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PARTE SECONDA

L A PRESENZA SCENICA

Ogni momento, dal primo all’ultimo che Irving stava in scena, era significante […] “Ma era naturale?” Mi si chiede sempre. Certo, lo era – naturale come lo è un fulmine – non naturale come lo è una scimmia.

Gordon Craig, Henry Irving.

Lo scopo di questo capitolo è di offrire una riflessione semiotica sulle modalità della presenza del corpo in scena. Qualsiasi discorso sulla presenza trova un ostacolo legato alla definizione e ai vari possibili usi di questa espressione. Si può pensare alla presenza del corpo in scena in quanto collocazione spazio-temporale (“il performer è presente sul palco”); la si può intendere come la precondizione della relazione teatrale (“c’è teatro laddove c’è compresenza attore-spettatore”) o come un effetto di senso prodotto da certe strategie testuali (“l’effetto di presenza immediata”); infine la si può concepire anche come un criterio del talento del performer (come faceva Stanivslaskij quando diceva di una attrice che aveva una bella presenza) oppure come il riflesso di uno stato psicofisico del performer (la presenza scenica).

In questo capitolo pongo una domanda che occupa un posto fondamentale nell’economia complessiva della mia ricerca: come si presenta il corpo sulla scena nelle arti viventi? Per rispondere a questa domanda inizierò facendo un brevissimo resoconto storico in cui illustrerò la centralità e la attualità che il corpo ha assunto nelle pratiche performative contemporanee (§ 5.1.). Una volta descritto il ruolo centrale del corpo nelle arti viventi contemporanee mi interrogherò sulle modalità attraverso le quali il corpo si presenta sulla scena. Si potrebbero

avanzare diverse descrizioni sui modi di presentazione del corpo nelle pratiche performative, ho scelto di soffermarmi su due possibili modi di descrizione perché sono quelli più pertinenti e coerenti ai fini della mia ricerca. Non escludo quindi che si possa pensare alla presenza del corpo sulla scena in altri termini, ma mi sembra che le modalità che prenderò in considerazione siano quelle più significative.

Il primo modo di intendere la presenza del corpo sulla scena è considerare la presenza come lo stare concreto e materiale in un determinato luogo e in un determinato tempo. Nel § 5.2. indagherò la presenza in quanto “fatto reale dei corpi viventi” (Phelan 1993). Il secondo modo di intendere la presenza è pensare allo stato psicofisico specifico del performer quando è sulla scena, cioè alla sua presenza scenica. La presenza quindi come quello stato del corpo-mente che permette al performer di catturare l’attenzione dello spettatore (Barba 1993).

Infine, studierò il metodo della drammaturgia dell’attore dell’Odin Teatret. Questo esempio mi permetterà avanzare un’ipotesi su come si articolano i due modi di intendere la presenza che ho segnalato prima.

5.1. La ricomparsa del corpo presente sulla scena

Il Novecento Teatrale non ha smesso di interrogarsi sui limiti della parola quale principale mezzo di espressione drammatica. Si è venuta a delineare così una riscoperta del corpo in quanto artefatto drammatico espressivo per eccellenza (De Marinis 1987).

Nel 1918 Adolphe Appia76 in una prefazione ad un’edizione inglese di La musique et la mise en scène parla di un ritorno al corpo “come primo e supremo mezzo d’espressione scenica, a cui tutti gli altri fattori della rappresentazione sarebbero subordinati” (Appia 1918, tr. it.: 86).

Tre anni dopo in L’Oeuvre d’Art Vivant (1921) Appia critica il teatro di rappresentazione: “Il teatro si è intellettualizzato: in esso il corpo è solo il portatore ed il rappresentante di un testo letterario, e si rivolge ai nostri occhi solo

76 Adolphe Appia (1862 – 1928), regista, scenografo e teorico svizzero. Propone l’arte vivente

come una forma artistica il cui asse centrale è la presenza fisica del corpo e dove gli elementi scenografici e illuminotecnici dunque devono essere secondari rispetto ad essa.

in questa veste” (1921, tr. it.: 112). Invece, avanza l’idea di un teatro fondato in modo radicale sulla presenza: “il solo punto di riferimento siamo noi stessi. Ne rappresentiamo dunque il centro, ovunque ci troviamo” (ibidem.). Il centro della presenza è il corpo vivente:

Senza di noi, senza di noi soltanto non ci sono né spettatori, né opera scritta. Noi siamo l’opera e la scena; noi, cioè il nostro corpo vivente; perché è questo corpo che le crea entrambe e l’arte drammatica è una creazione volontaria di questo corpo. Il nostro corpo è l’autore drammatico. L’opera d’arte drammatica è la sola opera d’arte che si confonde con il suo autore […] l’opera d’arte drammatica viene vissuta; è l’autore drammatico che la vive (Appia 1921, tr. it.: 112).

