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8.3.a La sovranità comitale e gli strumenti del governo centrale

Nonostante i loro interventi, i comuni di Orvieto e Siena svolsero nel XIII secolo solo una minima parte di quelle “funzioni di governo” che, anche se ridotte rispetto a quelle “moderne”, esistettero comunque in Ita- lia nei secoli centrali del medioevo. Essi latitarono nel campo del prelievo fiscale, limitandosi a imporre censi dovuti dalla famiglia nel complesso, e in quello giurisdizionale, in cui spicca solo qualche intervento pontificio — in casi di eccezionale rilievo politico — e un timido tentativo senese, tardo e privo di seguito. E anche l’esercizio della signoria politica, che pu- re risulta il campo in cui fu il loro intervento più significativo, rimase solo intermittente. Orvieto e Siena, attraverso l’accentuazione del legame per- sonale, riuscirono a rompere la solidarietà famigliare e a creare vincoli di natura istituzionale, imponendo giuramenti di cittadinatico (la cui molti- plicazione ne limitò però l’efficacia) e controllando in parte alcuni diritti politici, primi fra tutti la convocazione dell’esercito e la dichiarazione del- lo stato di guerra; ciononostante i due comuni non riuscirono che in con- dizioni politiche favorevoli a fare di tali diritti qualcosa di più che vuoti impegni, completamente subordinati alla volontà di collaborazione dei conti. E in campo militare il passaggio per la mediazione aldobrandesca sopravvisse persino in alcuni dei patti separati contratti con comunità e gruppi aristocratici della contea, limitandone seriamente l’efficacia1.

Ma in che misura e dove tali poteri furono appannaggio dei conti? E in che misura e dove ne beneficiarono invece comunità e nuclei signorili autonomi? È questo un problema fondamentale. Se infatti le aree del se- condo tipo risultassero dominanti nella contea, verrebbe meno l’utilità di riferirvisi come realtà istituzionale d’inquadramento e sarebbe più adegua- to “leggere” la Maremma duecentesca come territorio caratterizzato da un panorama signorile disgregato, non egemonizzato dagli Aldobrandeschi.

La nostra attenzione si concentrerà sull’ambito territoriale definito

comitatus Ildebrandescus e descritto dalle divisioni del 1216 e del 1274.

Analizzandone la struttura istituzionale, emerge subito un elemento di complessità, costituito (durante tutta l’esperienza della famiglia, ma spe- cialmente nel XIII secolo, quando tali distinzioni crebbero d’importanza per l’evoluzione della cultura giuridica) dalla molteplicità dei titoli in base a cui le varie parti della contea erano controllate dagli Aldobrandeschi. Il

2 Tale distinzione non è ricordata né nella divisione del 1216 né in quella del

1274, se non, in quest’ultimo caso, molto indirettamente nella menzione dell’enfiteusi. Del resto anche nei patrimoni delle famiglie baronali romane in occasione delle spartizio- ni ereditarie non c’è distinzione tra allodi e beni enfiteutici o feudali, vd. CAROCCI, Baroni

di Roma, p. 103.

dominato aldobrandesco ereditò infatti nel XIII secolo alcuni caratteri strutturali derivanti dalle radici affondate nel tumultuoso periodo dello sviluppo signorile, quando cessioni ai più disparati titoli e ampie usurpa- zioni avevano accresciuto il patrimonio famigliare, da cui poi, per gradua- le evoluzione, nacque la contea. In essa erano confluiti, parte nella caotica e generatrice seconda metà dell’XI secolo, parte nel pieno XII secolo, al- tra fase di enorme crescita del dominato famigliare, vasti patrimoni allo- diali (frutto innanzitutto di “privatizzazioni” dell’asse fiscale), enormi quantità di beni ecclesiastici, feudi imperiali e papali e più tardi addirittu- ra terre, come la Guiniccesca, tenute in affitto da comuni. La distinzione fra i titoli in base a cui i conti disponevano di quei beni si riduceva però per lo più a mera finzione giuridica, dato che essi venivano spesso a legit- timare, attraverso una mediazione giuridica più o meno accettata dalle parti, precedenti usurpazioni o, se si preferisce, viste le ingenti dimensio- ni, conquiste militari. Esemplari, accanto alla privatizzazione dei beni fi- scali, sono gli accordi circa la Guiniccesca e il patrimonio toscano delle Tre Fontane, ma i casi potrebbero facilmente essere moltiplicati, basti pensare alle secolari vertenze con S. Salvatore al Monte Amiata.

