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Il rovesciamento delle alleanze, 1731-

Il sistema del rovesciamento è fondato su una struttura dei cleavages politici interdipendente e da una politica di distensione. La figura 1 illustra sinteticamente tale sistema:

Fig. 1. Il sistema del rovesciamento

A rappresenta la Gran Bretagna; D la Prussia; C la Francia; B l’Austria. Come nel caso dell’incatenamento, non tutte le potenze europee sono state considerate. Restano fuori dal nostro semplice schema a quattro la Russia zarista, la Spagna e il Piemonte. La Russia era in procinto di intervenire durante gli ultimi anni della guerra di successione austriaca e questa minaccia certo favorì la scelta dei contendenti di affrettare le trattative. Il Piemonte fu un alleato ora degli austriaci ora dei francesi sul teatro italiano mentre gli spagnoli furono alleati della Francia, cui li univa il legame dinastico di casa Borbone. Complessivamente, il ruolo di queste ultime due potenze è significativo ma non rilevante al fine di spiegare la dinamica del rovesciamento; il ruolo della Russia nel nostro periodo è invece secondario.

La Francia e la Gran Bretagna hanno una rivalità crescente a causa dei dissidi coloniali e dopo la loro breve alleanza, naufragata nel ’31, forti correnti in entrambi i paesi premono per la guerra. L’Austria è un nemico secolare dei francesi ma dopo l’invasione della Slesia da parte dei prussiani il centro della politica estera di Vienna è ricuperare la regione e riaffermare il controllo austriaco sugli stati tedeschi. La rivalità coi francesi nei Paesi Bassi e in Italia diviene meno significativa. I prussiani sono allineati ai francesi per la Gran parte delle guerre del nostro periodo, sebbene non manchino di defezionare quando si presenti loro l’opportunità. Essi hanno un dissidio secondario con gli inglesi sulla questione dello Hannover.

La dinamica considerata si può riassumere come segue. Durante le guerre di successione polacca e austriaca francesi e prussiani si contrappongono a inglesi e austriaci (ed eventualmente ai piemontesi, nel Nord d’Italia). La corona d’Austria sperimenta il fallimento del sistema della Barriera, l’impossibilità di difendere i Paesi Bassi e un generale malcontento verso l’alleanza

inglese; in Italia, essa perde possedimenti a favore degli spagnoli. La rivalità principale di Vienna, dopo l’invasione della Slesia, si concentra nel mondo tedesco, verso l’emergente Prussia di Federico. Gli inglesi, a loro volta, non sono in grado di difendere lo Hannover senza giungere almeno a un compromesso con i prussiani che li tuteli contro un’invasione diretta dell’elettorato. I francesi sono stati più volte abbandonati, anche in corso di guerra, da Federico, e la loro rivalità verso l’Austria appare meno decisiva rispetto al crescente conflitto per mare con gli inglesi.

Per tutelare i possedimenti tedeschi, gli inglesi stipulano un patto con Federico che rafforza i sospetti francesi circa l’inaffidabilità della Prussia. L’Austria, che ora non può più fare affidamento su Londra per ricuperare la Slesia, decide di sfruttare l’avvicinamento tra prussiani e inglesi per avvicinarsi a sua volta ai francesi (cui era stata ripetutamente offerta un’alleanza negli anni precedenti). I francesi e gli austriaci si legano dunque e si oppongono ai prussiani e agli inglesi. Ciascun membro delle contrapposte coalizioni ha cambiato il proprio partner e, in questa nuova combinazione, essi vanno alla guerra generale, nel ’56.

1) Il settecento: uno o molti?

In sintesi, possiamo individuare cinque principali interpretazioni del secolo di Kaunitz e di Pitt il vecchio:

1) gli statisti del XVIII secolo seguivano i precetti dell’equilibrio di potenza, e questo spiega perché esso conobbe solo guerre limitate, e condotte per obiettivi limitati;

2) gli statisti del XVIII secolo seguivano i precetti dell’equilibrio di potenza, e questo spiega perché esso fu un incessante susseguirsi di violente guerre;

3) gli statisti del XVIII secolo non seguivano i precetti dell’equilibrio di potenza, ma codici e convenzioni di comportamento, regole di condotta durante e dopo la guerra; questo spiega perché i conflitti furono essenzialmente limitati;

4) gli statisti del XVIII secolo aspiravano all’egemonia; l’equilibrio che occasionalmente ne risultò fu il sottoprodotto involontario di un conflitto per il dominio;

5) tra il XVIII e il XIX secolo è occorso un fondamentale mutamento nel modo di fare la guerra. Questo mutamento spiega la maggiore bellicosità settecentesca.

