professeurs ou de ses camarades18.

Questo atteggiamento irriverente e, d'altro canto, quasi compulsivo, al di là degli inevitabili problemi a livello scolastico, lo accompagnerà per tutta la sua vita, e si riverserà nella sua arte cinematografica. Tutte le scenografie dei suoi film, infatti, alcune delle quali molto complesse, sono realizzate da lui, talvolta direttamente, talvolta no. Il trompe l’œil doveva essere perfetto, sempre (l'aspetto pitturale e antirealistico è, come vedremo, una caratteristica netta del suo cinema). Le scenografie sono concepite inizialmente come schizzo da Méliès, con dei modellini nel caso di scenografie più complesse (vedi il gigante di À la conquête du pôle). In seguito, vengono costruiti in legno e in tela nell'atelier contiguo allo studio. Tutte le scenografie, inoltre, sono dipinte in bianco e nero, e questo è un aspetto, come vedremo, non secondario per chiunque si ritrovi ad analizzare e a restaurare le sue opere. Era inutile, d'altronde, spendere soldi per una vernice colorata, se le riprese comunque sarebbero state effettuate in bianco e nero. Inoltre, il colore veniva registrato molto male dalla sua macchina da presa (il Théatrograph, di cui si parlerà più avanti): il blu tendeva a diventare bianco, il rosso nero, etc. La maggior parte

17Burch N., Op. cit.

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delle volte le scenografie erano fisse, ma poteva anche succedere di vederle animate, secondo quattro tipi di movimento.

Il primo è quello a scorrimento orizzontale: si veda, per citare un esempio, la Fée

Carabosse, in cui la fata cattiva si lancia all'inseguimento del principe cavalcando la

sua scopa nella notte, passando davanti alle stelle, alla luna e a lampi forsennati. Il secondo è lo scorrimento verticale, usato soprattutto per simulare il volo di una mongolfiera o la levitazione dei personaggi. Il terzo è il falso travelling in avanti, che consiste nello scartare verso l'esterno del quadro gli elementi scenografici presenti in primo piano in modo da svelare lo sfondo, e avere l'impressione di entrare all'interno della scenografia. Il caso più celebre sarà quello del Voyage dans la lune, e in particolare della scena nella quale gli scienziati assistono al decollo della navicella, con sullo sfondo la terra che si alza e l'orizzonte lunare che si abbassa. Il quarto e ultimo tipo di movimento è il movimento della macchineria teatrale, che talvolta può prevedere soluzioni estremamente ingegnose e cervellotiche; una delle più impressionanti è sicuramente quella di Les 400 farces du diable, in cui la carrozza tirata da un cavallo-scheletro è animata da sei macchinisti.

Per i piani larghi dei veicoli Méliès fa largo uso di modellini. In genere si tratta di modellini a due dimensioni, ma non sempre (si vedano la navicella di À la conquête

du pôle, o il treno di Le tunnel sous la manche). Le maquette erano, anch'esse,

rigorosamente in bianco e nero. È bene insistere su questo punto, perché sia nel processo di restauro che in quello di analisi filmica, bisognerà spesso congetturare i colori che, all'epoca, erano stati eventualmente dipinti a mano sulla pellicola. In questo lavoro di indagine, appunto, scenografie e maquette non sono di alcun aiuto (molto più utili, in questo senso, saranno disegni o dipinti).

In ogni caso, molti trucchi restano, a tutt'oggi, avvolti nel mistero, ed è un gran peccato. Numerose sono le soluzioni a cui Méliès ha fatto ricorso nella sua filmografia, e non è il caso di enumerarle tutte. Basti citare, tra i tanti escamotage, quello scelto per La sirène: per le sue riprese del fondale marino, Méliès posiziona la sua cinepresa a un metro e mezzo da un aquario alto, largo e poco profondo. Questo acquario viene in seguito riempito di pesci e di piante acquatiche; dietro di esso stanno il suo personaggio (la sirena) e due teli di tulle leggeri che, ondulando, deformano leggermente la tela di fondo, rappresentante un tema marino.