Tali distinzioni giuridiche risultarono però a tratti più importanti di quanto si potrebbe supporre: in momenti di crisi della famiglia occasiona- rono infatti attacchi condotti sul piano del diritto formale, come nel caso dell’azione di Bonifacio VIII per impedire il rinnovo dell’enfiteusi delle Tre Fontane a Margherita o della revoca della contea a Guglielmo da par- te di Federico II in quanto feudo imperiale. La varietà dei titoli di posses- so non intaccava comunque l’unità della contea per l’unione personale nelle mani del conte, ma soprattutto per l’esistenza di una complessa struttura istituzionale e di un cospicuo apparato di governo. Essa non eb- be perciò significativi riflessi nell’esercizio dei poteri a livello locale, né in- fluenzò i rapporti tra conti e gruppi aristocratici signorili, loro principali interlocutori in questo campo2.

Ben maggior rilievo aveva invece un altro elemento di complessità che si interseca con il precedente senza alcuna dipendenza: la distinzione tra domini diretti e domini indiretti, i secondi costituiti per lo più da si- gnorie territoriali infeudate (dette nel secondo ’200 baronie). Questa se- conda contrapposizione agì infatti nella realtà sociale e istituzionale, per-

ché riguardava le concrete forme di esercizio del potere locale. Considera- ta infatti la grande difficoltà di ogni governo del tempo a esercitare forme di controllo verticale efficaci e continue, e vista la tendenza di abusi quo- tidiani e graduali usurpazioni a farsi consuetudine — e perciò diritto — l’esercizio localizzato ma costante del potere giurisdizionale risulta fonda- mentale nel funzionamento dei concreti meccanismi di dominio e sfrutta- mento della popolazione. Solo analizzando puntualmente la quotidiana presenza del governo comitale nelle singole realtà, se ne possono ricono- scere le differenze rispetto ai poteri comunali, che ebbero un ruolo limita- to nell’inquadramento della popolazione. In termini generali, i domini di- retti, posti nell’immediata disposizione dei conti, erano retti da officiali amovibili; gli Aldobrandeschi vi vantavano gran parte, se non la totalità, dei poteri giurisdizionali e spesso notevolissimi patrimoni allodiali; la loro azione di governo era pervasiva e trovava un limite solo negli organismi comunitari. (Il vario grado di sviluppo delle comunità è, infatti, un’ulte- riore importante variabile da considerare; c’erano comunità deboli, dai li- mitati diritti, e altre più evolute, capaci di ottenere significative “libertà”).

I domini indiretti erano invece signorie territoriali in mano a fami- glie aristocratiche che detenevano la maggioranza dei poteri giurisdiziona- li e fiscali, ma che riconoscevano di derivarli feudalmente dagli Aldobran- deschi. Anche qui la signoria comitale eccedeva l’esercizio dei diritti di si- gnori feudali: l’autorità di principi territoriali permetteva loro di interve- nire in problemi di ordine politico generale, ma anche in più minute que- stioni locali, specialmente nella misura in cui esse riguardavano i rapporti tra diverse comunità. In questa fascia però la loro azione era sporadica e per lo più mediata dai domini. La centralità dello strumento feudale per l’esercizio della sovranità nei domini indiretti non deve indurre a sovrap- porli indebitamente con la vassallità aldobrandesca, perché non sempre né necessariamente tutto il patrimonio delle famiglie vassallatiche deriva- va, anche solo formalmente, dai conti e perché non tutti i legami vassalla- tici assunsero un contenuto beneficiario (non sempre comportarono, cioè, concessioni patrimoniali o signorili), limitandosi a volte a una valenza di sottomissione — o anche solo di alleanza — politica, analoga a quella ca- ratteristica dei rapporti degli Aldobrandeschi con i comuni.

