• Non ci sono risultati.

L’età del concerto, 1815-

Il sistema del con certo è caratterizzato da una struttura dei cleavages politici indipendente e da una politica di distensione. La figura 1 illustra sinteticamente questa configurazione:

Fig. 1.Il sistema del concerto

A rappresenta la Russia zarista; C e D rappresentano, rispettivamente, la Francia e la Gran Bretagna; B rappresenta gli alleati della Russia, ovvero prussiani e austriaci.

Al termine delle guerre napoleoniche due potenze, tutelate da una geografia favorevole e da risorse materiali superiori, assurgono a una posizione preminente: la Russia e la Gran Bretagna. Il conflitto tra i due paesi monta immediatamente dopo la sconfitta di Napoleone e costringe i britannici a stipulare un patto di alleanza coi francesi, da poco sconfitti, per contenere il nuovo avversario. Come osserva W. Riker: «[…] in questo caso, i vincitori della guerra totale presero a litigare ancor prima di avere la possibilità di dividersi le spoglie» (1962, 70). I cento giorni ravvivano il pericolo bonapartista, così inglesi e russi mettono da parte le divergenze per unirsi di nuovo e contenere i francesi. Le potenze gestiscono, tramite il sistema delle conferenze, la politica europea e le successive crisi determinate dai moti rivoluzionari. Ma è un’unione temporanea. I russi continuano a ingerirsi nelle vicende della Porta e gli inglesi, da soli, stentano a contenerli. Il protocollo siglato da Wellington, nel marzo del 1826, deriva più da un fraintendimento nelle trattative che da una reale volontà inglese di schierarsi con Pietroburgo.

A partire dagli anni ’30, Francia e Gran Bretagna stabiliscono un’intesa, unione informale cui sono spinte dalla necessità di contenere i russi nel Vicino Oriente, da una parte, e dalle comuni caratteristiche domestiche dei loro ordinamenti, dall’altra. Per gli inglesi, è vitale garantire la libertà degli Stretti e impedire che i russi sottomettano la Porta. I francesi hanno importanti interessi commerciali in Egitto e in Siria, una posizione che li porta direttamente in rotta coi russi, i quali sembrano vicini a instaurare un protettorato sulla Porta. Per circa un decennio la politica europea è divisa in due campi contrapposti: l’intesa liberale anglo-francese, da una parte, e il blocco delle tre

potenze monarchiche, dall’altra. La cooperazione anglo-francese è evidente nella stipula della quadruplice alleanza, nell’aprile 1834; intanto, la rivalità degli inglesi coi russi monta sino al punto che una guerra europea pare inevitabile. Ma Nesselrode, invece di cercare lo scontro con l’intesa offre la propria collaborazione agli inglesi; Palmerston, nonostante la forte opposizione interna proveniente dagli ambienti filo-francesi, può concludere un accordo coi russi, nel gennaio del 1840, che di fatto isola Parigi nella crisi orientale.

La distensione russo-inglese condanna i francesi a una posizione di impotenza. Thiers minaccia la guerra e, per alcuni mesi, essa sembra veramente imminente; ma a corte e nell’assemblea si rifiuta di andare alla guerra per l’Egitto e infine i francesi devono cedere. Prussiani e austriaci, nel frattempo, temendo che il conflitto orientale li trascini in una guerra nella quale essi hanno pochi o nessun interesse, stendono ponti d’oro per la ritirata francese, in modo da salvare la faccia a Parigi. Rientrata la crisi con l’umiliazione dei francesi, il nuovo governo conservatore britannico torna a cooperare con Parigi e la politica europea ritorna divisa in due campi contrapposti. È questa la configurazione che si protrae sino alla guerra di Crimea. I francesi sono nuovamente in conflitto coi russi, stavolta per la questione dei luoghi santi; gli inglesi questa volta non trovano il compromesso coi russi e si va alla guerra.

