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etologo della guerra

Nel documento GUERRA E PACE (pagine 118-123)

Irenäus Eibl-Eibesfeldt, olio su tela, 80 x 100 cm di

Janet Brooks Gerloff (Fonte: wikipedia).

(oltre che giuridico, in realtà essendo in origine proprio il diritto il mio primo campo di formazione universitaria); nonché L’uomo a rischio (2), anche molto interessante per la medesima materia.

Fu molto cortese con me, e ci ripromettemmo d’incontrarci ancora, anche per-ché mi disse di possedere una casa alle Cinque Terre (non ricordo precisamente in quale paese), quindi non lontana dalla mia destinazione di servizio di Genova; in-contro che purtroppo non sarebbe più avvenuto.

Nato a Vienna nel 1928 (la madre, Maria von Hauninger, era una stimata storica dell’arte), trascorse l’infanzia in un villaggio del Land Niederösterreich (Bassa Austria;

fra l’altro, terra di origine di mia Madre, che era di Baden bei Wien). Poi la sua famiglia, nel 1939, si trasferì definitivamente a Vienna, dove più tardi Irenäus avrebbe studiato biologia presso quella Università, dedicandosi principalmente alla zoologia e alla bota-nica. Le sue ricerche lo porteranno più tardi a effettuare campagne di studi in varie parti del mondo, come nei Caraibi, e alle Galapagos con Hans Hass, il celebre pioniere del-l’esplorazione e della fotografia subacquee, anch’egli viennese. Poi ancora in varie parti dell’Africa, del Sudamerica e dell’Estremo Oriente.

Allievo del fondatore dell’etologia, il grande Konrad Lorenz (3), fu protagonista della Max-Planck-Forschungstelle di Buldern, che sarebbe poi divenuta il Max-Planck-Institut per la psicologia del comportamento con sede a Seewiesen, in Baviera, del quale è filiazione il Dipartimento di etologia umana con sede ad Andechs, sempre in Baviera.

Dall’insegnamento di Lorenz, zoo-etologo, Eibl-Eibesfeldt prese le mosse per spostarsi sullo studio dei comporta-menti dell’uomo: egli può senz’altro dirsi, dunque, il fondatore dell’etologia umana. Il suo contributo a questo nuovo campo d’indagine è rappresentato soprattutto da Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento (4).

Ma quanto penso (e spero) che possa interessare i lettori della Rivista Marittima, è la sua trattazione del fenomeno della guerra; ed è per questo che ne parlo in questo saggio.

Uscito per la prima volta nel 1979 a Londra, presso Thames & Hudson, con il titolo The Biology of Peace and War, la sua opera fondamentale sul tema della guerra è stata edita nella (qui già citata) traduzione italiana di Giuseppe Longo da Boringhieri nel 1983, col titolo Etologia della Guerra.

In principio fu Bronislaw Malinovski (5)… Le sue campagne effettuate dal 1915 al 1918 alle isole Trobriand, un ar-cipelago corallino al largo di Papua- Nuova Guinea abitato da una comunità primitiva e isolata — studiando la quale poté trarre preziosi insegnamenti su comportamenti da ritenere connaturati all’essere umano

— sono un punto di riferimento imprescindibile per tutti gli antropologi successivi; e anche Eibl-Eibesfeldt ne fa spesso richiami.

Ma l’etologia umana fa un passo ulteriore rispetto all’antropologia culturale:

si propone di studiare i comportamenti dell’uomo avvalendosi non soltanto di quanto indotto dalla cultura e dalla società (e in questo si apparenta, penso, alla so-ciologia), ma anche di quanto invece l’uomo deve alla sua biologia e neurologia:

oggi si vanno sempre più affermando le cc.dd. «scienze cognitive», per esempio la neuroetica. Ma, tanto per usare un’espressione di moda, comunque eloquente, di-ciamo: a quanto è contenuto nel nostro DNA.

Dunque, la fenomenologia esaminata da Eibl-Eibesfeldt nella ricerca delle cause del comportamento segue sempre questo doppio binario: eredità biologica (o filogenetica, quindi connaturata e autonomamente evolutasi) e induzione o adat-tamento culturale.

