Un esempio di eroismo riportato da Gellio ha come protagonista Lucio Sicinio Dentato tribuno della plebe nel 454 a.C., detto Achille romano per le sue imprese belliche.
Nei libri degli Annali sta scritto come Lucio Sicinio Dentato, […], fosse guerriero incredibilmente strenuo, che ricevette un soprannome per la forza straordinaria, e venisse chiamato l’Achille romano. Si dice che egli abbia combattuto in centoventi battaglie, […], avesse ricevuto otto corone auree, una corona ossidionale, tre murali, quattordici civiche, ottantatré collari, più di centosessanta bracciali, diciotto giavellotti; ricevette anche venticinque falere; ebbe numerose spoglie militari, […]; partecipò nove volte agli onori del trionfo con i suoi generali. (NA 2. 11 1-4).
Un altro esempio di eroismo è la storia del tribuno militare Quinto Cedicio, ripresa dagli Annales e da un passo delle Origines di Catone:
[…] Durante la prima guerra punica il generale cartaginese che comandava la Sicilia, […] aveva per primo occupato alcune alture e luoghi particolarmente favorevoli. I soldati romani pertanto si attestano, […] in luogo esposto a sorprese e a gravi pericoli. Il tribuno va dal console e gli mostra il grande pericolo che deriva dal luogo poco favorevole e dall’essere circondati dai nemici. «Io ritengo,» dice «se vuoi salvare la situazione, che tu debba comandare a quattrocento soldati di marciare verso quella verruca (così infatti Catone chiama un luogo elevato e scosceso) ed ordini loro e li esorti a occuparla; i nemici, appena si accorgeranno di ciò, manderanno i più bravi e i più decisi a cercar di occupare per i primi l’altura e combattere contro i nostri; soltanto di ciò si occuperanno, e certamente tutti quei quattrocento saranno sopraffatti. Ma allora, essendo il nemico impegnato in quel massacro, avrai il tempo necessario per ritirare l’esercito da questa posizione. Non vedo altra via di salvezza fuor che questa.» (NA 3. 7. 2, 3-7). Il console approva questa idea ed il tribuno militare si offre di condurre egli stesso il gruppo dei quattrocento, anche se ciò significa mettere a repentaglio la propria vita.
[…] Questi e i quattrocento si incamminano verso la morte. […] Tutti i quattrocento, compreso il tribuno, cadono […]. Frattanto il console, mentre quelli combattono, può ritirare le loro forze in posizione elevata e sicura. Ma lasciamo non alle nostre parole bensì a quelle dello stesso Catone di narrare ciò che per volere degli dèi accadde al tribuno. «Gli dèi immortali
diedero al tribuno militare una sorte degna del suo coraggio. Infatti questo avvenne: essendo stato colpito in molte parti del corpo, non aveva però ricevuto ferite alla testa e fu trovato fra i morti, sfinito per le ferite e il sangue perduto. Fu raccolto, e guarì; e più volte dopo quella diede allo Stato altre prove di valore e di coraggio, e con quell’azione, in cui condusse a morte quattrocento uomini, salvò il resto dell’esercito. […] (NA 3. 7. 11-19). Catone continua commentando così l’episodio:
«[…] la gloria di un’azione molto dipende dal luogo in cui si svolge. Il laconio Leonida, che compì una simile azione alle Termopili, per il suo valore conobbe una gloria incomparabile, la gratitudine di tutti i Greci, […] i concittadini mostrarono la loro riconoscenza per il suo comportamento. Invece al nostro tribuno militare ben modesta gloria fu tributata per un’azione uguale a quella di Leonida e per aver salvato un esercito.» […]. (NA 3. 7. 19).
Gellio pone l’accento su parole particolari, come per esempio il termine uerruca, che viene usato per la descrizione del luogo dove si erano accampati i soldati, indica una protuberanza, una collina, ricoperta da un bosco. Gellio riprende l’espressione uerruca da Catone, ma per il resto rielabora la storia con parole proprie, come possiamo capire dall’uso dell’espressione procul dubio che ai tempi di Catone non veniva usata.8
La famosa sententia di Catone che dice che “le truppe stavano per andare in un posto da dove loro non si aspettavano di tornare”, viene resa da Gellio in maniera più dura, “si incamminano verso la morte” (tribunus et quadringenti ad
moriendum proficiscuntur).
Nella prima parte del passo 3. 7 Gellio dimostra la sua abilità nel rielaborare una storia. Egli usa un linguaggio più semplice del suo solito stile ma più brillante di quello di Catone. Invece, per raggiungere la climax, egli copia verbatim (parola per parola) il sublime passaggio di Catone sulla fuga miracolosa dell’eroe e sulla “piccola” fama che egli conquistò in paragone a Leonida. A questo segue una breve nota, un tipico postscriptum gelliano, “Claudio Quadrigario nel III libro degli Annali dice però che il suo nome non era Cedicio, ma Laberio.” (NA 3. 7. 21). Il fatto che Quadrigario, nel riferire l’episodio, chiami il tribuno Laberio e non Cedicio è la dimostrazione di quanto le parole di Catone fossero giuste, infatti
del tribuno non viene tramandato con certezza il nome. Ciò accresce il pathos del commento di Catone, perché questa testimonianza sottolinea che il tribuno aveva conseguito in verità ben poca fama, nonostante avesse compiuto un’azione tanto gloriosa.9
Spesso Gellio come in questo caso paragona episodi della storia romana ad episodi analoghi della storia greca.
