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Toward a warless world?

Nel documento GUERRA E PACE (pagine 62-69)

H

o avuto il primo incontro con il pensiero di Quincy Wright nella primavera del 1977, mentre preparavo il mio articolo di esordio per la Rivista Marittima, dal titolo «Recenti sviluppi nella pratica e nelle dottrine del blocco, poi apparso sul fascicolo di Luglio-Agosto di quell’anno».

Mi colpì l’originalità — o piuttosto il coraggio — di Wright il quale, a proposito della quarantine dichiarata dagli Stati Uniti contro Cuba nella crisi dei missili sovietici del 1962, unico fra gli scrittori americani si era schierato contro la legittimità dell’iniziativa dei Kennedy (John F., Presidente, e suo fratello Robert F., Attorney General, cioè Ministro della giustizia). A quegli eventi fu dedicato nel 1963 un fascicolo monografico dell’autorevole American Journal of International Law, nel quale tutt’i contributori — il fior fiore dei giusinternazionalisti statunitensi — si pronunciarono a sostegno dell’azione del Governo, a eccezione, appunto, di Wright, che la condannò con dovizia di argomentazioni.

L’impressione “spiazzante” che ne subii m’indusse ad approfondire la conoscenza dell’opera di questo Autore, in particolare acquistando il suo lavoro credo più importante (almeno, per le materie che m’interessano) — direi: ci-clopico — dal titolo A Study of War (1), che mi procurai nell’edizione seconda, quella del 1965, che rispetto alla prima del ’42 contiene anche l’importante appendice «A Commentary on War since 1942».

Dunque, in origine un giurista. Ma nella sua opera citata, anche grazie alla collaborazione dello straordinario team di esperti di varie discipline coinvolti nella ricerca (perciò nel titolo ho aggiunto al suo nome la sigla commerciale

«& Co», che però non suoni irriverente), lo studio del fenomeno bellico è affrontato da vari punti di vista, direi da tutti i punti di vista, tanto che il risultato è veramente una panoramica tous azimuts.

Però sia chiaro: Wright e i suoi non si sono affatto limitati ad affastellare informazioni — ben note o rare, semplici o estremamente complesse — sul fenomeno bellico: hanno architettato una teoria basica della guerra.

Sintetizzando al massimo e in forma semplificata, si può dire ch’essi individuano quattro fondamentali fattori costi-tuenti un modello delle origini della guerra, che si possono così indicare: 1) tecnologia, principalmente, ma non solo, per quanto applicata agli strumenti militari; 2) diritto, specialmente di guerra (jus in bello) ma non solo, perché si deve mettere a conto anche — e forse soprattutto — le fasi prodromiche che potranno in ipotesi sfociare in guerra guerreggiata (jus ad bellum); 3) strutture sociali, avendo riguardo a come queste si siano sviluppate, attraverso la preistoria e la storia, in unità politiche: tribù, nazioni, imperi, fino al dernier cri delle organizzazioni sopranazionali o internazionali; 4) varietà di opinioni e attitudini riguardo ai valori fondamentali di una comunità, o anche nutrite o avvertite a livello sopranazio-nale.

Detti quattro fattori corrispondono, dunque, rispettivamente ai livelli tecnologico, giuridico, sociopolitico e biologico-psicologico-culturale della vita umana. Per ciascun livello un conflitto è ipotizzabile — e un conflitto violento diventa probabile — ogniqualvolta si verifichi un sovraccarico o un collasso dei meccanismi di aggiustamento che son riusciti fin a quel momento a controllare le interazioni di coattori a ogni livello e che in precedenza avevano preservato un balance of power non violento, cioè una situazione di più-o-meno equilibrio.

Quindi la violenza e la guerra, secondo Wright, sono probabili e quasi ineluttabili qualora difettino assestamenti o controlli adeguati rispetto ad alcuno o più di questi fattori. La pace è, in sostanza, un instabile equilibrio tra varie forze. È invero impro-babile che si produca e si regga da sola: dev’essere organizzata e gestita per essere al meglio assicurata, per perdurare, e per essere restaurata ove mai sia stata vulnerata.

La concezione wrightiana di detti fattori è tale che i mutamenti che intervengono in essi sono, almeno in via d’ipotesi, misurabili.