La distinzione tra domini diretti e indiretti è importante anche per- ché il loro equilibrio e la loro stabilità erano fondamentali per la tenuta della contea. Il graduale indebolirsi, fino a scomparire, dell’efficacia dei legami tra aree infeudate e conti tra XIII e XIV secolo fu infatti uno dei più evidenti indicatori e dei più gravi frutti della crisi politica che portò alla scomparsa della contea o, più precisamente, a un ridimensionamento

3 Questa esperienza andrebbe indagata più approfonditamente, ma sembra questo

il caso dei signori — e poi conti — di Castell’Ottieri, dei Baschi, dei domini di Capalbio e, infine, della più celebre di queste stirpi, quella dei Farnese.

che la trasformò del tutto. Il processo ebbe tempi e caratteri diversi nell’area settentrionale e in quella meridionale, che portarono a differenti esiti politici e istituzionali. A nord si affermarono gradualmente legami di- retti tra Siena e i gruppi aristocratici precedentemente inseriti nella vassal- lità aldobrandesca, che favorirono (tra 1250 e 1330 ca.) l’allargamento dell’area egemonica senese ai danni della contea, fino alla sua distruzione. Nel settore meridionale, invece, essa sopravvisse pressoché inalterata fino alla morte di Ildebrandino XII (1284); allora la crisi intervenne repentina e fu strettamente connessa alle vicende dinastiche: nei primi anni del XIV secolo, soprattutto in seguito all’azione di Bonifacio VIII, entrarono irre- versibilmente in crisi i legami con le principali famiglie signorili del terri- torio. E tale tendenza negativa non fu invertita neppure quando gli Orsini si impadronirono dell’eredità di Margherita, cosicché il loro principato si ridusse ai soli domini diretti, pur sopravvivendo fino all’età moderna. I gruppi famigliari, che intorno al 1300 si resero autonomi dai conti, furono controllati solo debolmente da Orvieto (o da altri comuni), riuscendo così a costituire dominati indipendenti che si distinguevano — e non sempre — da quello degli Orsini solo per le più ridotte dimensioni3.

Al di là degli elementi che rendevano unica ogni realtà locale e che distinguevano domini diretti e aree infeudate, la contea aveva una propria superiore unità. Era in primo luogo un fatto politico: sul piano del diritto, i suoi abitanti e i gruppi aristocratici che ne controllavano ampi settori, non misero mai in discussione la legittimità dell’autorità politica degli Al- dobrandeschi. Non che mancassero le ribellioni, fenomeno frequente e a tratti endemico, ma, come le ripetute rivolte e resistenze armate all’auto- rità imperiale di duchi, principi tedeschi e comuni italiani non comporta- rono mai — nei secoli centrali del medioevo — un rifiuto “di principio” dell’impero, ma solo l’opposizione alla sua momentanea guida e incarna- zione o, più semplicemente, la volontà di rinegoziare le condizioni di sud- ditanza, così le ribellioni aristocratiche nella contea non vanno interpreta- te come un attacco alla sovranità dei conti.

Più significativi attentati alla loro signoria politica complessiva ven- nero dai comuni di Orvieto e Siena e specialmente dal primo, il più atten- to a rivendicare, almeno teoricamente, un controllo su larga parte del do- minato. Il loro principale strumento di affermazione fu il cittadinatico

4 Il cittadinatico, espresso da un esplicito giuramento o dal solo riconoscimento,

anche incidentale, della condizione di civis, compare in vari accordi con Orvieto e Siena, a partire dal patto del 1203 (ASOrv, dipl., A8, a. 1203 giu. 3, ed. parz. CDO, n. 76, pp. 53- 54) e da quello del 1221 (CV, n. 173, pp. 257-59, a. 1221 ott. 2). Per le sue limitazioni cfr. la dichiarazione di Ildebrandino VIII nel 1203: «iuramus inde esse civem, ita tamen quod per sacramentum non possimus vel debeamus inde cogi a consule vel rectore civitatis, si- cut alii cives ad causas et alia honera civilia habita<n>tes cives cotidie in civitate»; lo stes- so vale anche per il cittadinatico a Siena, vd. CV, n. 301, pp. 452-53, a. 1237 giu. 17: Gu- glielmo e Ildebrandino dichiarano di «esse de cetero cives Senenses, salvo quod non teneantur respondere Senis de iure alicui persone nec allibrare (…) nisi secundum formam et tenorem societatis contracte hactenus».