La prima e la seconda posizione adottano, come criterio esplicativo, il concetto di equilibrio, salvo poi darne interpretazioni diametralmente opposte (l’equilibrio come elemento moderatore; l’equilibrio come molla della competizione diplomatica); la terza e la quarta posizione rifiutano l’equilibrio come criterio esplicativo, ma vi sostituiscono spiegazioni antitetiche (moderazione

ideologica, da una parte; lotta per l’egemonia, dall’altra). La prima e la terza posizione giungono alla stessa conclusione (il settecento età di guerre limitate) ma per vie diverse, eppure sono avvertite come tendenzialmente compatibili e complementari, sicché vengono talvolta sostenute contemporaneamente dagli studiosi. Le posizioni seconda, quarta e quinta giungono pure alla medesima conclusione (il settecento età di guerre), e ancora per vie diverse, ma sono, di norma, avvertite come spiegazioni concorrenti dagli storici della diplomazia. Vediamo ora di illustrare, in estrema sintesi, ciascuna linea interpretativa.

La prima posizione è la più antica e consolidata: quella tradizionale nella storiografia diplomatica, e nella letteratura politologica di orientamento realista. Essa origina, in epoca moderna, almeno da Rohden (1939), e prosegue con i classici studi di Ludwig Dehio (1948, trad. ingl. 1963), Hans Morgenthau (1948, quarta ed. 1967), Edward Gulick (1955) e Inis Claude (1962). Il settecento viene visto come l’apoteosi del sistema di equilibrio. In altre epoche, l’equilibrio si manifesta come sfida egemonica, da una parte, e risposta collettiva dei contendenti volta a contenere le pretese dell’egemone. Non così il settecento. Qui, come al tempo della pace di Lodi, abbiamo una serie di unità politiche autonome, dotate forze approssimativamente paritetiche, che competono tra loro in maniera serrata per il potere. Ciascuno stato vuole evitare che gli altri si rafforzino tanto da minacciarlo; e ciascuno tenta di rafforzarsi tanto quanto può dato questo condizionamento ambientale. Il gioco che ne nasce è una complessa rete di alleanze e contro-alleanze, sempre in procinto di rompersi a mano a mano che i mutevoli rapporti di forza cambiano l’interesse degli attori rendendo più proficuo defezionare e cambiare fronte. E così, l’equilibrio si misura non nella formazione di una vasta coalizione antiegemonica, ma nel minuzioso calcolo dei rapporti di potere, e nei movimenti repentini e spregiudicati vòlti a ristabilire la bilancia strategica tra le opposte coalizioni.37 Di qui, poi, quel carattere cinico, calcolatore e disincantato, tanto spesso preso a modello dalla scuola realista per contrapporlo alle forti passioni ideologiche della guerra fredda. Osserva Hans Morgenthau: «Le numerose coalizioni che si susseguirono nel periodo che va dalla pace di Utrecht del 1713 alla prima partizione della Polonia del 1772 tentavano tutte di mantenere l’equilibrio che la pace di Utrecht aveva stabilito, e che il declino del potere svedese, così come l’ascesa della forza prussiana, russa e inglese tendevano a disturbare. I frequenti cambi di allineamento, anche quando la guerra era ancora in corso, hanno stupito gli storici, e hanno fatto

37 Quanto all’interpretazione di questa rete di alleanze e contro-alleanze, diremo oltre. Per ora si noti che tutti gli storici menzionati avvertono, per il XVIII secolo, una differenza rispetto alle sfide egemoniche dei secoli precedenti e successivi, senza peraltro arrivare mai a trarre una lezione generale dalla loro narrazione. Così, persino Ludwig Dehio deve ammettere, in un paragrafo di raccordo, ma tuttavia rivelatore, che il settecento non è ospite del tutto gradito in uno studio sulle sfide egemoniche: «Nel complesso, comunque, il periodo che va da Luigi XIV a Napoleone è pieno di eventi così complessi e fluttuanti quanto quelli che ebbero luogo nel periodo tra la sconfitta dell’Armada e la battaglia di La Hogue» (1948, trad. ingl. 1963, 103). E dopo questa concessione, la narrazione riprende.

apparire il diciottesimo secolo come particolarmente privo di princìpi e scevro di considerazioni morali […]». Ma proprio questa assenza di princìpi rappresenta, per Morgenthau, l’origine della moderazione ideologica settecentesca: «I prìncipi si facevano guidare dall’equilibrio di potere nel perseguimento dei propri interessi. Così facendo, era inevitabile che essi cambiassero schieramenti e ne formassero dei nuovi quando pareva loro che l’equilibrio di potere fosse disturbato e che il riallineamento delle forze fosse necessario per ristabilirlo. In quel periodo, infatti, la politica estera era sport di sovrani, da non essere preso più seriamente che i giochi e l’azzardo, giocato per obiettivi strettamente limitati e recisamente privo di ogni principio morale d’ogni genere» (1948, quarta ed. 1967, 182-184). L’amoralità, madre del pragmatismo, è fonte di limiti nella condotta; quando la politica si copre sotto spoglie morali diviene feroce.

