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Ad ogni modo, l’esperienza della vita è la domanda, mentre la creazione in verità è la risposta semplicemente. Comincia dallo sforzo di non nascondersi o di non mentire. Allora il metodo – nel senso del sistema – non esiste. Non può esistere altrimenti che come sfida o come chiamata.

Konstantin Stanislavskij. L’attore creativo.

Dopo aver proposto un discorso teorico generale sul corpo, in questo secondo capitolo mi addentrerò in uno dei territori più polemici della semiotica contemporanea: l’integrazione delle pratiche come oggetti di studio della semiotica. Nel resto della tesi parlerò spesso di “pratica performativa” quindi mi sembra necessario in prima istanza fare qualche riferimento sulle pratiche in generale. Non intendo certo ripercorrere in modo esaustivo il vastissimo dibattito sulle pratiche che negli ultimi anni ha caratterizzato la semiotica, ma proverò a rivedere le indicazioni più interessanti che mi serviranno a caratterizzare il panorama degli studi semiotici sulle pratiche con lo scopo di procedere nella seconda parte della tesi a studiare in modo specifico le pratiche performative nel contesto delle arti viventi.

Nella premessa specificherò tre aspetti che mi sembrano imprescindibili per affrontare lo studio delle pratiche: in primo luogo il fatto che si tratta di oggetti costruiti, poi che si instaurano per ratio difficilis e infine che sono configurazioni di senso segnate da un’inerente eterogeneità.

Continuerò identificando quattro dimensioni che a mio avviso sono fondamentali per le caratterizzazione delle pratiche: la dimensione deittica, la dimensione dell’agire, la dimensione corporea e la dimensione processuale. Spero

che questa caratterizzazione possa fare luce sui modi di organizzazione semiotica delle pratiche.

Infine, rifletterò brevemente sul problema metodologico che le pratiche impongo alla teoria semiotica. Problematizzerò le diverse alternative metodologiche che oggi caratterizzano gli studi semiotici, e verso la fine del capitolo esporrò la mia posizione.

2.1. Premesse

Il termine “pratica” ha diversi accezioni: può indicare l’applicazione concreta a casi particolari di principi appresi in teoria, segnala l’inclinazione verso il fare, il mettere in opera intenzioni o progetti, l’esercizio regolare di una certa disciplina, l’esperienza che deriva da una lunga attività, ma serve anche a denominare un compendio di documenti legali. Si “mette in pratica” quando si applica qualcosa, si “ha pratica” quando si è un esperto nel fare qualcosa e ci sono “buone pratiche” quando si eseguono in modo corretto i protocolli.

Le pratiche di cui mi occupo in questa ricerca sono pratiche semiotiche. Una prima distinzione, che può sembrare banale, che risulta però imprescindibile, è tra ciò che nell’uso corrente del linguaggio si denomina pratica e una pratica semiotica che descrive un concatenamento d’azioni ritagliato da un osservatore- analista dal continuum di attività e situazioni socioculturali.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una proliferazione di discorsi sulle pratiche in particolare in sede sociosemiotica ed etnosemiotica. Molti dei recenti studi semiotici sul sociale affermano di occuparsi di pratiche. Ho l’impressione, però, che le pratiche oggetto di studio non sempre sono della stessa natura. A mio avviso, il gran numero di ricerche sulle pratiche non è stato accompagnato da una riflessione teorica che possa definire in modo chiaro cosa si intende per pratica. Avverto un’urgente necessità di specificare più in dettaglio i tratti distintivi delle pratiche soprattutto perché credo che soltanto così si possono provare a chiarire le metodologie d’analisi più adeguate.

La stragrande maggioranza delle definizioni che si sono create per le pratiche nascono dal confronto con i testi. Questo confronto ha preso due modalità

diverse. Il primo è un confronto oppositivo che cerca di mettere in luce lo statuto differenziale delle pratiche rispetto ai testi. Questo genere di definizione funziona a partire da una logica differenziale del tipo: “il testo è una configurazione stabile, mentre la pratica è di natura processuale”, “il testo è chiuso e coerente mentre la pratica è aperta ed eterogenea”.

Il rischio di questo modo di concepire le pratiche è che la categoria può divenire una categoria residuale: tutto ciò che non è testo (perché non è un’articolazione di senso chiusa, coesa e cristallizzata) si considera allora automaticamente una pratica. La conseguenza teorica di questa formula è che la categoria diviene ogni volta più ampia, impedendo di delimitare chiaramente i suoi confini.