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Tornando alla sua parabola, le ragioni del fallimento di Méliès sono numerose, e non riguardano solo temi sociali ed economici. La colpa non è, insomma, solo delle

major o dei gusti del pubblico. Secondo Laurent Mannoni, la debolezza principale di

Méliès è stata quella di non aver saputo rinnovare abbastanza frequentemente il suo repertorio, tanto era occupato dalla sua attività polimorfa di regista-produttore-sceneggiatore-scenografo-attore19. “C'est assez surprenant”, scrive il figlio André,

“quand on voit ce personnage loufoque qu'il avait créé”20.

Volendo occuparsi di tutto, dunque, Georges non avrebbe potuto seguire con sufficiente attenzione l'evoluzione del mondo della magia, né avrebbe saputo comprendere la rapida progressione del cinematografo non solo in senso artistico e tecnico, ma anche industriale ed economico. Dopo un febbricitante e felice connubio, negli anni Dieci la relazione tra i maghi professionisti e le corporazioni cinematografiche è nettamente meno stretta.

Bisogna qui spendere qualche parola sull'evoluzione del contesto cinematografico dell'epoca, nonostante si tratti di un argomento di portata vastissima. Qualche accenno, in ogni caso, è fondamentale: nel febbraio 1909 si tiene il secondo Congrès

international des éditeurs de films, che vedrà tra gli altri la partecipazione dello

stesso Méliès, oltre ad importanti produttori internazionali come Georges Gaumont, Georges Mann, Charles Pathé. Il congresso adotta le perforazioni Edison come standard internazionale: questa normativa rende possibile l'affitto di pellicole a larga scala. Dovendo rispondere a una domanda sempre maggiore, ogni compagnia si impegna a produrre, ogni settimana, almeno una bobina di trecento metri, corrispondenti a dieci minuti circa.

Va ricordato, piccola parentesi importante soprattutto per quelli che saranno gli sviluppi di quest'elaborato, che essendo la proiezione manuale, e quindi a velocità variabile, la durata del film non era determinabile con precisione; anzi, eventuali accelerazioni o decelerazioni erano talvolta lasciate alla libera interpretazione dell'operatore, talvolta indicata in maniera più o meno precisa. Era preferibile, come unità di misura per determinare la lunghezza di un'opera, adottare i metri di pellicola (tutto ciò pone notevoli problemi, come vedremo, nel restauro digitale del cinema degli esordi).

19Cfr. Malthête J., Mannoni L., Op. cit. 20Sadoul G., op. cit., p. 63.

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Tornando al congresso, la normativa approvata dal congresso era decisamente insostenibile per i piccoli produttori indipendenti, che in gran parte scompariranno; alcuni, come Méliès, reagiranno, come abbiamo visto, facendosi assorbire da gruppi strutturati e capillari come Pathé e Gaumont. D'altronde, prima di dichiarare la resa, Georges le aveva provate tutte: intensificare la produzione, raddoppiare gli studios per produrre due film in parallelo (affidando uno dei due set a un suo assistente). Ma dal lato artistico, sostiene Mannoni, a questo fervore produttivo non era corrisposto un fervore creativo all'altezza, e i film si allungano, diventano più complessi e articolati, sintomo evidente di una crisi d'ispirazione. Pathé, d'altronde, aveva introdotto un mutamento importante nel mercato del film, inventando il noleggio in luogo della vendita diretta al metro della pellicola, dimostrandosi più lungimirante di Méliès e della sua Star Film. Gaumont, appunto, diventerà il suo distributore esclusivo a partire dal 1909, seguito da Pathé, fino al 1912: Méliès perderà completamente il controllo editoriale sulla lunghezza e la struttura dei suoi film. L'industria cinematografica è d'altronde cambiata radicalmente, sulle basi della crisi del 1907 e del congresso del 1909. Autori nuovi vedono la luce, come Max Linder, Cecil B. De Mille e D.W. Griffith. Grandi società di produzione organizzano e controllano il mercato. Negli Stati Uniti, la MPPC (Motion Picture Patents Company) impone ritmi di produzione enormi, che solo i grandi studios riescono a rispettare. Nel 1913, quindi, Méliès si è rovinato proprio perché non ha saputo adattare il suo sistema artigianale di produzione cinematografica a questo contesto produttivo, continuando tuttavia ad avere grandi ambizioni, a produrre film ad alto budget. Non sarà capace neanche, dal punto di vista contenutistico, di rinnovare i suoi soggetti, in un contesto artistico che invece era in rapida evoluzione. Il protezionismo ferreo degli Stati Uniti, scrive Farina21, unito all'insuccesso del documentario di Gaston, segna il suo tracollo finanziario obbligandolo a legarsi a Pathé con un contratto di produzione e distribuzione: sotto queste condizioni, che prevedono tra l'altro un'ipoteca sul suo studio, Méliès gira ancora qualche pellicola ripetendo ormai stancamente le sue vecchie idee. Tra queste, una delle prime versioni del Barone di Münchhausen, sorta di summa di tutta la sua opera. Nessuno dei suoi ultimi film ha il successo sperato, e il pubblico è stanco delle sue féeries. La sua ultima grande produzione (À la conquête du pôle, 1912) si risolve con un grave