Se il corpo vivente costituisce il centro della presenza, allora il teatro si basa per Appia sulla comunione dei corpi, che senza distinzione tra attore e spettatore, condividono un’esperienza dal vivo. Appia si augura una nuova epoca in cui si possa prevedere la fine dell’arte drammatica e la nascita di un’arte vivente che ponga al centro del suo fare la presenza del corpo (ivi.: 113). Si tratta, nelle parole dell’autore, di tornare alle origini e ai fattori in un certo senso primari: la presenza del corpo che crea lo spazio e il tempo viventi. Soltanto così è concepibile un’arte che non sia incline al segno che violenta, secondo Appia, il corpo vivente (come fa il teatro).

Nel 1934 in un convegno mondiale sul teatro organizzato a Roma dall’Accademia Reale d’Italia, il provocatorio Edward Gordon Craig77 sconvolge tutti i relatori pensando ad un teatro costruito soltanto dal corpo e dalla voce dell’attore:

È probabile che gli edifici teatrali si siano prodotti (magari con un qualche aiuto da parte degli architetti) per opera dei drammaturghi. Ma quel teatro che viene prima del dramma, e che è l’unico teatro che conta, non era e non è un edificio,

77 Edward Gordon Craig (1872 – 1966), attore, scenografo e teorico teatrale britannico. Craig

critica il realismo in voga alla fine del Ottocento e propone un sistema scenografico simbolico arbitrario. Famoso per l’idea dell’attore supermarionetta mosso da “gorvigli di fili” che devono assicurare il pieno controllo sul corpo e sull’emozione. (1907). Tra le sue produzioni più note:

Vikings (1903), Much Ado about Nothing (1903) e Hamlet (Mosca 1912). Nel 1913 a Firenze

inaugura The Gordon Craig School for the Art of the Theatre. Fu editore di The Mask (1908–29). Le sue principali opera teoriche sono On the Art of the Theatre (1911, rev. ed. 1957), The Theatre

è il suono della voce – l’espressione del viso – i movimenti del corpo – della persona- cioè l’attore, if you like! (cit. in Barba 1993: 155).

Il teatro pensato da Craig si pone come un teatro autonomo da ogni riferimento esterno all'insieme autosufficiente dello spettacolo. Craig propone l’abolizione del realismo referenziale per fondare un teatro il cui senso derivi esclusivamente dall'intrecciarsi e dallo svolgersi dei mutui rapporti di compresenza. Dalla prospettiva di Craig il teatro non si può limitare a un atteggiamento mimetico trapiantando sul palcoscenico simboli letterari o figurativi, il teatro deve creare i suoi propri mondi possibili dove l’articolazione non sia necessariamente finzionale ma possa basarsi sul corpo in movimento. Gli attori, quindi “oggi impersonano e interpretano, domani dovranno rappresentare e interpretare; e dopodomani dovranno creare” (Craig 1907, tr. it.: 37).

Un altro importante precursore della riscoperta del corpo è stato Vsevolod Emil'evič Mejerchol’d78 che, addirittura prima delle dichiarazioni di Appia e Craig, aveva avviato una riflessione sul carattere limitato delle parole nella trasmissione del “dialogo interiore”, e la necessità di trovare altri mezzi espressivi più efficaci e “reali”. Il regista russo invita agli attori a “vivere la forma non le sole emozioni dell’anima” (1962, tr. it.: 91).

Dichiarazione di poetica ben rappresentata dalle parole che Mejerchol’d ha sussurrato a un amico nell’oscurità della sala guardando l’attrice italiana Elenora Duse mentre recitava ne La Dame aux Camélias: “le parole non sono che un ricamo sul canovaccio dei gesti” (ivi.: 224). Affascinato dalla interpretazione della Duse commenta: “lei recita con l’intero suo corpo”. Anni dopo, forse ispirandosi proprio a quella tecnica “artigianale” dell’attrice italiana, stabilirà che “la legge fondamentale della biomeccanica è molto semplice: “tutto il corpo è partecipe di