Avvalendosi della lezione del suo grande maestro Lorenz, anche per esaminare

l’aggressività umana Eibl-Eibesfeldt mette a frutto spesso le esperienze acquisite riguardo al comportamento degli animali, e le rispettive analisi occupano buona parte dei suoi libri; ma dati i limiti di spazio imposti al presente articolo preferisco «aggredire» (et pour cause) l’argomento partendo direttamente dall’uomo.

E a tal proposito neanche si può prescindere dal ricordare un altro grande, Erich Fromm, filosofo e psicanalista, e la sua Anatomia della distruttività umana (6). Egli, attraverso l’analisi dei comportamenti svolta nella sua corposa opera, giunge ad affermare che il concetto di distruttività propria dell’essere umano (il c.d. «istinto sadico») andrebbe liberato da fondamenti ritenuti assoluti cioè innati, ma andrebbe invece sempre ricondotto esclusivamente a influssi culturali, convenzionali, politici, o più in generale storico-sociali. E nel far ciò accenna anche criticamente (7) a un vecchio lavoro proprio di Eibl-Eibesfeldt, Amore e odio (8), nel quale il discepolo di Lorenz, come del resto altri stu-diosi, ancora sosteneva che l’aggressività umana è innata, cioè scevra da influenze culturali. Però Eibl-Eibesfeldt ha poi anch’egli condannato il cosiddetto «innatismo», e nella più recente opera cui principalmente fece riferimento e sopra citata, Etologia della Guerra, effettua una felice sintesi delle due correnti, quella che pone l’accento sull’ag-gressività innata nell’uomo, e quella che valorizza l’effetto degl’influssi socioculturali.

Sulle leggi funzionali dell’evoluzione filogenetica e culturale egli spiega in dettaglio come la seconda, sotto la spinta di pressioni selettive, copi l’evoluzione biologica a un livello più elevato della spirale evolutiva. Le culture si isolano le une dalle altre come se i propri rispettivi adepti appartenessero a specie diverse, e quindi si adattano a nicchie differenti. In conseguenza, i membri di un gruppo si considerano uomini, mentre tutti gli altri per loro sa-rebbero non-uomini o al massimo uomini di una specie inferiore. Questo atteggiamento dipende da preadattamenti biologici, e soprattutto dalla nostra tendenza innata a rifiutare gli estranei, il che porta alla delimitazione del gruppo, la cui identità è garantita dall’aggressività: proprio grazie a essa il gruppo, tra l’altro, si assicura un territorio, da di-fendere collettivamente contro gl’intrusi.

Questa fenomenologia, tipica di gruppi numericamente ridotti e primitivi, a ben pensarci mi pare si possa ritenere sopravvissuta anche nelle grandi guerre degli uomini evoluti, fino al giorno d’oggi. I nemici sono sempre degli Unter-menschen, esseri inferiori. In ciò l’umano non si distingue poi tanto, per esempio, dagli scimpanzé, se non per l’adozione delle armi, che gli facilitano il compito di uccidere; e furono (e sono) proprio le armi, tecnologicamente sempre più affinate e quindi letali, a costituire fattore decisivo al servizio dell’aggressività. Ciò è tanto più vero per quelle che con-sentono di colpire a distanza

conget-ture, non suffragate da evidenze

le popolazioni erano esigue; ma il fatto di essere composte di cacciatori e raccoglitori faceva sì che avessero bisogno di territori vastissimi su cui spostarsi, il che le portava fatalmente a scontrarsi tra loro. In sostanza, la cosiddetta «so-luzione dei figli dei fiori» evocata dagli hippies non avrebbe alcun fondamento.

Dunque, esisterebbero programmi innati che ci spingerebbero alla guerra? Sorprendentemente il Nostro da ul-timo propende per una risposta negativa. L’aggressione collettiva, strategicamente pianificata, non è scritta nel nostro DNA; ma con esso ha a che fare, nel senso che ne è il tramite culturale.

Nella guerra entrano infatti in gioco adattamenti filogenetici. Per esempio, la propaganda tipica nel tempo di preparazione a una guerra fa pesantemente gioco sulla tendenza — questa sì, innata — a difendere la famiglia. Il fatto è che siamo estremamente vulnerabili alle manovre d’indottrinamento e di manipolazione grazie all’impiego, appunto, di meccanismi sociali di tipo culturale.