Un altro esempio di eroismo è presentato nell’episodio, ricordato dagli Annali, che narra le gesta di Valerio Massimo, un giovane tribuno militare che riuscì a sconfiggere il capo dei Galli in guerra contro Roma:
«[…] il capo dei Galli, che si distingueva per la corporatura grossa e alta […] avanzò a grandi passi, […] ordinò con aria di disprezzo che avanzasse e si presentasse se v’era qualcuno in tutto l’esercito romano che osasse combattere con lui. Allora il tribuno Valerio, […] si fece innanzi con coraggio e ritegno; i due combattenti si fan sotto, s’arrestano e già hanno messo mano alle armi quando avviene un fatto miracoloso: d’improvviso un corvo giunge in volo, si posa sull’elmo del tribuno e poi comincia a colpire il viso e gli occhi dell’avversario; lo sorprende, lo turba, gli graffia le mani con le unghie, lo acceca con lo sbattere delle ali e, quando gli par di avere infierito a sufficienza, ritorna sull’elmo del tribuno. Allora questi, […] atterra quel ferocissimo capo dei nemici, lo uccide e per questo fatto assume il cognome di Corvino. Ciò avviene nell’anno 405 dalla fondazione di Roma. Il divo Augusto fece erigere nel suo Foro una statua a questo Corvino. Sulla testa di tale statua v’è l’effigie di un corvo, il ricordo del combattimento che ho descritto.» (NA 9. 11. 5-10).
La storia di Valerio Corvino, narrata in questo passo possiede la struttura classica della leggenda. L’eroe combatte contro l’antagonista ma riesce ad uscire vincitore grazie all’aiuto divino che gli si manifesta nelle sembianze di un animale (un corvo appunto). L’intercessione divina conferisce maggior risalto all’eroe, pur senza sminuirne il valore dimostrato nel combattimento, anzi l’intervento del corvo evidenzia il fatto che gli dei sono dalla parte dei Romani.
In NA 7. 4 riprendendo da Tuberone e da Tuditano, Gellio parla di Attilio Regolo e del comportamento eroico da lui tenuto durante la prima guerra punica.
Ho recentemente letto nel libro di Tuditano la ben nota vicenda di Attilio Regolo: quando Regolo venne fatto prigioniero, oltre a quanto egli espose in
Senato per sconsigliare lo scambio di prigionieri, aggiunse anche che i Cartaginesi gli avevano somministrato un veleno, non di immmediato effetto, che avrebbe ritardato la morte di qualche giorno, nel desiderio che vivesse finché si fosse realizzato tale scambio, e poi, agendo gradatamente il veleno, egli morisse.
Tuberone nelle sue Storie dice che Regolo, ritornato a Cartagine, soffrì torture […]. Tuditano riferisce che gli impedivano a lungo di dormire e che con questo mezzo lo uccisero; […]” (NA 7. 4. 1-4).
Il passo delle Notti attiche in cui viene narrata la vicenda di Attilio Regolo risulta significativo. Attilio Regolo è di per sé una figura esemplare, leggendaria, nel passo 7. 4, tramite le testimonianze di Tuberone e Tuditano, si mostrano quali fatti abbiano contribuito ad alimentare la leggenda. Regolo è presentato come un uomo disposto a tutto per il bene di Roma, anche a sacrificare la propria vita, ed assurge quindi ad esempio di abnegazione per la patria.
Regolo viene sottoposto ad una pena particolare, molto grave, poiché egli morirà un po’ per volta, la sua morte sarà lenta e dolorosa. Egli vive l’ultimo periodo della sua vita consapevole della sua sorte, inesorabile ed irrevocabile ma, nonostante ciò, egli antepone al suo proprio interesse il bene dello Stato, che è la cosa a cui tiene di più. Perciò egli sconsiglia lo scambio di prigionieri che sarebbe stato svantaggioso per i Romani.
Infine come sacrificio ultimo torna a Cartagine assumendo la responsabilità del proprio comportamento, consapevole che avrebbe pagato caro l’aver sconsigliato i Romani di operare uno scambio di prigionieri con i Cartaginesi.
Attilio Regolo è un personaggio che compie il proprio dovere fino in fondo, non si tira indietro quando si tratta di sacrificare il proprio interesse, soffrirà torture inaudite fino alla morte. Egli è quindi degno di essere considerato un esempio di eroismo e di essere ricordato dalle generazioni posteriori.
Più grandi sono le sofferenze patite dal personaggio e maggiore è il suo valore. Più esemplare risulta agli occhi dei lettori la sua integrità morale ed il suo coraggio.