Un secondo modo di definire le pratiche in confronto ai testi è descriverle come condizione di produzione/fruizione dei testi. In questa opzione si sottolinea l’idea che ogni testo porta iscritto al suo interno una pratica di produzione che si riconosce a partire delle tracce di cui il testo stesso costituisce il deposito. In modo analogo, ogni testo è riconosciuto da una pratica interpretativa che ne delimita i suoi confini e il suo senso. Per esempio, la definizione del Dizionario ragionato della teoria del linguaggio di Algirdas J. Greimas e Joseph Courtés (1979) assume che le pratiche fungono da strategie di codifica e decodifica dei testi: da una parte il testo è prodotto da una pratica che lo crea e dall’altra è (ri)costruito a partire dalla pratica analitica di ritaglio. Le pratiche si concepiscono quindi come “l’humus” enunciazionale in cui il testo può essere delimitato.

Nella definizione del Dizionario, si trova un’indicazione interessante che non vincola le pratiche ai testi. Le pratiche si considerano processi sociali “riconoscibili all’interno del mondo naturale e definibili in modo comparabile ai discorsi. [...] Le pratiche semiotiche qualificabili come sociali, sono come successioni significanti di comportamenti somatici organizzati”. (Greimas e Courtés 1979, voce: pratica) Le pratiche si pensano dunque come articolazioni di senso insite nel sociale indipendentemente dalle eventuali strategie di testualizzazione.

Per delimitare ciò che io intenderò come pratica in questa sede, prenderò avvio da questo aspetto della definizione di Greimas e Courtés. Cercherò di

specificare in modo più approfondito cosa vuol dire “una successione di comportamenti organizzati”.

2.1.1. La (ri)costruzione della pratica

Prima di introdurre la mia definizione vorrei ribadire qualche premessa che mi sembra rilevante. Innanzitutto, vorrei sottolineare che anche se le pratiche si trovano nel sociale, non si tratta di processi già dati. Ogni configurazione di senso necessita l’operazione di (ri)costruzione da parte di un osservatore e in questo senso è un oggetto costruito dallo sguardo di qualcuno. L’operazione di (ri)costruzione delle pratiche e dei testi è diversa: i testi sono stati prodotti da un soggetto e permangono disponibili per l’analisi che altri soggetti possono compiere successivamente. Come spiega Marrone (2005b) in un qualche modo, nel testo la delimitazione è già data, quindi l’operazione di (ri)costruzione si concentra principalmente sull’attribuzione di senso da parte dell’osservatore. Le pratiche invece, sono processi che necessitano prima ancora della ricostruzione del senso, di un’operazione di “messa a fuoco”, di ritaglio da parte di chi guarda. Violi sottolinea che “nella pratica non è solo il senso ad essere oggetto di ricostruzione, ma anche la delimitazione stessa di ciò che consideriamo oggetto” (2005a: 4).

La differenza in termini dell’operazione di (ri)costruzione è interessante perché rende conto di un tratto caratteristico delle pratiche. Le pratiche, dice Marrone (2005b) devono essere selezionate, raccolte, collezionate dall’analista. Non sono quindi processi che troviamo già confezionati e “pronti per l’analisi” nella cultura, ma sono oggetti costruiti. Questo è fondamentale perché mi pare che gran parte delle confusioni a livello teorico sulla definizione della pratica derivi dalla considerazione “ingenua” che le pratiche sono processi sociali già dati.

Nell’accezione di pratica che userò per questa discussione, dunque, un fattore rilevante è il fatto che le pratiche sono costruite dallo sguardo di qualcuno in due sensi: primo perché è lo sguardo di un osservatore che le seleziona e “raccoglie” dal sociale, secondo perché è sempre lo sguardo di un osservatore che le interpreta.

2.1.2. La pratica come ratio difficilis

In quanto concatenamento di comportamenti somatici organizzati la pratica si svolge in una negoziazione tra aspetti culturali altamente ipercodificati (pre-configurati) con aspetti ipocodificati che sorgono nel divenire dell’azione.