Per esempio, i cambiamenti nelle tecnologie possono essere misurati grazie a dati tecnici e statistici circa la potenza esplosiva delle bombe, la velocità e la portata dei vettori, e più in generale relativi al potenziale delle rispettive economie e strutture industriali nazionali.

Le variazioni nelle attitudini e nei valori propri delle masse popolari, e in quelli,

spesso diversi, propri delle cosiddette élites dei decision-makers (queste ultime influenzano la produzione giuridica na-zionale e internana-zionale) potrebbero essere misurate mediante sondaggi della pubblica opinione e analisi dei contenuti della stampa più autorevole, o piuttosto sulla base di dichiarazioni dei responsabili politici.

Queste forze sono interpretate prescindendo dalla saggezza o dalla follia di singoli uomini di Stato, capi politici o comandanti militari. Le vedute e le decisioni di tali singoli personaggi contano certo molto per Wright nella sua visione delle cose (e, beninteso, nella realtà), ma devono far i conti con l’andamento di eventi maggiori cagionati da, e a loro volta producenti, mutamenti di valori e di atteggiamenti di centinaia di milioni di esseri umani.

Al momento della drammatica situazione in cui egli scriveva la prima edizione del suo magnum opus, cioè nel 1942, i problemi che si avevano di fronte erano in qualche modo paragonabili a quelli che i popoli europei dovettero risolvere con complicati assestamenti che si sperimentarono nelle grandi transizioni del V e del XV secolo, e che secondo Wright furono alla fine coronati da successo.

Pensatore eminentemente pragmatico però, nonostante la tesi, che mi sembra invero un po’ audace, della misura-bilità statistica delle variazioni (sia chiaro: solo delle variazioni) intervenute nei fattori, Quincy Wright si è sforzato di tenersi sempre in linea con una ragionevole comprensione dei fatti piuttosto che di badare a rivestire di matematica ele-ganza il suo prodotto. Era ovviamente consapevole del fatto che, pur concesso che siano grossomodo misurabili le va-riazioni marginali, ove mai tentassimo di quantizzare i citati fattori globali in sé, i numeri diverrebbero talmente stratosferici che la loro lettura sarebbe impossibile.

In centinaia e centinaia di pagine di questo libro mastodontico dedicate al passato, all’allora contemporaneità e al futuro (il suo futuro è quello nel quale siamo oggi im-mersi, ma prima dell’apparire delle “nuove guerre”) si tentano di fornire suggerimenti per l’avvenire. Sforzandosi di penetrarli in tal modo, egli va considerato uno dei pionieri della moderna peace research. Certo, sono seguiti nel tempo e seguiranno ancora mo-delli sempre più sofisticati, ma va riconosciuto ai suoi sforzi un merito ineguagliabile.

Impossibile, data la mole del lavoro (XLII + 1.638 pagine, e scusate se è poco!), tentare di farne una rassegna puntuale e completa. Tenterò, quindi, di cogliere qualche aspetto saliente che mi appaia più interessante e qualificante, o anche divertente, scu-sandomi per l’episodicità.

L’Autore esordisce rilevando i diversi approcci culturali al problema della guerra, della quale si possono avere varie concezioni. Per alcuni è una malattia che andrebbe eliminata; per altri, un errore da evitare; per altri ancora, un crimine da punire; e per altri ancora, un anacronismo che non ha più alcun senso.

Però, dall’altro canto, vi sono alcuni che hanno un atteggiamento più … benevolo,

o fatalista — diciamo, in certi casi, guerrafondaio — considerandola un’avventura che può rivelarsi interessante, uno strumento che potrebbe tornar utile, un procedimento che potrebbe essere legittimo e appropriato, o infine una con-dizione ineluttabile dell’esistenza alla quale bisogna essere preparati e rassegnati e alla quale è impossibile sottrarsi.

Per gli appartenenti a queste ultime categorie la guerra, dunque, non costituisce un problema: la considerano inevitabile, che la si riguardi con irresponsabile entusiasmo, con astuto compiacimento o con nero pessimismo. I dettagli potranno essere inattesi o sgradevoli, ma non vanno considerati come costituenti un problema della guerra in generale. Potranno essere trattati in maniera soddisfacente solo da storici professionisti, diplomatici, giuristi o strateghi e strategologi.