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fallimento commerciale, come abbiamo visto. Méliès è nei guai, deve dei soldi a Pathé, il quale lo esclude dalla produzione del suo ultimo film, che del resto non viene mai distribuito (si tratta di una commedia nello stile di Max Linder, adattata da una pièce di Labiche). In America, nel frattempo, la concorrenza aveva cominciato ad orientarsi verso un maggior realismo, girando all'aperto; Méliès invece era restato chiuso nel suo studio, tra le sue ricchissime ma ormai posticce scenografie, per non dover rinunciare alle sue fiabe ed alle sue invenzioni.

Nel 1914 il Théâtre Robert-Houdin – divenuto un cinema in cui gli spettacoli di illusionismo si tenevano solo più la domenica – viene chiuso. Méliès ripiega ancora sul teatro, utilizzando a tal fine lo studio rimastogli (l'altro gli era stato confiscato). Dal 1915 al 1923, lavoro al nuovo Théâtre des variétés artistiques, dove mette in scena opere, operette, drammi e spettacoli di varietà; nel 1923, però, un creditore ottiene dal Tribunale l'ordine di vendita dell'edificio. In un impeto di sconforto e di rabbia Méliès brucia, come abbiamo visto, la maggior parte delle sue pellicole, mentre tutto il materiale di scena usato negli ultimi vent'anni viene disperso. Come

scriverà Madeleine Malthête-Méliès22, egli “fu l'unico dei produttori della primissima

infanzia del cinema a non aver fatto fortuna, ma fece ciò che gli dettava la sua immaginazione”.

Lo spirito magico di Méliès e dei suoi colleghi illusionisti ha, nonostante ciò, marcato profondamente e in maniera durevole l'arte cinematografica. Macchinerie teatrali, pirotecnia, effetti ottici, pannelli a scorrimento orizzontale e verticale, interruzioni di camera, dissolvenze incrociate, sovrimpressioni, prestidigitazioni, effetti di montaggio, effetti di colori applicati su pellicola: tutto sembra essere stato concepito e utilizzato da questo virtuoso della tecnica. Perché nei suoi film, al di là dell'aspetto artistico, c'è sempre, occorre ribadirlo, un aspetto quasi scientifico. Méliès è un appassionato della tecnica, e questo approccio alla Settima Arte sarà condiviso, nel corso della storia del cinema, da numerosi cineasti.

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1.2 Arte e artigianalità: la tecnica come centro di interesse

Di tutta la produzione degli inizi del cinema, l'opera di Georges Méliès è senza dubbio quella che ha suscitato il maggior numero di reazioni contraddittorie. Taluni la considerano come la prefigurazione del cinema di avanguardia, mentre altri vi scorgono l'origine del cinema hollywoodiano. Occorre notare, peraltro, che gli storici del cinema hanno spesso la tendenza a cercare nel cinema dei primi tempi i germi del cinema del futuro. Jean-Louis Comolli aveva parlato di feticizzazione della prima

volta23, espressione efficace per indicare questa tendenza a definire il programma di ogni nuova generazione del cinema come già tracciato. In questa visione, sta a chi scoprirà una, o meglio, svariate nuove prime volte, che faranno retrocedere di qualche anno la data della comparsa del primo piano, della carrellata o di qualsivoglia altro procedimento tecnico e narrativo importante. È più legittimo e

utile, come scrive André Gaudreault24, studiare il cinema degli inizi nel contesto in

cui si è evoluto e a partire dai limiti che erano propri della sua epoca. Insomma, partendo dalla sua specificità intrinseca e non dalla specificità del cinema istituzionalizzato di un'epoca successiva.