Eppure, non tutti dànno un giudizio così benevolo del secolo. Uno storico di vaglia come Hassall osserva che: «La diplomazia era corrotta, e l’immoralità internazionale era universale. I princìpi di Federico il Grande e di Caterina II erano praticati da altri governi cui mancava la loro audacia. L’invasione della Slesia, la partizione della Polonia, il tentato smembramento della Turchia e della Svezia, e il progetto di smembramento della Prussia sono ben note illustrazioni del disprezzo per i diritti stabiliti, e della determinazione di potenti stati d’arricchirsi a spese dei loro deboli vicini» (1896, 2). Questa opinione è condivisa, pur con diverse sfumature, da uno storico contemporaneo come Paul Schroeder. Il numero dei morti in battaglia come rapporto della popolazione europea è, per il XVIII secolo, di sette od otto volte superiore a quello del diciannovesimo secolo (1986, 11). I princìpi dell’equilibrio, nel settecento, hanno spinto gli statisti a una spregiudicata lotta militare per il potere. Il sistema d’equilibrio era un’età di incessanti guerre e di alti costi umani; rinunziando a quei princìpi, nella pratica se non nel linguaggio di gabinetto, l’Europa ha dato seguito a circa un secolo di relazioni pacifiche (Schroeder ha scritto diffusamente su questi temi; la migliore illustrazione delle sue idee è la vasta monografia del 1994).

Ma il XVIII secolo è anche il secolo dell’onore e delle guerre condotte secondo regole cavalleresche: «Per i benevoli despoti, la guerra, così come la pace, poteva essere pianificata. L’arte della guerra prescriveva elaborate regole di strategia, tecniche d’assedio, capitolazioni, onore militare, trattamento dei prigionieri e diritti dei civili» (Robson, 1957, 165; argomenti ribattuti a punto su punto in Black, 2000, 50-53; critiche simili in Anderson, 1961, terza ed. 1987, 212-213). Questo complesso sistema di regole, e le pratiche che ne conseguirono, sono spesso poste a contrasto con la brutalità delle guerre di religione, e con il fervore ideologico del tempo rivoluzionario. Il XVIII secolo è così l’epoca della guerra limitata perché gli statisti seguivano ideologie moderate; quando la moderazione ideologica andò persa, con la rivoluzione, anche la moderazione sul campo di battaglia venne meno.

James Sofka obietta che la prassi del XVIII secolo non può in alcun modo considerarsi ispirata a criteri d’equilibrio; essa riflette piuttosto la cruda lotta per l’egemonia delle potenze europee38. In primo luogo, nel settecento manca un’idea condivisa di status quo che limiti e circoscriva le ambizioni delle grandi potenze. In secondo luogo, non paiono esistere meccanismi interni che limitino e frenino gli uomini di stato. L’equilibrio di potenza impartisce una lezione di moderazione, e gli statisti, seguendo i suoi precetti, evitano di forzare la mano nel gioco diplomatico. Ma gli uomini politici del XVIII secolo non sembrano farsi scrupolo a «[…] predisporre ingegnosi e spietati tentativi di smembrare, spopolare e distruggere i rivali senza alcun riguardo alla fedeltà verso un insieme di regole dottrinali» (2001, 151). Un approssimativo equilibrio delle forze è esistito nella metà degli anni ’30, nei primi ’50, e nella metà degli anni ’80, ma ciò non toglie che la politica delle maggiori potenze fosse egemonica: l’equilibrio di potere è l’effetto involontario dell’interazione tra le opposte aspirazioni di dominio (2001, 162)39.

L’ultima visione della politica internazionale settecentesca pone l’accento interamente sul modo di fare la guerra. Il passaggio dalla guerra di logoramento alla guerra di annichilimento ha coinvolto la diplomazia oltre che i soldati. Se nel XVIII secolo era arduo ottenere una vittoria decisiva sul campo, evidentemente ogni conquista era frutto di una vittoria parziale, e non della disfatta completa degli avversari. Così, il diplomatico era costantemente tentato di cercare una nuova prova di forza per ribaltare il precedente, provvisorio verdetto. Quando, dal periodo napoleonico in poi, le vittorie diventano nette, non c’è più motivo di tornare presto alle armi. Il risultato del conflitto è chiaro, e solo dopo lunghi anni di riarmo si può tentare di nuovo il confronto. Così, nel diciottesimo secolo si alternano battaglie equilibrate e paci precarie; nel diciannovesimo, battaglie decisive e paci più lunghe (Blainey, 1977, 118; questo punto, si ricorderà, verrà ripreso da diversi critici di Schroeder, come Scott, 1994, 677-678 e, soprattutto, Blanning, 1994, 713).