Certa letteratura presenta il concerto europeo come un periodo di armonia tra le maggiori potenze. La narrazione che segue dovrebbe mostrare oltre ogni dubbio che esso fu caratterizzato da gravi tensioni, anche durante il suo zenith negli anni 1815-1823. Il cosiddetto concerto era, in effetti, un compromesso tra le due maggiori potenze del sistema, la Gran Bretagna e la Russia, compromesso che richiedeva il parziale isolamento della Francia. Nel 1815, i francesi si allearono con gli inglesi sotto l’imminente minaccia di un conflitto coi russi. La minaccia bonapartista e il rischio rivoluzionario ritardarono di un decennio gli allineamenti politici che già erano evidenti dopo la fine delle guerre francesi. Ma come nel 1815, anche nel 1840 inglesi e russi poterono trovarono un compromesso; e come nel 1815, questo compromesso isolò politicamente la Francia. Nel 1815, sconfitta ed esausta, essa era troppo debole per minacciare le potenze vincitrici. Nel 1840, i francesi minacciarono la guerra ma il loro bluff fu visto e dovettero ritirarsi chiedendo uffici ad austriaci e prussiani. Quello che comunemente si chiama «concerto d’Europa» era in effetti costituito da tre fattori che poco hanno a che fare con la politica del concerto quale la si immagina: la détente anglo-russa al vertice delle potenze; il parziale isolamento che ne derivava per i francesi; i tentativi di mediazione delle altre potenze orientali, desiderose di non esser trascinate in una guerra generale.

1) Un concetto controverso

La fine di una grande guerra ispira gli uomini a ricercare nuove forme di convivenza che scongiurino il ripetersi della catastrofe. Forse, è per questo che i politologi, o gli storici con un interesse per la teoria, guardano all’ordine stabilito a Vienna come un modello a cui rifarsi, o da criticare o, più semplicemente, da interpretare e reinterpretare a volta a volta col mutare delle condizioni politiche con cui essi stessi devono confrontarsi. Così, ad esempio, la fine della seconda guerra mondiale sia accompagna alle prime elaborazioni teoriche sul concerto; la distensione induce gli studiosi a teorizzare forme di condominio tra le due superpotenze; il nuovo corso sovietico, negli anni ’80, si accompagna a una ripresa degli studi sul concerto e la cooperazione tra i due grandi; e la fine della guerra fredda, da ultimo, rinnova la speranza che le relazioni internazionali a cavallo tra il XX e il XXI secolo possano conoscere la pace.

Genevieve Peterson offre una visione disincantata e non apologetica delle contrattazioni alleate durante il congresso di Vienna. I rapporti di potere hanno percorso tutte le contrattazioni, determinando prima l’esclusione di molti stati dal tavolo negoziale, e poi la creazione di un ordine che rispecchiava solo gli interessi dei maggiori protagonisti, mentre alle potenze minori veniva imposto il fatto compiuto dell’accordo tra i grandi. Così, ad esempio, l’Articolo XXXII del secondo trattato di Parigi (30 maggio 1814), prevedeva che «[…] tutte le potenze impegnate su ambo i fronti nella presente guerra, dovranno, entro due mesi, mandare plenipotenziari a Vienna allo scopo di regolare, nel Congresso Generale, gli accordi che completeranno il presente Trattato» (citato in Peterson, 1945, 533). Questa condizione, tuttavia, fu completamente disattesa. Due delle potenze firmatarie, la Svezia e il Portogallo, furono sùbito estromesse, mentre altre due, la Spagna e la stessa Francia, furono relegate a un ruolo secondario. Tutti gli altri stati europei furono semplicemente messi da parte (1945, 539).

Il 24 di dicembre, Alessandro chiese di discutere la questione polacca tramite una conferenza apposita. Il 9 di gennaio, Castlereagh propose formalmente di accogliere la Francia al tavolo negoziale, una richiesta che fu accettata dalle altre tre potenze. Si creò così la struttura a cinque che, poi, avrebbe dominato la scena politica durante tutte le successive fasi della contrattazione. Una volta inserito nella cerchia dei grandi, Talleyrand, con la tipica astuzia e versatilità, rinunziò a convocare le altre potenze estromesse, come prima aveva chiesto (1945, 541-542). Le decisioni vennero prese in modo esclusivo dalle cinque potenze, mentre agli stati minori venne solo offerto di ratificare l’esito degli accordi. Quanto alla libertà di cui essi godevano nell’esercizio di tale scelta, è emblematico il caso del sovrano di Sassonia. Egli dovette rinunziare a due quinti dei suoi

possedimenti in favore dei prussiani e «La sua approvazione […] fu assicurata limitando la sua libertà personale finché non avesse dato il consenso» (ibidem, 542).