Il coinvolgimento emotivo indotto dalla propaganda artatamente gestita a livello politico, fa sì che in noi si allarghi il sentimento di difesa dei familiari a quella dei componenti del gruppo, sempre più esteso fin a comprendervi tutt’i compatrioti (che, ricordiamolo, hanno un’origine casuale e variano nel tempo: duecento anni or sono i Napoletani non erano certo compatrioti dei Romani o dei Piemontesi!), con conseguente discriminazione e intolleranza verso

«gli altri», sentimenti i quali sfociano ineluttabilmente in atteggiamenti di esclusione e inimicizia. La predisposizione alla territorialità — il «Sacro Suolo della Patria»! — è un’eredità arcaica ma che tuttora ci è cara; e la predisposizione ereditaria al comportamento agonistico (anche se non ancora guerresco) pur ha un ruolo notevole nello scatenamento di una guerra. L’aggressività viene esaltata proprio dalla propaganda, e le predisposizioni che la inibirebbero vengono represse. Pure, nella nostra struttura motivazionale resistono certe predisposizioni che fanno intravvedere un’evolu-zione verso la pace. Però si direbbe che esse vengano sempre più obliterate dalla sovrappopolaun’evolu-zione mondiale, che rende angusta la Terra, come aveva già sottolineato, fra altri, Quincy Wright (9).

Essere consapevoli di questa forza scatenante non basta, beninteso, a esorcizzare la guerra, presentata come male, crimine o degenerazione patologica. Le numerosissime pur nobili iniziative intese a tale scopo e a far trionfare per sempre la pace impediscono di rendersi conto di un fatto a primo acchito difficilmente accettabile: e cioè che le guerre assolvono precise funzioni; cioè servono comunque a qualcosa. Il tenerlo ben a mente è imprescindibile per tentare di avviarsi concretamente sul sentiero della pace. Se infatti la guerra la si vuole veramente esorcizzare, più che condannarla sic et simpliciter, bisogna escogitare dei modi per conseguire i risultati, che s’intendevano ottenere scatenando la guerra, scongiurando l’effusione del sangue.

Nella letteratura antropologica si rinvengono varie descrizioni di conflitti e delle relative soluzioni: la loro notevole somiglianza strutturale costituirebbe una conferma di come, già a livelli culturali molto bassi, l’uomo abbia tentato di

pervenire a soluzioni incruente dei conflitti. Si tratta di regole sviluppate, appunto, per via culturale, che tuttavia s’in-seriscono nell’eredità preesistente e consolidata. Ogni nuova invenzione nella tecnica delle armi, così come ogni svi-luppo sociale, costringe le convenzioni culturali a riadattarsi.

Nel Basso Medioevo, dopo l’invenzione delle armi da fuoco, il cerimoniale del combattimento cavalleresco perse ogni senso (10). Le nuove armi, che violavano le norme cavalleresche, furono disprezzate, e i cavalieri avrebbero voluto bandirle, perché per loro la guerra era un gioco, che si sarebbe dovuto svolgere secondo regole precise. Le armi da fuoco, con le quali chiunque poteva aprire un combattimento da posizioni coperte e violando il codice della cortesia sviluppatosi nel corso di alcuni secoli, apparivano detestabili. Lutero tuonava contro i moschetti e gli obici, che chiamava opere del demonio, poiché contro i proiettili non valevano né la forza né il coraggio. Ma il combattimento si è adattato a esse, però non si è riusciti a ritualizzare lo scontro in sé, pur se esistono regole accettate (che vietano, per esempio, le pallottole dum-dum) (11).

E intanto sono apparse altre armi sempre più spaventose, fino all’arma nucleare, l’arma assoluta. Ci si è accordati per non usarne certune (gas asfissianti), altre si cerca di vietarle, altre gli equilibri delle forze le fanno tenere ben cu-stodite negli arsenali. Però queste inibizioni fanno molta fatica ad affermarsi.