78 Vsevolod ömil'evič Mejerchol’d (1874-1940) Attore, regista, pedagogo e teorico russo. Come

attore compie i primi passi nella professione sotto la guida di Vladimir Nemirovic-Dancenko. Dal 1898 fece parte del Teatro d’Arte di K. Stanislavskij. In seguito, distaccatosi da una concezione realistica del teatro in favore di una messa in scena astratta e stilizzata, cominciò una costante ricerca sull'arte dell'attore. Nasce così il Teatro Studio di Mosca. Nel 1921 fonda, sempre a Mosca, un nuovo teatro, il Teatr RSFSR. Negli anni venti elabora la Biomeccanica con l’obiettivo di perfezionare lo strumento corporeo dell’attore. Negli anni Trenta è sempre più nel mirino della critica ufficiale che lo accusa di tendenze contrarie al realismo socialista. È attaccato dalla stampa, i suoi spettacoli vengono vietati e viene sospesa la realizzazione del suo progetto per la costruzione di un nuovo teatro. Arrestato e torturato, viene fucilato nel 1940 per decisione del regime a cui aveva dedicato tutti i suoi sforzi di uomo di cultura.

ogni nostro movimento. Il resto non è che elaborazione, esercizio, studio” (1962, tr. it.: 339).

In quelli anni, anche Stanivslaskij, che fino a quel momento aveva lavorato sulla psicologia come supporto della tecnica dell’attore, inizia ad occuparsi di azioni fisiche. Nell’ultimo periodo della sua vita Stanislavskij si dedica a sistematizzare il “metodo delle azioni fisiche” (che non è mai riuscito a completare) che si basa sulla premessa che “dobbiamo ricorrere ai compiti fisici, poiché il corpo è incomparabilmente più solido del sentimento” (1957, tr. it: 223). Molto importante anche il teatro della crudeltà di Antonin Artaud che è un linguaggio iniziatico e tribale si basa proprio sulla premessa del corpo come asse del lavoro teatrale. In Le théâtre et son double (1938) Artaud esprime la sua ammirazione per i generi performativi orientali, in particolare quelle di Bali. Gli sembrava particolarmente interessante la fisicità ipercodificata che caratterizza la danza balinese. Ispirandosi ad essa propone il teatro della crudeltà che risponde all’urgente bisogno di una violenta e fisica determinazione di scuotere la realtà. La violenza fisica sul proprio corpo trova senso nella missione di rifacimento radicale: Artaud manifesta la necessità sempre più impellente di “rifare il corpo” per “rifare la vita”. Il suo rifiuto alla nozione di corpo organico lo porta persino a dichiarare il 27 novembre del 1947 “la guerra gli organi”.79

Ispirata a questi pensatori, tra i tanti altri, nella seconda metà del Novecento la pedagogia e la ricerca teatrale si è dedicata intensamente alla questione del corpo in scena. È emerso così il “nuovo teatro” o il “teatro di scrittura scenica” che vuole salvare l’attore dalla tirannia del testo drammatico e metterlo nella condizione di esprimersi anche quando il testo non c’è. Paradigmatici il Living Theater di Julian Beck e Judith Malina, il Teatro Post- Drammatico di Hans Thies Lehmann, il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, l’Enviromental Theater di Richard Schechner e l’Odin Teatret di Eugenio Barba.

79 Deleuze e Guattari (1980) riprendono l’idea del corpo senza organi (CsO). Il CsO, dicono gli

autori, rifiuta l’investimento simbolico sul corpo. “Niente a che vedere con un fantasma, niente da interpretare (Deleuze e Guattari, 1980: tr.. it. 231) e ancora “Attraverso un rapporto meticoloso con gli strati si libereranno le linee di fuga, si faranno passare e fuggire i flussi coniugati, si enucleeranno delle intensità continue per un CsO. Connettere, coniugare, continuare: tutto un diagramma contro i programmi ancora significanti e soggettivi”. (ivi. 241)

Ognuna di queste compagnie sono emerse dalla mano dei grandi “registi- pedagoghi-maestri” del secolo scorso. Tutti loro, e tutti coloro che li seguono fino ai nostri gironi, hanno affrontato in modo pratico e teorico il ruolo del corpo in scena, la sua costruzione, le sue caratteristiche e gli strumenti che servono per modellarlo.