5 Come l’exequimentum citato nei patti con Orvieto del 1251, vd. ASOrv, Instr., n.

870 (cod. Savello I), cc. 101v-104r (1° doc.), a. 1251 mar. 20-29 (mar. 20), reg. CDO, n. 297; e ASOrv, dipl., A44 (1° doc.), a. 1251 mar. 24; o come l’obbligo di assistere ai parla- menta, vd. ASOrv, dipl., A15, a. 1216 giu. 24, ed. parz. CDO, n. 106, pp. 73-74 e CDO, n. 297 (2° doc.) cit.

6 Il diritto di guerra et pacis è per lo più ricordato in patti con Orvieto vd. CDO, n.

106 cit. nt. 5; CDO, n. 297 (2° doc.) cit. nt. 5; ASOrv, Instr., n. 869 (cod. B), c. 75r (85r), a. 1285 giu. 3, reg. CDO, n. 534; ASOrv, Instr., n. 869 (cod. Savello I), c. 176r-77r, a. 1285 giu. 19, reg. CDO, n. 537. Compare occasionalmente anche nei patti con Siena vd. ASSi, Cal.Ass., cc. 317r-v, a. 1262 ott. 31.

7 Sull’obbligo di fare l’exercitus vd. ASOrv., Instr., n. 869 (cod. B), c. 14r (18r), 1°

doc., a. 1251 lug. 14, reg. CDO, n. 306; ASOrv., Instr., n. 869 (cod. B), c. 12r (16r), 1° doc., a. 1251 lug. 16, reg. CDO, n. 307; ASOrv, Instr., n. 869 (cod. B), c. 13v (17v), a. 1251 lug. 16, reg. CDO, n. 308; CDO, n. 534 e CDO, n. 537 citt. nt. 6. Sulle cavalcate o ca- valcamenta vd. CDO, n. 306, CDO, n. 307, CDO, n. 308, CDO, n. 534 e CDO, n. 537 citt. Il significato del termine hostis non è chiarissimo, ma per l’alternarsi a exercitus sem- bra da interpretare come calco latino del volgare ‘oste’ (e quindi come sinonimo di exerci- tus), più che nel senso classico del termine (cioè diritto di scelta del nemico da combattere).

che, inserendo i conti nell’organismo comunale, ne limitava l’autonomia; e proprio all’affermazione di una sigoria politica era volto quell’impegno, visto che non contemplava gli altri doveri normalmente derivanti dalla cit- tadinanza: il riconoscimento dell’autorità giurisdizionale e fiscale del co- mune4. Lo sforzo di controllo politico investiva soprattutto il campo mili-

tare, rispetto a cui risultano accessori i generici obblighi di obbedienza e presenza alle assemblee comunali5. I doveri militari sono i più frequente-

mente citati e tipologicamente più vari: sono ricordati sia in riferimento all’apertura e chiusura delle ostilità6, che in connessione alle attività belli-

che vere e proprie, convocazione e comando dell’esercito generale e più semplici e localizzate cavalcate7.

I poteri militari e la signoria politica rivendicati dai comuni ebbero però solo limitata applicazione, dovuta più che altro al momentaneo orien- tamento politico della famiglia; rimasero invece per lo più saldamente in mano ai conti, costituendo un importante elemento di unità del principa-