Pensiamo per esempio al caso di una pratica rituale dove si mettono in rapporto “strisce” di comportamento coreografato fino al minimo dettaglio con momenti di maggiore libertà interpretativa. Un esempio, tra tanti altri che potrei citare, è la ricerca che l’antropologo americano Roy Rappaport (1968) fece sui rituali in Nuova Guinea. Duranti gli anni Sessanta e Settanta l’antropologo si dedicò all’indagine di diversi riti tra cui la mattanza dei maiali a Kurumugl, rito che dura due giorni e nel quale gli uomini della comunità uccidono i loro maiali. Il rito è molto complesso e lungo, ma basta citare un piccolo frammento per renderci conto della negoziazione tra aspetti di ipercodificate e ipocodificate. Mentre gli uomini macellano i loro animali, pronunciano una sorta d’orazione con una determinata cadenza melodica che deve narrare le difficoltà che hanno incontrato per allevare il maiale. Il ritmo è fisso, la voce ha una certa impostazione e il momento dell’orazione deve corrispondere a una particolare fase del macello dell’animale. Accanto a queste esigenti regole convenzionali si conserva però uno spazio ludico per l’improvvisazione. Rappaport rileva che anche nel rispetto di tutte le indicazioni espressive (ritmo dell’orazione, melodia, impostazione della voce, ecc.), il contenuto del discorso è pieno d’improvvisazioni che consistono, ad esempio, in battute oscene con allusioni sessuali esplicite. Quindi affianco alla convenzione e alla ripetitività, la pratica contiene un aspetto d’imprevedibilità.

Il grado di ripetitività varia a seconda dei casi: tenderà ad aumentare in pratiche ipercodificate (un balletto, la cerimonia del tè giapponese) e diminuire in pratiche ipocodificate come quelle che comportano improvvisazione (jam session, happening, gioco di calcio). Nella cerimonia del tè giapponese ogni singolo gesto è codificato al punto tale che c’è anche un prescritto ritmo della respirazione da rispettare. Questo tipo di pratica rende ogni replica molto simile al resto delle repliche, c’è un type che modella le singole occorrenze. Il caso di una partita di calcio, ad esempio, è radicalmente diverso. Una pratica ludica, qual è appunto un tipo di gioco sportivo, ammette in gran misura la possibilità di improvvisare. Si sa

lo scopo, e si conoscono le regole, ma dentro questa cornice normativa ogni partecipante è libero di proporre delle mosse e di giocarle. In questo tipo di pratiche ipocodificate addirittura la replica diventa difficile a causa dell’alto grado di improvvisazione. Ogni pratica quindi, si trova a congiungere in modi originali aspetti tradizionali (ipercodificati) con aspetti inediti della cultura.

Ciò che però è singolare, è il modo in cui vengono di volta in volta correlati questi aspetti. Anche nel caso di pratiche ipercodificate c’è sempre un fattore di imprevedibilità che impedisce che si possa pensare alle pratiche come doppi. Il modo in cui l’occorrenza si relaziona con il type si può descrivere in termini di ratio diffcilis. Per Eco c’è ratio difficilis “quando un’occorrenza espressiva è direttamente accordata al proprio contenuto” (Eco 1975: 246).

Paolucci (2006) descrive le pratiche come commensurabilità locali che di volta in volta instaurano una funzione semiotica ad nuovo. Secondo Paolucci la teoria semiotica deve allora affrontare e studiare le modalità attraverso le quali s’instaura la ratio difficilis nelle pratiche.

Eco distingue due casi di ratio difficilis: nel primo non esiste un tipo dell’espressione preformato, l’espressione è ancora una precisa unità correlata a un preciso contenuto eppure la produzione fisica dell’espressione dipende dall’organizzazione del semema corrispondente (1975: 247). Questo tipo di ratio difficilis potrebbe caratterizzare le pratiche ipercodificate che hanno più aspetti convenzionali che però vengono di volta in volta attualizzati da un soggetto sociale in una determinata collocazione spazio-temporale. Anche nel caso di una pratica ipercodificata come la cerimonia del tè giapponese la situazione (collocazione spazio-temporale più la singolarità dei soggetti partecipanti) comporta che la pratica risponda a una ratio difficilis.

Il secondo tipo di ratio difficilis si caratterizza, secondo Eco dal fatto che “l’espressione è una sorta di GALASSIA TESTUALE che dovrebbe veicolare porzioni imprecise di contenuto, ovvero una NEBULOSA DI CONTENUTO” (1975: 248). Questo è il caso delle pratiche che congiungono in modo inedito gli aspetti culturali. In questi casi, la pratica non risponde a un contenuto che la precede, ma è la pratica stessa a produrre un sistema di contenuto. L’occorrenza

viene prodotta secondo ratio difficilis perché inaugura il tipo al quale fa riferimento.