La constatazione dell’importanza del ruolo della corporeità nella pratica performativa ha permesso l’emergere di altri tipi di generi artistici che sperimentano le possibilità semiotiche del corpo in scena. Si inizia a delineare nella seconda metà del Novecento una fertile interazione e contaminazione tra i linguaggi delle arti plastiche e quelli che si basano sulla presenza corporea dell’artista. Dal rapporto sinergico tra teatro ed altre forme di arte hanno origine manifestazioni artistiche come la performance art, gli happening e la body art. La sinergia funziona in tutte due le direzioni: da una parte la ricerca teatrale sul corpo ha avuto una ricaduta su altri tipi di manifestazioni artistiche e, dall’altra parte, questi nuovi linguaggi hanno posto inediti problemi e domande alla stessa ricerca teatrale.

5.2. Il continuum presentazione / rappresentazione

Dicevo che il primo modo di intendere la presenza è quello che si riferisce alla esistenza “materica” e “reale” del performer. La presenza di un corpo che emana odore, che respira, un corpo carico e al contempo attraversato da forze ed energie. Il teorico e regista russo Sergej M. Ejzentštejn80 identificava come tratto distintivo del teatro il vincolo con la presenza fisica reale dei partecipanti. Nel cinema, rifletteva, l’evento resterà sempre “rappresentazione”, mentre a teatro “davanti allo spettatore si svolge “di fatto” un avvenimento almeno fisicamente reale. Si

80 Sergej M. Ejzentštejn (1898 – 1948) Teorico e regista sovietico. A livello teorico pensò e

sistematizzò il montaggio filmico come operazione tecnica che riesce a manipolare emozionalmente gli spettatori. Pubblica La forma del film e Il senso del film. Come regista ha un grande successo grazie alle complesse tecniche di montaggio e all’uso di una poetica formale dell’immagine cinematografica. Sul teatro scrisse vari saggi oggi raccolti in Il movimento

espressivo. Tra i suoi film più famosi: Bronenosec Potëmkine (La corazzata Potemkin) (1925), Aleksandr Nevskij (1938) e la saga su Ivan il terribile di titolo originale Ivan Groznyi (1944, 1946,

tratta di uomini, e non di ombre. Di voci, che pur se di attori, restano comunque le voci dei personaggi rappresentati. Di azione effettiva” (1937 tr. it.: 163-164).

De Marinis parla di una costitutiva bidimensionalità del fatto teatrale: “il quale non è mai soltanto finzione, rappresentazione, rinvio ad altro, ma è anche e sempre, performance materiale, evento reale, presentazione autoriflessiva” (1988: 19). De Marinis distingue così due dimensioni: una rappresentativa che si caratterizza dal rinvio ad altro da sé e un’altra presentativa che è il rinvio a se stesso (1982: 62). Secondo De Marinis nella dimensione rappresentativa prevale una funzione referenziale, “funziona globalmente come trasparente sistema semiotico di renvoi e come evento fittizio” (1982: 63), e nella dimensione presentiva prevale invece l’autoreferenzialità e la conseguente non-finzionalità.

Ogni arte dal vivo, che si basa sulla compresenza corporea, contempla questa bidimensionalità. Anche nel più ampio spettro delle arti viventi si verifica questa doppia articolazione tra il corpo come “materia” (che si presenta sulla scena) e il corpo come figura (che rappresenta nella scena).

Rifletterò intorno a queste due dimensioni che De Marinis attribuisce al teatro. Prima però, vorrei fare un chiarimento concettuale. Opporre la categoria di “rappresentazione” (come rinvio ad altro) a quella di “presentazione” (come rinvio a sé) può essere problematico dal punto di vista della semiotica. In primo luogo perché da una prospettiva interpretativa, ogni segno è sempre un rinvio ad altro. Peirce, definiva il segno proprio come qualcosa che sta per qualcos'altro sotto qualche aspetto o capacità. La possibilità stessa della significazione dipende dal rinvio a qualcosa che viene dunque “richiamata” dal segno. Infatti, Peirce utilizza il termine representamen proprio per sottolineare la natura rappresentazionale del segno.

Un segno, quindi, non può essere non rappresentazionale così come qualcosa che non è rappresentazionale non può essere un segno. Si vede allora come da questa prospettiva, è abbastanza problematico parlare di “rappresentazione” e “presentazione”. Che ruolo ha l’aspetto “presentativo” rispetto alla semiosi? Se non è rappresentazionale, allora non è semiotico? Torniamo dunque alla questione del presemiotico in particolare alla domanda sulla pensabilità di un ambito presemiotico nelle arti viventi. Sostengo che nelle

pratiche performative non ci può esser qualcosa che non sia semiotica a tutti gli effetti. Neanche il corpo come materia può avere la prerogativa di essere considerato qualcosa che non è rappresentazionale (nel senso peirciano del termine).