Harry Kissinger ha dedicato un saggio e una ricca monografia al sistema del concerto. Essi si inseriscono nella riflessione che egli andava elaborando sui rapporti sovietico-americani, riflessione che poi avrebbe informato la sua attività di consigliere e poi di segretario di stato presso l’amministrazione Nixon. Al centro della sua analisi è il concetto di ordine internazionale legittimo, in contrapposizione agli ordini «rivoluzionari». Come tutti gli studiosi prima di Kenneth Waltz, Kissinger deduce le proprietà del sistema internazionale dalle caratteristiche interne degli attori che ne fanno parte. Un ordine legittimo non è un ordine privo di recriminazioni, un concerto di intenti perfetto e coeso. Piuttosto, esso è un sistema in cui tutti gli stati godono di una relativa sicurezza, sia per quanto riguarda l’interesse nazionale, sia nella sfera ideologica. Non assenza di conflitto, dunque, ma piuttosto un sistema in cui gli stati, dovendo protestare un diritto, preferiscano agire entro il framework dell’ordine dato anziché al di fuori di esso. E paradossalmente, una certa insicurezza e mancanza di soddisfazione degli attori è salutare: perché, quando uno solo potesse appagare tutti i propri interessi esso creerebbe, inevitabilmente, una radicale insoddisfazione presso i suoi rivali. Essi contesterebbero le fondamenta dell’ordine stabilito generando ora un sistema rivoluzionario (Kissinger, 1956, 264-265).

Quanto detto ci permette di gettare luce sul sistema creato dal Congresso di Vienna. Ridimensionando certa storiografia sul genio politico di Talleyrand (e.g. Ferrero, 1941), Kissinger individua le ragioni profonde del reinserimento francese nel consesso dei grandi. A Vienna le posizioni erano distanti: i prussiani guardavano alla Sassonia, l’Austria alla sua posizione in Germania, i russi alla Polonia, mentre l’Inghilterra voleva solo evitare che si formasse una nuova egemonia in Europa. Austriaci e inglesi, poi, avevano già raggiunto i loro obiettivi durante la guerra, e questo lasciava poco margine di manovra a russi e prussiani. Lo stallo politico che ne derivò acuì le tensioni tra le potenze, rendendo relativamente meno significativo il timore di una

revanche francese. È in questo contesto che Talleyrand poté esercitare il suo ruolo di mediazione e

favorire il compromesso generale. Essendo l’unica grande potenza isolata, la Francia poté intervenire e suggerire un raccordo diplomatico ai contendenti. Le proposte di Talleyrand, poi, apparivano relativamente disinteressate, e dunque più persuasive, perché i confini francesi erano già stati stabiliti dal trattato di Parigi. «La Francia prese a partecipare agli affari europei poiché essi non potevano essere regolati senza di essa» (1956, 268).

Carsten Holbraand ha proposto una vasta ricostruzione storica delle tradizioni teoriche che sono alla base della politica del «concerto». Seguendo la successiva evoluzione di ciascuna corrente, poi, egli ritiene di poter gettar luce sulle ideologie politiche europee che si sono susseguite fino alla

prima guerra mondiale e, in parte, fin nel XX secolo. L’autore distingue tra diverse varianti della politica di concerto: quella basata sul principio conservatore della legittimità dinastica; quella basata sulla dottrina dell’equilibrio di potenza; quella, infine, informata alle idee liberali e pacifiste. Di ciascuna corrente Holbraand traccia le principali caratteristiche e lo sviluppo in Gran Bretagna e nel mondo tedesco. Così, ad esempio, un Metternich e un Gentz rappresentano, nella variante tedesca, la visione conservatrice, mentre Ranke è un teorico dell’equilibrio di potenza. Oltremanica, la teoria dell’equilibrio si incarna in uomini come Castlereagh e Palmerston., mentre Gladstone è un esponente della visione progressista, e così via.

Da queste radici si dipanano le teorie politiche che domineranno le relazioni internazionali sino al 1914. In Gran Bretagna, il principio di indipendenza delle nazionalità e quello delle libertà politiche verranno opposti alla conservazione territoriale e al legittimismo dinastico, e porteranno alle politiche umanitarie e, poi, agli esperimenti di organizzazione sovranazionale. Viceversa, il principio del non intervento e quello dell’integrità dei confini statali si svilupperanno nel nazionalismo e, poi, nella politica imperialista. È uno strano ribaltamento dei ruoli: chi partiva da politiche di non intervento, e quindi contrarie alla repressione dei moti nazionali, finirà col favorire l’interventismo liberale; chi era favorevole all’interventismo, finirà con avocare una politica imperialista fuori dal Continente, nel relativo disinteresse delle cose europee (Holbraand, 1970, 202-204). Nel mondo tedesco, invece, «la tradizione dell’equilibrio di potenza si è estinta per progressiva trasformazione», generando le politiche imperialiste e «anti-europee» che porteranno alla prima guerra mondiale (1970, 105-107).