8 Il miglior panorama dei diritti politico-militari comitali è offerto dalla carta di li-

bertà per Grosseto, che, per la sua ampiezza, richiese un’esplicitazione dei diritti rimasti ai conti, altrove sottaciuti perché scontati, vd. MORDINI, Note, app., n. 1, pp. 310-14, a. [1204

set. 8?], § XIX: «Alias quascumque rationes nostras reservamus nobis, utputa de portis, foro portibusque necnon nostri hostes, cavalcatas, guerram et pacem, sicut hactenus habui- mus» (corsivo mio). Della convocazione dell’esercito e delle cavalcate si hanno ulteriori menzioni nei patti del 1266 (vd. ASSi, Capitoli, n. 20, c. 1r, a. 1266 mar. 6, impegno dei Grossetani a «facere hostem et cavalcatam dictis comitibus contra eorum inimicos iuxta mandatum et requisitionem eorum») e in una donazione di Umberto II alla S. Trinità di Montecalvo, riguardante i frutti dei diritti signorili sul villaggio nei successivi dieci anni «exceptis hostis et cavalcatis, que dicto domino comiti remaneant», vd. ASSi, dipl., Trafis- se di Siena, a. 1294 dic. 7. Del tutto equivalente è il ricorso al verbo equitare nell’alleanza di Suvereto con Massa Marittima del 1228, nella quale i Suveretani si riservarono il diritto di equitare al servizio dei conti «quocumque comites voluerint», vd. E. MASSART, Per le re-

lazioni fra i comuni di Suvereto e di Massa Marittima, «Bollettino storico livornese», n.s., 3, 1953, pp. 63-70: 69-70, a. 1228 ago. 18.

9 Vd. ASSi, Capitoli, n. 20, c. 1r, a. 1266 mar. 6, nei patti con i Grossetani i conti

concedono libertà di commerciare e trasportare derrate alimentari «et omnes alias res», «absque aliquo passagio vel avaria vel prohibitione eorum vel alicuius; non tamen ad rebel- les vel inimicos comitum»; se ne ricava che i divieti non erano connessi solo all’attività mili- tare, per la quale furono mantenuti in vita, ma avevano più ampia applicazione. Valore più generale, ma probabilmente sempre connesso ai commerci, ha il devetum ricordato dalla carta di libertà per Grosseto (MORDINI, Note, app., n. 1 cit. nt. 8, § XIV «super hiis etiam

omnibus volumus ut nullum devetum in Grosseto fiat nisi fieret per aliam terram nostram de Maritima») e da un più tardo testimoniale sui diritti esercitati dai conti a Grosseto (vd. ASSi, Capitoli, n. 20, c. 2v, a. [1254-66], § VI Ranieri, castaldo di Grosseto, «de deveto (…) dixit quod comites non solebant ponere devetum nisi similiter devetum fecerent per totum comitatum; nec rumpere solebant nisi quantum rumperent per comitatum»).

to, al di là delle mutevole forza e ampiezza della loro presenza patrimonia- le e signorile. La riconosciuta superiorità politica comitale, genericamente indicata fin dall’inizio del XIII secolo come ‘signoria’ o ‘bailia’, trovò poi un’istituzionalizzazione più precisa con la fissazione di alcuni diritti che ne derivavano, espressi in formule analoghe a quelle impiegate dai comuni per rivendicare il controllo della contea. I poteri più importanti attengono sempre alla sfera militare, che resta la dimensione fondamentale dell’auto- rità politica; essi sono però affiancati da altri diritti connessi all’esercizio della sovranità attraverso il diritto di comando o la semplice rammemora- zione e conferma dell’autorità comitale. Essi hanno in comune il riferi- mento diretto alla persona del conte e l’applicazione a tutto il territorio.

Per quanto riguarda l’attività militare, sono ricordati come di esclu- siva pertinenza comitale la dichiarazione dello stato di guerra e il control- lo delle attività belliche più ampie, ‘hostis’, o più limitate, ‘cavalcate’8. Si

hanno inoltre testimonianze su altri loro diritti di comando generalizzati, che riguardano essenzialmente limitazioni alla libertà di commercio, an- che se ciò sembra dovuto alla peculiarità delle fonti sopravvissute9.

10 ASSi, dipl., ARif (Massa), a. 1287 ott. 2, il comune di Suvereto nomina un procu-

ratore per rinnovare il giuramento di fidelitas ai conti e riceverne la conferma delle libertà e convenzioni tradizionali.