D’altronde, la questione della rappresentazione pone un altro problema semiotico classico: il problema del riferimento. Il representamen sta per un oggetto al quale fa riferimento. La “presentazione”, allora, non essendo “rappresentazione” appartiene all’ambito del riferimento? Che statuto ha quindi una “presentazione” rispetto ad una “rappresentazione”?

Come si può constatare, la terminologia scelta da De Marinis risulta abbastanza problematica nel contesto dell’attuale teoria semiotica. Le nozioni che De Marinis sceglie per descrivere la bidimensionalità del fatto teatrale sono molto cariche e non paiono immediatamente chiare. Nonostante la terminologia problematica, credo che De Marinis abbia identificato due dimensioni importanti che possono servire come spunto per la mia riflessione. La rappresentazione si può concepire come il rinvio a qualcosa diverso da sé nel senso, per esempio, di un testo drammatico o un personaggio. Un attore di teatro di prosa che deve interpretare un testo, costruisce il suo essere in scena a partire dal riferimento (testo drammatico) al quale deve rispondere. La creazione del personaggio, le sue azioni, i modi di muoversi e di parlare non rinviano alla sua persona o identità ma sono indirizzati verso la creazione di qualcosa di “diverso da sé”. In questa specifica accezione, io sarei d’accordo nell’identificare un aspetto rappresentazionale nella pratica performativa.

L’aspetto di presentazione, ha a che fare, secondo De Marinis con il fatto che l’attore oltre a rappresentare, si presenta come un ente fisico materiale. La presenza fisica dell’attore, lo spazio che occupa e il tempo nel quale si muove, determinano un aspetto che non vuole indicare qualcos’altro, ma che sta soltanto per se stesso.

Ciò che De Marinis non precisa, e che la scelta terminologica rende problematico, è se questa presenza è significante o meno. Dal mio punto di vista, il rinvio a sé non vuol dire che tale aspetto non significhi ma solo che esso è autoriflessivo, cioè che il significato si riferisce allo stesso veicolo significante. In

altre parole, il rinvio a sé è sempre un rinvio, quindi implica comunque qualcosa che sta al posto di e ciò garantisce il suo statuto semiotico. Ciò che lo distingue da una rappresentazione vera e propria è che forse non sta al posto di qualcos’altro ma sta al posto di se stesso. La differenza tra “rappresentazione” e “presentazione” risiede a livello del riferimento che denota. Nella rappresentazione il riferimento è qualcos’altro come un testo drammatico, nel caso della presentazione il riferimento è la presenza stessa.

Un altro modo di intendere questa dinamica è renderla in termini di traduzione. La rappresentazione implica un’operazione di traduzione intersemiotica (Eco 2003). L’attore deve tradurre il testo drammatico in un repertorio gestuale, una voce, una qualità del movimento, determinate passioni, ecc. Si tratta, è evidente, di una trasmutazione in quanto non solo c’è traduzione a livello delle sostanze dell’espressione ma in modo più radicale a livello delle materie dell’espressione. Un testo drammatico (quindi un testo verbale scritto) viene trasmutato in altre materie dell’espressione.

Nel caso della presentazione non ci sarebbe traduzione (perché è il corpo che si presenta in quanto corpo) ma sicuramente c’è interpretazione, un illuminare l’oggetto comunque sotto qualche rispetto. La presentazione del corpo non può essere innocua o trasparente, ma implica comunque un ritaglio: una certa strategia di ostentazione, una messa in posa, l’omissione di certi aspetti per enfatizzarne altri, ecc. Pensiamo per esempio alla performance AutoErotic SM (1989) di Bob Flanagan: l’artista, per rievocare le sofferenze della fibrosi cistica che da molti anni lo affligge, usa delle pratiche sadomasochiste finendo persino con l’inchiodare il proprio pene ad una tavoletta di legno. In questo caso Flanagan non sta rappresentando un personaggio, ma si presenta proprio come se stesso, come Bob Flanagan. Le ferite che causa al proprio corpo e la sofferenza che queste provocano sono forti elementi che segnalano il fatto che la persona non sta “recitando” qualcosa, ma che la sua azione sta accadendo realmente. È chiaro che in questa azione il rinvio è a se stesso e non ad altro (nel senso di un testo drammatico o di un personaggio) ma ciò non toglie che questa sia un’operazione

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