La prima posizione esaminata (l’equilibrio come elemento moderatore) si accompagna spesso alla terza (i codici di condotta come elemento moderatore). Poiché partivano da precetti che imponevano il restraint, non stupisce se gli statisti codificarono un insieme di norme che andavano nella stessa direzione regolando aspetti più particolari della disciplina marziale. Questo connubio si trova, ad esempio, in Robson (1957, 166 e segg.). Le posizioni seconda, quarta e quinta sono, in genere, considerate contraddittorie. La seconda posizione parte dall’equilibrio e arriva spiegare, da

38 Schroeder, si ricorderà, ritiene che Russia e Gran Bretagna abbiano goduto di una posizione di egemonia nel periodo post-1815 e che la retorica dell’equilibrio celasse in realtà le loro aspirazioni di dominio (1992, 690-693). Hassall ritiene di poter descrivere la lotta per il potere settecentesco in termini di equilibrio di potere, sebbene non attribuisca alcuna moderazione agli statisti di quel tempo. In ultima analisi, le differenze tra Hassall e Sofka sono più terminologiche che sostanziali.

39 Poca sorpresa per i teorici delle relazioni internazionali, che da trent’anni vanno ripetendo, con Waltz (1979), che il comportamento e le aspirazioni degli attori non vanno confusi con gli esiti delle loro interazioni. Così, se lo storico di professione può spesso rinfacciare al politologo partizioni semplicistiche e poca cura per il particolare, pare che il

esso, l’origine della violenza internazionale. La quarta posizione nega che l’equilibrio sia applicabile alle pratiche degli statisti del XVIII, i quali cercavano, di norma, l’egemonia. L’equilibrio, ora, non è un insieme di precetti che guidino l’azione, ma un esito involontario di azioni altrimenti concepite. La quinta posizione toglie alla tesi di Schroeder buona parte del suo carattere innovativo, perché legge il mutamento che egli riconduce tutto a fattori socio-istituzionali tramite le lenti della storia militare. Ma se si ammette che fattori ideali e materiali abbiano agito di concerto per causare il mutamento dal XVIII al XIX secolo, la tesi di fondo di Schroeder diventa molto più sfumata (e così meno saliente). Infine, la prima e la seconda tesi sono contrapposte interpretazioni dell’equilibrio: per Schroeder, esso è retorica e mistificazione utile a nascondere le aspirazioni di dominio; per la storiografia tradizionale, esso è il principio-cardine di una politica estera volta alla moderazione (al punto che Sofka sente l’esigenza di ribadire che non erano princìpi di moderazione a guidare gli statisti del XVIII secolo). Ritorna così, per altra via, la vecchia dicotomia tra l’elemento prescrittivo dell’equilibrio di potere e la sua connotazione ideologica (Haas, 1953).

2) Crisi delle finanze, commercio estero e organizzazione militare

La situazione finanziaria dell’Europa settecentesca può esser vista, con certo anacronismo, come un periodo di transizione. La crisi dell’erario che tanta parte avrà nello sconvolgimento generale della rivoluzione è già un dato di fatto, e i governi sono insolventi dinnanzi gli oneri di guerra. Le obbligazioni sono il viatico principale per finanziare il debito, mentre la razionalizzazione delle imposte di epoca napoleonica è ancora lontana. Dal punto di vista commerciale, i legami con il nuovo mondo e con l’India si infittiscono, causando una rivalità prima diplomatica, e poi militare, tra la Francia e la Gran Bretagna, che culminerà nella guerra dei sette anni. In agricoltura, si presenta di nuovo una tendenziale bipartizione tra le potenze di mare, che sono già beneficiarie di metodi di coltivazione avanzati e altamente produttivi, e zone maggiormente arretrate come l’Europa centro-orientale o alcun regioni dell’Europa mediterranea. Nelle armi, intanto, gli uomini di stato si prefiggono obiettivi limitati, e spiegano truppe di professionisti strutturati in organizzazioni fortemente centralizzate, e impegnati in una guerra d’attrito tendenzialmente difensiva: così, almeno, fino alla guerra dei sette anni. Diamo brevi cenni sul contesto economico e militare di quegli anni.