È da notare, ad esempio, che in Méliès la messinscena è preparata in anticipo, in modo analogo a quello teatrale, facendo molte prove per non sprecare pellicola. Ma

la cosa importante, sottolinea Riccardo Redi25, è che la messinscena esiste, e rispetto

ai Lumière si ha un salto della complessità del racconto notevole.

Molti aspetti dell'opera di Méliès sono tutt'oggi oggetto di dibattito. C'è chi lo considera un uomo del diciannovesimo secolo, incapace di condurre il cinema verso il suo sviluppo moderno; e chi, al contrario, lo considera come un visionario che avrebbe messo volentieri da parte l'aspetto narrativo del cinema per consacrarsi all'esecuzione di opere degne del cinema d'avanguardia. Alcuni lo immaginano preso in una trappola teatrale, negandogli qualsiasi contributo all'evoluzione del montaggio, configurando quello di Méliès e dei Lumière come un'anticamera del cinema, arte che solo con Griffith troverà pieno sviluppo. Altri sostengono, esagerando, che Griffith deve tutto a Méliès. In realtà le divisioni storiche sono meno

23Cfr- Comolli, Jean-Louis, Vedere e potere : il cinema, il documentario e l'innocenza perduta, Roma,

Donzelli, 2006.

24Cfr. Gaudreault A., Cinéma et attraction : pour une nouvelle histoire du cinématographe, Parigi,

CNRS editions, 2008.

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nette di quanto possano sembrare, e nell'arte cinematografica c'è sempre una componente illusionista molto forte. Basti pensare alla dichiarazione che, a tale proposito, fece Ingmar Bergman:

In realtà, faccio dell'illusionismo, perché il cinema esiste solo grazie ad un'imperfezione dell'occhio umano. (…) Io mistifico e ho a mia disposizione il più prezioso e il più fantastico degli apparecchi magici mai esistiti, in tutta la storia del mondo, tra le mani di un giocoliere. Vi è qui, o ci dovrebbe essere, per tutti coloro che creano o proiettano film, la fonte di un conflitto morale insolubile26.

La differenza di Méliès rispetto al cinema tradizionale, che da Griffith in poi presupporrà un universo diegetico credibile e verosimile, è però abissale proprio nella manifestazione del trucco, dell'inverosimiglianza. Il sistema di

rappresentazione post-Griffith, chiamato da Noël Burch27 modo di rappresentazione

istituzionale (approfondiremo questo concetto in seguito), ha infatti come sua

caratteristica primaria quella di cancellare ogni traccia del processo di enunciazione che lo fa diventare testo, iscrivendo, come dice Alain Bergala, un racconto nella catena di immagini e producendo l'illusione che quelle immagini si raccontano da sole28.

Spesso si rimprovera anche a Méliès di non aver mai sospettato le possibilità narrative dei procedimenti cinematografici, cosa del tutto inesatta. D'altronde, si chiede polemicamente André Gaudreault, “si è mai rimproverato a Griffith di non aver utilizzato le possibilità magiche dei procedimenti cinematografici? Eppure

Griffith sì che avrebbe avuto dei predecessori su cui basarsi per farlo”29. È del tutto

logico: Méliès non voleva commuovere il pubblico, ma sbalordirlo, e un'analisi che metta in luce la pochezza narrativa, oltre che inesatta, è del tutto fuorviante.

E lo stesso può dirsi del montaggio narrativo. Sostanzialmente, i film di Méliès, scrive Gaudreault, sono film di montaggio, salvo che una buona parte dei raccordi in questione sovrappongono due “piani” che presuppongono lo stesso campo: sui due capi di un arresto, per sostituzione, l'inquadratura rimane la stessa. Certo, la cosa è

26Ranieri T., Ingmar Bergman, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 37. 27Cfr. Burch N., Op. cit.

28Cfr. Aumont J., Bergala A., Marie M., Vernet M., Esthétique du film, Parigi, Nathan, coll. Université,

1983.

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ben diversa dal montaggio descrittivo o narrativo che verrà in seguito, ma le operazioni di Méliès lo costringono a porsi dei problemi che resteranno tali per tutto il cinema a venire: raccordi di posizione, raccordi di movimento, etc. Burch, respingendo quindi l'idea che il montaggio non avesse in Méliès un peso preponderante, come conseguenza della sua impostazione teatrale, afferma al contrario che Méliès “fu uno dei primi a pensare il cinema in termini di raccordi”. D'altronde, basti vedere opere come L'homme mouche o il Royaume de fées per rendersene conto30.