11 Vd. ASSi, dipl., ARif, a. 1271 ago. 2, reg. CIACCI, II, n. 557, lettera di Ildebrandi-

no XII agli uomini delle proprie comunità per concedere ai Senesi «per nos nostrosque af- fines, amicos, subditos et fideles plenam liberam ac generalem secu<r>itatem et fidanciam (…) salvis debitis pedagiis»; e ASSi, Cal.Ass., cc. 324v-25v, a. 1283 lug. 18, impegno dei “conti di Santa Fiora” con Siena per non dare aiuto ai fuoriusciti «aliquo modo per se vel suos subditos et fideles aut aliquam spetialem personam eorum districus».

12 Vd. ASSi, dipl., AGen, a. 1201 ott. 14, ed. parz. RS, n. 397, pp. 157-58, carta di

libertà per Suvereto, «salvo in omnibus honore domini comitis Ildibrandini et sue uxoris domine Adalascie comitisse palatine et eorum filiorum»; MASSART, Per le relazioni, cit. nt.

8, alleanza con Massa Marittima «salvo honore suprascriptorum comitum»; e ASSi, dipl., ARif, a. 1235 lug. 25, reg. CIACCI, II, n. 371, arbitrato nella causa tra nobiles e homines di

Suvereto fatto «ad honorem Dei et beate Marie virginis et beati Cerbonii et sancti Iusti et aliorum omnium sanctorum et domini Guilielmi comitis palatini et totius comitatus de Su- vereto»; ASFi, dipl., Volt, a. 1226 lug. 8, ed. parz. RV, n. 424, p. 149, testimoniale sui dirit- ti comitali a Montegemoli; gli abitanti potevano scegliere un rettore «verumtamen inveni- batur et eligebatur de amicis et ad honorem comitis et curie ipsum rectorem»; ASSi, Capi- toli, n. 20, c. 1v, a. 1275 mar. 31: i Grossetani rinnovano il giuramento di fedeltà a Ilde- brandino XII e promettono che «Grossetum custodierunt, servabunt et manutenebunt ad honorem et servitium et fidelitatem ipsius domini comitis et suorum posterum».

Nelle fonti compaiono poi, seppur numericamente limitate, espres- sioni che descrivono — così confermandola — la sovranità comitale sul territorio ricorrendo alla strumentazione feudale (giuramenti di fidelitas, sanzione dell’obbligo di fidelitas ai conti, descrizione come fideles degli abitanti della contea) o attraverso una sua più generica affermazione. Per quanto riguarda il secondo aspetto si tratta di testimonianze che, seppur poco numerose, attestano l’evoluzione in corso verso il superamento dell’elemento feudale nella sua definizione. Particolarmente importante è un atto proveniente da Suvereto, perché, non direttamente prodotto dagli Aldobrandeschi ma dalla comunità locale, mostra la forza di penetrazione dell’ideologia comitale. In esso nel 1287 gli Aldobrandeschi sono definiti «naturales domini comunis et hominum de Suvereto»10. Nello stesso sen-

so vanno anche gli occasionali riferimenti agli abitanti della contea come

subditi e non solo come homines o fideles11. Ma anche in questi casi, va ri-

levato, non manca un richiamo al ruolo della fidelitas che, nella sua poli- semia, aggancia i nuovi sviluppi al più tradizionale strumento feudale nel- la definizione della sovranità comitale. Non è dunque un caso che il feno- meno del ricorso a termini feudali, come fideles per designare i “sudditi”,

fidelitas per indicare il loro legame con i conti ed honor per richiamarne la

sovranità12, sia ben più massiccio e continuo, anche se non privo di ele-

13 Vd. supra pp. 303, 307-308, 313 (sui lodi del 1215/16) e ASSi, dipl., ARif, a.

1256 lug. 12, 2° doc. (= a. 1256 lug. [2]), reg. CIACCI, II, n. 500, concessione ai lambardi di

Rocca Tederighi del permesso di lavorare e commerciare nella contea, ma «cum licentia eorum (scil. comitum) fidelium ad quos terre pertinent» (che non possono essere che feu- datari investiti di giurisdizioni); ASSi, dipl., ARif, a. 1275 ott. 19, reg. CIACCI, II, n. 585, Il-

debrandino XII concede alcuni beni in feudo ricevendo in cambio «meram et perpetuam

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