Ma per gli ascritti ai primi gruppi sopra enumerati la guerra è invece un problema, e serio; sempre una tragedia; ed è a costoro che Wright indirizza la sua opera, anche tenendo conto del fatto che tale compagine si è andata numerica-mente accrescendo dopo gli orrori della Prima guerra mondiale, tanto da giungere a rappresentare la maggioranza del-l’umanità, anche se in alcuni Paesi e regioni potrebbe essere (è!) tuttora in minoranza.

Figuriamoci dopo la Seconda, con l’apparizione dell’arma nucleare.

Quincy Wright (Fonte: wikipedia).

Quali i fenomeni che avrebbero prodotto questo cambio di atteggiamento in senso contra bellum? Wright ne indi-vidua almeno quattro.

La «contrazione del Mondo», considerando che esso nel tempo è diventato sempre più angusto a causa dello svi-luppo dei trasporti e delle comunicazioni (e non ne parliamo oggidì…). Ne è conseguito — e ciò è sempre più vero — che tutt’i popoli della Terra diventano a mano a mano più interdipendenti tra loro quanto a economia, cultura e politica.

Essi sono sempre più attenti a — e in qualche misura si sentono comunque coinvolti da — qualsiasi conflitto, persino se geograficamente lontano.

La “accelerazione della Storia”, come conseguenza del progresso scientifico e della intercomunicabilità delle idee e delle tecniche, che a sua volta ha velocizzato i mutamenti sociali e addirittura la qualificazione di singoli individui nelle abilità tecniche e professionali, nelle attitudini e aspettative economiche, e perfino nei valori morali.

La “evoluzione degli strumenti militari”: fin dal XVIII secolo l’introduzione della leva obbligatoria, almeno in tempo di guerra; la sofisticazione della propaganda; la gestione sempre più centralizzata in capo ai Governi; l’industria-lizzazione dei trasporti militari e degli strumenti bellici; l’invenzione e diffusione di sottomarini, aerei, gas asfissianti ecc., che accresce enormemente la vulnerabilità della popolazione civile, e altre novità consimili, hanno conferito alla guerra un carattere totalizzante come mai prima nella storia.

La «affermazione della democrazia»: la diffusione delle comunicazioni, e quindi delle informazioni, e più in generale il miglioramento delle condizioni di vita, hanno contribuito a produrre una generalizzata coscienza nazionale nei vari popoli, con la conseguenza di accrescere il peso della pubblica opinione, il cui favore è condizione oggi indispensabile per orientare la politica estera e di difesa di un Paese. Le politiche estere e militari hanno cessato di essere oggetti mi-steriosi, diciamo giocattoli per pochi, e sono diventate attività umane che i popoli possono influenzare, se non control-lare. Mentre individuare in capo a chi si possa porre la responsabilità di una guerra è un esercizio che può essere difficile se non impossibile, la guerra è comunque considerata ormai un fatto meramente umano, senza interventi divini o dia-bolici; e la diffusa democrazia ha stimolato la voglia di pace e l’avversione alla guerra, anche se non ancora ne risultino chiari la sua intelligenza e i mezzi per esorcizzarla.

Un ampio capitolo è dedicato alla storia dei modi di fare la guerra, trattata soprattutto sotto il profilo sociologico.

Senza ripercorrere le ricostruzioni evenemenziali attraverso tutte le ere, desidero soffermarmi su di una parte davvero intrigante, oserei dire sfiziosa, riguardante le motivazioni più profonde del muovere guerra.

Sorprendentemente (ma poi non tanto), il sesso!

La guerra provocata dal Ratto delle Sabine perpetrato dai Romani per procurarsi spose buone fattrici nell’VIII secolo a.C.; e la legittimità di questa causa di guerra è discussa da Grozio. L’opportunità offerta dalla guerra per dare libero sfogo alle pulsioni sessuali è stata considerata una possibile “gratifica” per il soldato, specie dopo espugnata una città assediata:

la brutalità di comportamenti siffatti era comune tra Greci, Romani, Cartaginesi, Teutoni, Franchi e Crociati. Apparente-mente, i Saraceni erano migliori (ma poi ricordiamoci dei Marocchini del Maresciallo Juin). Colpevoli di siffatti compor-tamenti di stupratori anche gl’Inglesi nella Guerra dei Cent’anni; e poi praticamente tutti i belligeranti, durante il Rinascimento e la Guerra dei Trent’anni, rievocata dalla Mutter Courage di Brecht.