La differenza tra l'esempio di Griffith e quello di Méliès è tutta qui. Per decenni, fino agli anni Settanta, l'opera di Griffith ha costituito un terreno di ricerca legittimato dall'ipotesi che l'artefice di The birth of a nation avesse aperto la strada ad una concezione genuinamente “moderna” del montaggio cinematografico. Valorizzare Griffith significava rendere omaggio all'artista in quanto autore, e al suo cinema in quanto arte. Al tempo di Méliès, però, la nozione di autore cinematografico era ancora sconosciuta; come scrive Cherchi Usai,

Méliès non era solo colui che scopriva nel cinema una nuova possibilità di espressione prima che il cinema stesso fosse cosciente di essere tale, ma era l'alfiere di una concezione individualistica del fare cinema che veniva incontro alle esigenze della critica di stampo europeo”31.

A proposito del rapporto tra l'individuo e la sua opera d'arte, diciamo subito che, benché molto interessante e significativa, la vita privata di Méliès non sarà l'oggetto del nostro interesse, o almeno, lo sarà nella misura in le sue vicende personali troveranno un riflesso nella sua arte e nel modo di concepire il cinema. Poche volte, in realtà: Méliès non è ancora un autore, nei suoi film non c'è ancora una vera visione del cinema; c'è molto mestiere, e benché non manchino suggestioni di natura extra-cinematografica, ricercare nel suo vissuto personale l'origine delle sue creazioni è abbastanza fuorviante. Basti ricordare che Georges Méliès era il terzo figlio di un industriale potente (contrariamente a una certa vulgata che lo dipinge come artista bohémien e squattrinato), che all'età di 26 anni vendette la sua fabbrica di scarpe per comprare il Théâtre Robert-Houdin. Semmai, in altra sede, è possibile effettuare l'operazione opposta: come, cioè, la passione per il cinema, e l'instancabile

30Burch N., Op. cit., p. 22.

31Cherchi Usai P. , Lo schermo incantato: Georges Méliès (1861-1938), Pordenone, Biblioteca

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attività produttiva, abbiano influito sulla vita privata del Nostro. Per questo, l'opera più godibile è Méliès l'enchanteur della nipote Madeleine Malthète-Méliès, che ci offre un ritratto di Georges Meliès molto umano e romanzato. Benché a livello di ricostruzione storica o di analisi artistica quest'opera non sia di grandissimo aiuto, offre nondimeno spunti interessanti, o quantomeno divertenti. Su tutti, la volontà del giovane Georges di entrare all'École des Beaux-Arts, e l'inevitabile conflitto con il padre (“Non sono dotato per le scarpe. Non farei che mandare in malora tutta l'azienda. Ho una vocazione. Perché non seguirla? D'altronde, non si fa bene che

quello che si ama fare...”32), che alla fine gli concederà non di iscriversi a

Beaux-Arts, ma comunque nel tempo libero di prendere lezioni da un professore. Sarà il pittore olandese Gustave Moreau, e Méliès si innamorerà presto di Suzanne, la figlia del guardiano del suo Hotel particulier (qui il padre si mostrerà meno comprensivo). Ma interessanti sono anche altri temi poco esplorati in alte trattazioni più scientifiche: si veda il viaggio a Londra, presso un negozio di scarpe che la famiglia Méliès possedeva, o il ritorno a Parigi, e la nascita l'amore folle nei confronti di Eugénie. In ogni caso, vale la pena ripeterlo, tutto ciò non ha alcun interesse specifico ai fini della nostra analisi, in quanto stiamo parlando di un cinema assolutamente non autoriale, e questo è un punto fondamentale: lavorare su Méliès, come d'altronde su tutto il cinema delle origini, con un'ottica autoriale, adattando quindi al passato schemi ideologici nati solo dopo molti decenni con la Nouvelle Vague, è un errore madornale. Se già l'interpretazione autoriale pone dei seri problemi con i film contemporanei, questa è ancor più inadeguata in questo caso, non tenendo conto che la progressiva emersione dell'autore, parallela alla progressiva affermazione del cinema quale prodotto artistico e non più artigianale, sarà un processo lento e che comincerà solo con gli anni 10, con Griffith e Von Stroheim, ma soprattutto con l'affermazione del cinema quale arte e dello spettacolo cinematografico non più come entertainment, come era al tempo di Méliès, ma come evento culturale vero e proprio. La borghesia si riavvicinerà al prodotto cinematografico, e l'esigenza di doversi confrontare intellettualmente con questo nuovo medium la porterà, sia nei metodi percettivi che negli studi accademici, ad adottare le categorie autoriali letterarie, che appunto nelle teorie della Nouvelle

Vague troveranno la loro massima espressione, e che a tutt'oggi costituiscono la

metodologia principale di molti critici e studiosi.