Secondo Richard Elrod, il sistema del concerto si fondava su tre principali «regole non scritte». Anzitutto, esso implicava la tutela politica delle grandi potenze su tutta l’Europa. Certamente, sacrificare talvolta gli interessi degli stati minori non rappresenta una novità nella pratica diplomatica. Ma col sistema del concerto si afferma, ora, una comunità d’interessi delle potenze alla guida dell’Europa: e questo è un elemento di forte originalità rispetto ai periodi precedenti (1976, 163-164). In secondo luogo, e come conseguenza del primo punto, ogni mutamento dell’assetto territoriale europeo doveva essere sottoposto alla sanzione dei grandi: «Le grandi potenze agendo di concerto determinavano i limiti accettabili e appropriati del cambiamento» (1976, 165). Il sostegno all’Impero ottomano, ad esempio, era essenziale per il buon funzionamento del sistema. Se la Porta si fosse disgregata, infatti, tra gli stati sarebbe iniziata una serrata lotta per la divisione delle spoglie (ibidem, 166). Infine, nessuna delle grandi potenze doveva essere umiliata. Un ampio sistema di «procedure semi-formali» venne messo in opera per evitare che una delle potenze potesse sentire che il proprio status non era rispettato. Questo permise al concerto di funzionare per unanimità anziché per imposizioni a maggioranza (ibidem, 167).

L’ascesa di Andropov e poi di M. Gorbačëv, con il processo di pacificazione politica tra le due superpotenze che poi pose fine alla guerra fredda, ha favorito una rinascita di studi sul concerto. I lavori che trattano questo argomento possono essere divisi, per semplicità, in tre grandi categorie. Alcuni studiosi, sia storici che politologi, cercano di elaborare concettualmente la nozione di concerto, e di definire cosa effettivamente essa abbia rappresentato nella politica internazionale. Entro questa categoria possiamo far ricadere, ad esempio, i contributi di Jervis (1985 e 1992), Schroeder (1986; 1989; 1992; 1993; 1994) e Miller (1994). Altri autori si servono del sistema del concerto come una sorta di «banco di prova» su cui testare la tenuta di particolari ipotesi politologiche: così Kagan (1997/98), e Rendall (2000 e 2006). Infine, molti si interrogano sulle prospettive del concerto nel nuovo mondo post guerra fredda. Basti citare Mueller (1989/90), Kupchan e Kupchan (1991), Zelikow (1992), Rosecrance (1992), Bell (1993), Leaver (1993), Miller (1994), Kegley e Raymond (1994) e Ikenberry (2001). Analizzare quest’ultima categoria di lavori esula dai nostri fini qui: ci concentreremo invece sulle prime due.

Secondo Robert Jervis, non è casuale che il concerto si affermi al termine di vasti sconvolgimenti politici nel sistema. Al termine di una grande guerra, infatti, due delle principali caratteristiche del sistema d’equilibrio vengono meno, favorendo l’instaurazione di relazioni cooperative tra gli stati. Anzitutto, le alleanze non sono più perfettamente flessibili, sia per i legami instaurati tra gli alleati, sia per lo status di «sorvegliato speciale» dell’aspirante egemone. In secondo luogo, dopo una grande guerra è probabile che i contendenti siano riluttanti a tornare presto in armi, poiché ora è tanto viva la memoria dei costi umani e materiali del conflitto. Il passaggio da un sistema d’equilibrio al sistema del concerto, dunque, scoraggia le dispute armate, mentre facilita la risoluzione pacifica delle controversie (Jervis, 1985, 60-62).

Un altro modo per affermare il medesimo concetto è considerare le variabili che incidono sul «dilemma della sicurezza». Tra queste, quattro assumono particolare rilevanza secondo Jervis. In primo luogo, il sistema del concerto altera la offense-defense bilance, rendendo l’aggressione relativamente meno vantaggiosa per gli stati. In secondo luogo, esso incide sul calcolo costi- benefici: i costi della defezione aumentano, perché si teme una revanche dell’egemone, mentre i benefici di cooperare paiono più grandi, proprio perché ciascuno è convinto di dover contenere l’egemone. Il timore di essere sfruttati scema, perché gli stati si sono rafforzati tramite la riorganizzazione territoriale; la stabilità della coalizione, poi, scoraggia anche il desiderio di sfruttare gli altri. Infine, i frequenti meeting tra le potenze, l’estensione dei negoziati a terze parti e l’uso dei trattati forniscono dei «dispositivi di controllo» che limitano la pratica dello sfruttamento (Jervis, 1985, 64-73).