Dal punto di vista finanziario, i paesi europei si possono distinguere tra potenze continentali, come Francia, principati tedeschi, e Spagna, da una parte, e potenze a vocazione marittima come

l’Olanda e la Gran Bretagna, dall’altra. Delle prime, si può certo dire che avessero più sudditi e più terre, e dunque maggiori entrate per l’erario; delle seconde si noti che esse sono in grado di mobilitare, in tempo di guerra, risorse maggiori, a dispetto della minore estensione dei loro possedimenti. Così, i britannici non finanziano solo un ridotto esercito di terra, le cui dimensioni sono però destinate a crescere molto in caso di conflitto, ma anche le forze coloniali e gli alleati piccoli e grandi che dipendono dalla corona inglese per pagare il soldo alle truppe: Portogallo, Piemonte, Danimarca, Austria, Prussia, Sassonia e gli altri principati tedeschi minori che, nell’intendimento inglese, andavano tenuti ben lontano da Parigi (Black, 1991, 144).

La maggiore razionalità del sistema finanziario inglese (e olandese) viene individuata, in Europa, nell’istituzione della banca centrale. Essa diverrà presto oggetto di analoghi esperimenti sul continente, come la Banque Géneral di Law, la Bank der Stadt Wien austriaca, la Courantbank danese, la Königlichte Giro- und Lehnbank prussiana (Anderson, 1961, terza ed. 1987, 112). Sul Continente comunque l’apprendistato è poco fruttuoso: i francesi ad esempio andranno incontro a tre crisi finanziarie nel corso di settant’anni, culminate nella rivoluzione. La credibilità delle istituzioni inglesi dinnanzi l’onere di rifondere il debito riposa soprattutto sul concetto di debito

pubblico. Quasi un’ovvietà per il contemporaneo, essa era nozione fortemente innovativa in

un’epoca in cui la finanza era di amministrazione regia, e il debito contratto era considerato onere privato del sovrano. A dispetto della continuità dinastica dei Borbone molti, da Saint-Simon a Montesquieu, ritenevano che fosse saggio ripudiare gran parte del debito contratto durante le guerre di Luigi XIV come debito privato del Re Sole. In quegli stessi anni, nella Gran Bretagna che era stata scossa dalle rivoluzioni e dalle fazioni dinastiche, Walpole poteva varare un piano di tassi agevolati e di dilazione dei pagamenti per rifondere il debito accumulato (Roberts, 1947, 80-83; dettagli sulla politica di risanamento di Walpole in Temperley, 1906, 45 e segg.). In Francia, bisognerà aspettare il 1774 perché Luigi XVI, asceso al trono, si impegni a onorare i debiti della corona francese (Sargent e Valde, 1995, 475).

Sbaglierebbe chi concludesse, sulla base di quanto detto, che la Gran Bretagna non subisca il peso del debito. Esso aumenta, tra il 1691 e il 1711, di oltre sette volte, mentre tra il 1720 e il 1756 subisce un incremento di quasi il 50% (Black, 1991, 144 e 90). Ma vi sono due differenze fondamentali rispetto alla Francia. Anzitutto, la fiducia del pubblico è molto maggiore, e la Gran Bretagna può ricorrere al prestito a tassi molto inferiori rispetto alla sua controparte continentale, un dato fondamentale in tempo di guerra (Anderson, 1961, terza ed. 1987, 108); in secondo luogo, la politica fiscale inglese è più trasparente e, dunque, tendenzialmente meno osteggiata dalla popolazione. La visione tradizionale che la politica fiscale francese fosse grandemente iniqua (e.g. Roberts, 1947, 90) non trova conferma nella letteratura recente. Piuttosto, la differenza tra la

Francia e la Gran Bretagna va individuata nella diversa accountability delle istituzioni pubbliche. Dove ogni passaggio della politica fiscale è sottoposto al vaglio parlamentare, e gli interessi delle classi commerciali sono debitamente considerati, l’opposizione alla collazione delle imposte sarà minore; dove invece l’espressione pubblica degli interessi commerciali è pressoché assente, è tanto più probabile che la politica di risanamento fiscale venga avvertita come fortemente iniqua (una breve sintesi del dibattito in Brewer, 1989, 130-131).

La forza del commercio inglese è tradizionalmente associata alle colonie oltremare. Nel 1720, la Gran Bretagna esporta beni per un valore di circa 8 milioni di sterline; alla fine della guerra dei sette anni, nel 1763, le esportazioni raggiungono i 15 milioni. Tra il 1702 e il 1764, le navi inglesi

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