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Ma torniamo nel merito dell'opera mélièsiana. Nel 1906, Roger Aubry, direttore dell'Annuaire général et international de la photographie, sollecita Georges Méliès a esporre ai suoi lettori “la genesi e i processi delle scene cinematografiche artistiche”.

In questo testo fondamentale33, pubblicato nel 1907, Méliès spiega per la prima volta

la sua arte e precisa i contorni del genere che ha creato. Egli inizia enumerando i quattro differenti generi di “vedute” cinematografiche: in esterni, scientifiche, soggetti compositi e soggetti a trasformazione. In origine, prosegue Méliès, le “vedute” erano esclusivamente soggetti presi dalla natura; più tardi, il cinematografo fu impiegato come apparecchio scientifico, per diventare infine apparecchio teatrale, ed è in quest'ultima trasformazione che il suo successo si trasformò in trionfo. I soggetti compositi, si legge in seguito, comprendono tutti i soggetti nei quali l'azione sia preparata come in uno spettacolo teatrale, e interpretata da attori davanti all'apparecchio cinematografico. Là, il medium cinematografico non conosce più alcun confine, e tutti i soggetti che l'immaginazione può fornirgli sono per lui validi, e se ne appropria. È quest'aspetto, insieme alle “vedute” a trasformazione, che ha reso il cinematografo immortale, proprio perché i soggetti dell'immaginazione sono infiniti e inesauribili. Le “vedute” a trasformazione, o fantastiche, sono quelle, invece, che comportano cambiamenti, metamorfosi, trasformazioni, ma anche solo trucchi, macchinerie teatrali, messinscena, illusioni ottiche. Ed è qui che Méliès trova la sua specificità, dichiarando il proprio amore per una certa concezione di cinema in righe che meritano di essere riportate per intero.

J’aime passionnément l’art extrêmement intéressant auquel je me suis entièrement consacré; il offre une telle variété de recherches, exige une si grande quantité de travaux de tous genres, et réclame une attention si soutenue, que je n’hésite pas, de bonne foi, à le proclamer le plus attrayant et le plus intéressant de tous les arts, car il les utilise à peu près tous34.

Fatta di tela dipinta a grisaille, ossia in monocromo (per evitare effetti di chiaroscuro indesiderati), la scenografia è quasi sempre disposta un po' dietro la buca d'orchestra; a partire dal 1900, viene fatta scorrere la tela sulle due passerelle a volta che la sostengono. Spesso è accompagnata, in questo movimento, da due telai obliqui.

33Cfr. Gaudreault A., Op. cit. 34Malthête J., Op. cit., p. 58.

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L'unità del punto di vista, scrive Sadoul a proposito della scenografia mélièsiana35, suppone che il regista posizioni il suo apparecchio come l'occhio di uno spettatore

seduto sulle poltrone. Le linee di fuga, aggiunge Mitry36, non si raccordano che

secondo un punto di vista singolare, che è precisamente quello della macchina da presa, situata un po' indietro sulla linea mediana della scenografia, come uno spettatore che occupa la prima fila della platea, dietro il buco del suggeritore. Lo spettatore di Méliès, insomma, è assolutamente virtuale, e il punto di vista calcolato secondo regole ferree. La realizzazione della scenografia, quindi, rispetta certo le leggi della prospettiva, ma in un'ottica tale da apparire verosimile a degli spettatori messi in luoghi molto più distanti da tale punto ideale. È per questa ragione che lo scenografo teatrale sceglie un punto di vista che non corrisponde ad alcun luogo precisamente e che è fissato a un metro e mezzo di altezza dal palcoscenico, nell'asse mediano della scena e a una distanza dal quadro della scena che corrisponde alla larghezza di apertura di quest'ultimo. È questa prospettiva teatrale che abbiamo in Méliès, con il punto di fuga che si situa grosso modo all'altezza del petto degli attori, altezza che è pari a quella della ripresa cinematografica. La distanza dalla scena, inoltre, sembra corrispondere perfettamente, almeno fino al 1900, alla larghezza dello studio. Se lo scorrimento verticale degli elementi scenografici, comunque poco utilizzato, tende naturalmente verso l'alto, lo scorrimento orizzontale prevede in genere, ma non sempre, un movimento da sinistra a destra; questo vuol dire che ogni sovrimpressione di personaggi o di oggetti su tale fondo in movimento ci rende l'illusione di uno spostamento a sinistra: si pensi alla navicella di Les 400 farces du