Questo secondo caso è il caso delle pratiche performative che studio in questa sede. Come mostrerò nei prossimi capitoli, i generi performativi che non si basano sulla messa in scena di un testo drammatico, si caratterizzano per un’organizzazione di ipocodifica che di solito funziona a partire dalla modalità di produzione segnica dell’invenzione. In particolare, la pratica performativa instaura una ratio difficilis del corpo in scena che di solito non veicola un contenuto preesistente ma si instaura a partire da ogni singola occorrenza23.

2.1.3. L’inerente eterogeneità

Le pratiche congiungono una serie di regimi di senso diverso. Nelle pratiche partecipano corpi, oggetti, spazi che si organizzano sintatticamente in un asse temporale. Si può quindi affermare che la configurazione delle pratiche è eterogenea perché “con-fonde” diversi regimi di senso in modo inedito.

Le pratiche sono eterogenee almeno in tre sensi complementari: in primo luogo sono eterogenee in ciò che riguarda le materie che correla; in secondo luogo sono eterogenee perché definiscono un ambito polisensoriale; infine l’eterogeneità si manifesta anche a livello dei modi di articolazione delle pratiche che non cercano di omogeneizzare la commensurabilità ma la ammettono.

Il livello dell’espressione nelle pratiche è intessuto da una diversificato assortimento di materie dell’espressione quali i gesti, suoni, immagini, comportamenti, movimenti e azioni, tra tanti altri. In quanto articolazione sincretica, le pratiche sono eterogenee a livello della materia dell’espressione risultando in una configurazione plurimaterica.

La plurimatericità tipica delle pratiche si traduce in un’organizzazione polisensoriale, che coinvolge quindi più canali sensoriali. Una pratica necessariamente comprende molti dei campi del sensibile identificati da Fontanille (2004)24. Pensiamo per esempio alla pratica di un gioco di poker. In

23 Sulla definizione di pratica performativa cfr. capitolo terzo e sulla modalità di produzione

segnica dell’invenzione riferita al corpo in scena cfr. § 4.2.2.

24 Superando il vincolo dei cinque sensi, Fontanille (2004) distingue otto tipi di campi sensoriali.

una partita di poker ritroviamo il campo intransitivo dei moti intimi, ad esempio a partire dell’esperienza fenomenologica dei partecipanti di contrazione o dilatazione dell’addome a seconda dell’agitazione (ad esempio mentre bluffano) o del rilassamento (quando vincono una mano). Fondamentale anche il campo transitivo che secondo lo stile sintattico del tatto riesce a distinguere il proprio dal non proprio. Per muovere le carte bisogna anche utilizzare il campo riflessivo della sensoriomotricità che determina gli spostamenti e i gesti. Infine anche un campo debrayato caratterizzato dallo stile sintattico della visione che permette l’autonomizzazione della sintassi figurativa che, in definitiva, autorizza lo svolgimento del gioco in quanto pratica simbolica strutturata a partire da un certo numero di regole.

Proprio grazie a quest’eterogeneità su più dimensioni, la pratica esibisce una serie di livelli, o strati, secondo le diverse materie espressive. Una pratica necessariamente comporta sistemi di significazione (linguaggi) corporali, cinestesici, patemici, vocali ecc., che vanno costituendo dei sistemi parziali dentro la macro configurazione della pratica. Nello stesso esempio precedente, i partecipanti comunicano attraverso le loro posture, i loro gesti (particolarmente quelli involontari), la loro voce, ma anche certamente mediante la lingua.

La particolarità delle pratiche è che non solo presentano diversità e gerarchia di piani, ma soprattutto si articolano a partire da ciò che Fontanille (2006) chiama l’organizzazione tattica dei sincretismi. L’eterogeneità fondante delle pratiche funziona in modo complesso giacché esibisce modalità di articolazione sintetiche e disgiuntive che si susseguono in modo assai imprevedibile nell’interazione. L’eterogeneità non riguarda quindi soltanto le