Esemplare la vicenda del napalm: quando Theodor Tapper, un medico, nel 1969 protestò contro il suo impiego per l’atrocità dei danni fisici che provoca, urtò contro un muro. Egli aveva esortato gli azionisti della Dow Chemical Company a negare il consenso all’ulteriore produzione di esso, mostrando diapositive di vittime della guerra del Viet-nam. Il presidente del consiglio di amministrazione respinse la proposta; quando lesse una lettera proveniente da un soldato americano operante in Vietnam del Sud, nella quale questi esprimeva apprezzamento per il napalm, scroscia-rono gli applausi degli azionisti (12).

Ma vi deve pur essere qualche modo per esorcizzare la guerra, almeno in via di tentativi. Eibl-Eibesfeldt ritiene, per esempio, che sarebbe necessario creare un diritto internazionale ricco e articolato molto più di quanto lo sia oggi, piuttosto com’è il diritto interno dei singoli Stati, e che riesca a far sbiadire, fino a cancellarlo, il diritto innato all’au-todifesa consacrato nell’articolo 51 della Carta della Nazioni Unite. Ma ovviamente questo vagheggiato sistema giu-ridico presupporrebbe una ONU veramente accreditata e autorevole, che disponesse di propri organi istituzionali e forze permanenti che potessero prescindere dalla confluenza delle volontà dei singoli Stati, e specialmente da quella dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Ma temo che siamo ancora lontani da un siffatto traguardo…

Eibl-Eibesfeldt, con il quale sono rimasto in corrispondenza fin all’ultimo, se n’è andato il 2 giugno 2018.

NOTE

(1) Torino, Boringhieri, 1983.

(2) Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

(3) Su Lorenz si può leggere il mio articolo «Salomone aveva due anelli …» apparso nel Notiziario della Guardia Costiera del dicembre 2012.

(4) Torino, Bollati Boringhieri, 2001.

(5) Su di lui e sulla sua vita avventurosa vedasi il bell’articolo «I selvaggi smisero di essere selvaggi», La Lettura del 2 agosto 2015. Sua opera fondamentale è Argonauts of the Western Pacific, Routledge & Kegan, 1922; in italiano vi è la recente edizione Argonauti del Pacifico Occi-dentale, Bollati Boringhieri, 2004.

(6) In originale, The Anatomy of Human Destructiveness, traduzione di Silvia Stefani. La mia copia è Oscar Saggi Mondadori 1978, che si fregia di una copertina molto appropriata che riproduce il particolare del quadro di Roy Lichtenstein: Okay, Hot Shot, Okay (1963), in cui si vede il volto contratto di un pilota d’aereo in piena fase di attacco.

(7) Pag. 18.

(8) Adelphi, 1980; in originale, Liebe und Haß – Zur Geschichte elementarer Verhaltensweisen, Piper, 1970.

(9) Vedasi Il mio articolo citato in nota (5).

(10) Vedasi in proposito: Andreatta F., Potere militare e arte della guerra – I, Trento: 2015, Cap. III. Il libro è stato da me recensito sul fascicolo di giugno 2016 della Rivista Marittima.

(11) Convenzione dell’Aia del 1899 e Convenzione di Ginevra del 1929.

(12) Episodio riferito dalla autorevole Süddeutsche Zeitung del 22 agosto 1974.

G

l’intellettuali dei Paesi colonialisti — per supponenza, ignoranza o presunzione — mai avrebbero immaginato che i popoli dell’Africa subsahariana potessero vantare fior di pensatori, che alla profondità delle loro idee accoppias-sero un’originalità e una ricchezza da far invidia.

Ma negli ultimi anni Trenta del secolo scorso un france-scano belga, il Padre Frans Tempels (in religione: Placide) (1), inviato in missione nell’allora Congo Belga, comincia a pubblicare sul giornale Essor du Congo vari articoli sulla cul-tura bantu, tra l’altro spesso criticando aspramente l’ammi-nistrazione belga. Nel 1946, rientrato temporaneamente in patria, rielabora i suoi scritti nel libro in lingua fiamminga Bantoe-filosofie (2), che apre orizzonti inaspettati sulla spi-ritualità e antropologia culturale africana.

Bandiera del Mozambico.

Rappresentazione pittorica del Mozambico (Fonte: wikipedia).

BRAZÃO

Nel documento GUERRA E PACE (pagine 118-123)