diable, o alla cavalcata fantastica di La fée carabosse. Questo utilizzo di elementi

semovibili che scorrono verso destra si ritrova trasposto nell'intreccio di certi quadri, dove le tele dipinte sfilano come “vedute” successive dello stesso sito (è il caso di Le

royaume des fées, ad esempio).

In ogni caso, comunque, Méliès non può immaginare che sia la macchina da presa a potersi muovere intorno a un sito, come sarebbe stato più semplice immaginare per noi moderni (soprattutto per quanto riguarda le riprese in esterni). Anche nel caso di scenografie successive che rappresentano lo stesso luogo, egli ricompone ogni volta il suo luogo per intero, come se fosse un quadro isolato, indipendente, autosufficiente (si pensi alla doppia prospettiva del cannone in Voyage dans la lune). Come al teatro,

35Cfr. Sadoul G., Op. cit.

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tuttavia, l'equazione “una scenografia = una scena” non è la regola: l'azione (o atto nel linguaggio teatrale) può essere divisa in due o tre tableaux. La funzione narrativa di tali tableaux – che sottolineano l'ingresso di personaggi, o dei trucchi – non è

chiara, e Madeleine Malthète37 ipotizza che la loro accumulazione serva soprattutto

come argomento pubblicitario (ad esempio, “Grande féérie extraordinaire en 20 tableaux!”). L'azione di Cendrillon, per esempio, si svolge su un arco di venti

tableaux, per soli sei cambi di scenografia, corrispondenti a sei film di venti metri

ciascuno, raccordati tramite dissolvenza incrociata. Caso estremo, in questo senso, è il Le sacre d'Edouard VII, dove abbiamo dieci scene girate in un'unica scenografia. Il montaggio, non ha ancora, in Méliès, una funzione narrativa, come sostengono in molti, ma resta ancorato al sistema teatrale. È, semmai, il montaggio interno alla scena che viene usato espressivamente, a scopi illusionistici, per creare illusioni, apparizioni, sparizioni e sostituzioni. Il ruolo di un montaggio più visibile era, all'epoca, semplicemente quello di unire tra loro le varie scene, il trucco da interruzione di camera diventerà il marchio di fabbrica della Star Film, e sarà sempre associato a un collage, realizzato e ottenuto tramite una colla che occupa in genere il quarto o quinto superiore dell'immagine. Qualsiasi apparizione, scomparsa o sostituzione è ovviamente effettuata durante le riprese, ma un montaggio del negativo è, in seguito, indispensabile per la riuscita del trucco. In effetti, l'inerzia della camera di Méliès è tale che gli è impossibile di fermarsi sull'ultima immagine del piano precedente il trucco, cambiare elementi scenografici e/o attori, per poi ripartire sulla prima immagine che segue il trucco, tutto ciò senza avere una importante rottura di ritmo. Un montaggio quindi non solo in camera, ma anche su pellicola, si rende indispensabile. Alcuni di questi trucchi provengono direttamente dal teatro (come il già citato Escamotage d'une dame), ma molti altri non possono trovare alcun corrispondente teatrale, configurandosi come propri al medium cinematografico (è il caso, ad esempio, dei trucchi “in movimento”, vedi le teste di Méliès che vengono appese ai fili della corrente in Le mélomane). Ma il genio del maestro di Montreuil non risiede tanto nella tecnica del trucco propriamente detto, quanto nella sua maniera particolare di introdurre e moltiplicare gli effetti magici tramite un sottile montaggio fatto di collage stravaganti. Come scrive David Robinson38, i film di Méliès sono pieni di trovate sovrannaturali e fantasie di una meravigliosa diversità,

37Cfr. Malthète-Méliès M., op. cit.

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