diversi tipi e sottotipi che ne derivano; 3) le corrispondenze possibili tra tipi sintattici e ordini sensoriali” (2004: 149). I tipi descritti da Fontanille sono: 1) il campo intransitivo dei moti intimi (la percezione non ci segnala nessuna presenza se non quella del corpo); 2) il campo transitivo: il proprio e il non-proprio (corrisponde all’invenzione del corpo proprio minimo e dunque della propriocettività); 3) Il campo sensoriale riflessivo (“inventa” in qualche modo la categoria Me/Sé); 4) Il campo sensoriale ricorsivo (che funziona a partire del principio degli inviluppi multipli); 5) il campo sensoriale reciproco (contribuisce all’allestimento dell’esterocettività); 6) Il campo sensoriale interno (che dispiega la possibilità dell’interocettività); 7) Il campo sensoriale reversibile e simultaneo (si configura nella simultaneità della compresenza di una pluralità di sollecitazioni sensoriali); 8) Il campo sensoriale a incassamenti o debraiato (che generalizza e oggettivizza il principio dell’involucro, facendo esperienza del proprio involucro o di quello altrui), in cui sono inclusi dal campo intransitivo dei moti intimi al campo debrayato della sintassi figurativa

diverse materie dell’espressione e i campi del sensibile, ma anche i modi in cui queste entrano in relazione di volta in volta. Questo impedisce di considerare un’eterogeneità “stabile” da ricavare a partire dall’organizzazione differenziale per livelli (come sarebbe ad esempio il caso dei testi sincretici). Nel caso delle pratiche l’eterogeneità si presenta piuttosto come dinamismo in divenire che fa combaciare in modo locale i diversi elementi e piani.

2.2. Le dimensioni della pratica

Vorrei avanzare una definizione di pratica a partire da quattro dimensioni. Queste dimensioni rendono conto dei fattori comuni a tutte le pratiche ma vorrebbero anche servire a caratterizzare i diversi tipi di pratica. Come quattro “ingredienti” di una ricetta, ogni pratica le combina in modo particolare dando vita così a configurazioni che per certi versi sono simili ma per altri presentano delle differenze.

2.1.2. La dimensione deittica

Dicevo prima che la pratica è intrinsecamente vincolata allo spazio-tempo della sua produzione, la sua interpretazione è possibile soltanto grazie al contesto in cui viene prodotta. La pratica trascende allora il campo fenomenico dell’agire e mette in prospettiva l’azione, la in-forma secondo il contesto in cui si situa. Per usare una metafora verbale, si potrebbe affermare che l’articolazione della pratica è impregnata di dimostrativi perché è sempre situata.

Una stessa sequenza d’azioni, per esempio, a seconda del contesto dove si presenta mantiene una valenza radicalmente diversa. Pensiamo ad una rissa. Se la sequenza di azioni violente è compiuta da due giovani nelle strade di Bogotá con armi reali la “pratica” molto probabilmente può descriversi come una vera e propria lotta. Se invece la stessa sequenza di azioni è eseguita da due attori sul palcoscenico nel contesto di uno spettacolo teatrale allora non è più possibile parlare di lotta, ma della rappresentazione performativa di una lotta. Infine se la stessa sequenza si realizza nelle stesse strade di Bogotá ma davanti a telecamere che riprendono la scena di una telenovela colombiana, il significato della pratica

diventa ancora diverso. In questo senso, la performance dell’azione non possiede una significazione a priori, ma il suo significato si gestisce rispetto ai diversi contesti che la configurano come prodotto e come discorso.

Fontanille (2006) afferma che la pratica si tesse, si innesta e si sviluppa da e per una scena che ne determina il senso. Ogni pratica si inserisce in una circolazione di senso che la precede, e che, nell’atto stesso della sua produzione, la mette in valore. Per questo l’autore descrive le pratiche a partire da una dimensione predicativa:

La pratica si presenta a questo proposito sotto forma di uno o più processi (uno o più predicati) e d’atti d’enunciazione che implicano dei ruoli attanziali, sostenuti tra l’altro dal testo-enunciato medesimo […], dal supporto, dagli elementi dell’ambiente, dal passante, l’utente o l’osservatore, tutto ciò che forma la “scena” tipica di una pratica” (2006: 165).

La dimensione deittica implica quindi l’inesorabile ancoraggio della pratica nella situazione (in termini di Fontanille, la scena) della sua produzione.

È interessante notare che la determinazione deittica della pratica non è unidirezionale (la situazione determina la pratica) ma in realtà bidirezionale perché anche la pratica stessa costruisce e trasforma la scena che la accoglie. Non si può pensare che la pratica nasca da una scena che la precede, perché la scena stessa risulta dalla pratica. In questo senso la pratica è al contempo articolata dalla situazione e articolante della situazione: il ritaglio che inaugura la differenza tra la

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