Una terza variabile rilevante è l’aumentata «trasparenza» del sistema del concerto. Con questo termine si indica, nella letteratura dei regimi internazionali, la capacità degli stati di comprendere cosa gli altri stiano facendo. La frequente comunicazione, tramite il sistema degli incontri periodici, fornisce agli attori informazioni preziose sui propri partners. Questo non significa che la defezione non possa avvenire, almeno temporaneamente. Ma gli stati sanno quando e a quali condizioni è possibile che ciò accada, e capiscono quali contromisure adottare e come controllare la crisi (Jervis, 1985, 73). Infine, la cooperazione è più probabile quando si ha la relativa certezza che gli altri coopereranno. Se le preferenze degli attori sono mutate, e se ciascuno è consapevole che questo vale per gli altri oltre che per sé, ognuno riterrà probabile che gli altri cooperino. Dunque, in un sistema di concerto gli stati non avranno ragione di coltivare molti dei timori che innescano il dilemma della sicurezza (1985, 76).

Paul Schroeder è «[…] il principale storico diplomatico dell’età del Concerto» (Kagan, 1997, 2) e quello che più ha contribuito a plasmare la visione del concerto stesso come un mutamento nelle norme e nei princìpi condivisi dagli attori. Schroeder ha elaborato la sua tesi in diversi saggi, poi culminati nella pubblicazione della monumentale The Transformation of European Politics, una vasta illustrazione storica delle sue idee. Secondo Schroeder, la politica internazionale europea attraversa, tra il XVIII e il XIX secolo, un profondo cleavage che demarca nettamente i due periodi. Tre sono le principali caratteristiche che segnano questa svolta. Vediamo di riassumerle in estrema sintesi.

Anzitutto, non è vero che la pace di Vienna fosse un ritorno ai tradizionali princìpi dell’equilibrio di potenza, ristabiliti dopo il periodo dell’egemonia napoleonica. L’Austria e soprattutto la Prussia erano molto più deboli di stati come la Gran Bretagna, la Russia o anche la Francia. Il sistema assomiglia più a un condominio russo-britannico che a una pentarchia (Schroeder, 1992, 686-689). Gli accordi di pace del 1815, in effetti, derivarono da «[…] un mutuo consenso sulle norme e sulle regole, sul rispetto della legge e su di un generale equilibrio tra i vari attori in termini di diritti, sicurezza, status, prerogative, doveri e soddisfazione piuttosto che dal potere» (1992, 694). Abbandonando i princìpi e la pratica dell’equilibrio, e offrendo garanzie di sicurezza e diritti a tutti i contraenti, le potenze europee poterono inaugurare una nuova fase della politica internazionale, basata sulla cooperazione, e non sulla competizione serrata. Questa tesi, del resto, trova conferma nell’analisi delle fonti primarie. Certo, nella corrispondenza diplomatica e nei trattati i richiami al juste équilibre e ad altre metafore ispirate dalla teoria dell’equilibrio non mancano. Tuttavia, una lettura attenta suggerisce che esse si riferiscano più a un generale equilibrio politico dei diritti e della sicurezza che al mero bilanciamento delle forze (Schroeder, 1989).

Accanto al concerto, così interpretato, due altri elementi distinguono il sistema sorto a Vienna dalla politica di gabinetto del secolo XVIII. In primo luogo, la capacità di distinguere e isolare le dispute coloniali dagli affari europei. Nel XVIII secolo la politica marittima britannica era motivo di malcontento presso il Continente, come testimoniano le numerose guerre coloniali e i tentativi di neutralità armata dell’80 e poi del 1801. Dopo il Congresso di Vienna, il primato britannico, ancor più marcato, non fu oggetto di analoghe contestazioni, e le rivalità coloniali furono separate da quelle del Continente (Schroeder, 1986, 13-17). Infine, dopo il 1815 furono creati dei «corpi intermedi» che mediarono tra le sfere di influenza delle grandi potenze. Il Bund germanico, ad esempio, venne istituito con l’intento immediato di limitare l’influenza francese ma finì con l’esercitare una pluralità di funzioni. Esso tutelava la stessa Francia, che avrebbe temuto un potente stato tedesco a Est; riuniva, le diverse entità politiche tedesche preservandole sotto la garanzia dei contraenti; separava le sfere di influenza dei due maggiori stati, la Prussia e l’Austria; collegava, poi, parti d’Europa distanti come l’Italia (Istria, Tirolo), l’Olanda (Lussemburgo), la Danimarca (lo Holstein) e addirittura il mondo slavo (la Boemia e la Carinzia) (1986, 21-22).

Secondo la partizione di Schroeder, poi, i nuovi princìpi continueranno ad informare l’operato diplomatico durante tutto il XIX secolo. Non è vero che la guerra di Crimea abbia posto fine all’età

Documenti correlati