Per altro verso, va ricordata l’aspettativa del favore femminile per l’eroe guerriero; però si può immaginare anche la compulsione verso la violenza guerresca addirittura per compensare l’impotenza sessuale (penso a Narsete, eunuco, il grande generale bizantino successore di Belisario nella guerra contro i Goti); o addirittura per sottrarsi a una noiosa routine coniugale.

La guerra per vendicare il ratto di una donna è esemplificato dalla Guerra di Troia, e poi dalla audacia galante di Attila, che invase la Gallia mosso dal desiderio di prendersi Onoria, che insensatamente gli si era promessa segretamente in sposa, dalla prigione in cui l’avo, l’Imperatore Teodosio, venuto a conoscenza della cofecchia, l’aveva reclusa. E sembra che Arminio fosse stato mosso alla strage dei legionari di Varo nella selva di Teutoburgo proprio a causa delle violenze di questi sulle donne germaniche.

Né va dimenticato l’episodio che diede l’avvio ai Vespri Siciliani: un soldato fran-cese, tale Drouet, con la scusa di perqui-sirla, tastò il seno di una nobildonna siciliana, e il marito di questa lo trafisse.

L’episodio è rappresentato in un celebre quadro di Francesco Hayez conservato alla GNAM di Roma.

E la violenza sessuale come arma è oggi adottata su vasta scala anche nelle

“nuove guerre”, in particolare dal per l’occasione si sottolinea che vi sono state iniziative giudiziarie contro capi po-litici e militari che hanno tollerato (se non incentivato) siffatte violenze. Però Ban Ki Moon sottolineò che ancora il fenomeno è tutt’altro che debellato, ricordando in particolare il caso delle 200 studentesse rapite in Nigeria, nonché «la continua tra-gedia di donne e ragazze costrette a matri-moni forzati o schiavitù sessuale da gruppi estremisti in Medioriente».

Però vi può essere pure un’altra moti-vazione, anche se nascosta sotto altre più appariscenti (economiche, sociali e politi-che). L’Ammiraglio Fiske nota che, gravando le fatiche e l’impegno della guerra principalmente sui maschi, questi si preoccupano di procurarsi i mezzi di sostentamento per le donne e i figli rimasti a casa.

E, infine, i freudiani pongono in risalto il ruolo della gelosia nel produrre quell’ansietà che porta a esibire aggres-sività.

Un’altra importante motivazione dell’ardore bellico sarebbe lo spirito d’avventura. Gli eroi omerici, i cavalieri di Re Artù, i paladini di Carlo Magno, i compagni di Cortez, Drake, Raleigh, erano mossi, secondo Wright, principalmente da tale spirito. Ma io credo che forse almeno per i seguaci dei Conquistadores non era la prima delle motivazioni: più ri-levanza dovette avere la brama di ricchezze, per esempio con la ricerca del leggendario Eldorado. Poi certamente tale motivazione, mista alla pulsione sessuale, era presente nei volontari nelle guerre coloniali: ricordiamoci della seducente Faccetta Nera.

Wright si sofferma a lungo sulle contraddizioni della civiltà moderna. Mentre la situazione politica nel Medioevo

— quanto meno in Europa — era caratterizzata dall’unità (teorica) della Cristianità sotto il Papa e/o l’Imperatore, spesso in lite tra loro come Gregorio VII ed Enrico IV (di Germania, quello di Canossa) nella lotta per le investiture, più tardi frantumata in una sorta di anarchia tra Stati e Staterelli e Microstati, dopo la Guerra dei Trent’Anni, con la pace di

Ve-Giovanni Mosca, da «La Storia d'Italia in 200 vignette», Rizzoli, 1958.

stfalia (1648), si affermò la dottrina della sovranità territoriale razionalizzata da Jean Bodin e sistematizzata da Grozio.

Stranamente Wright non cita il nostro grande Alberico Gentili.

L’accettazione generalizzata di tale sistema cambiò l’Europa da una situazione caotica di forse migliaia di signorie spesso sovrapponentisi a una compagine di Stati vasti abbastanza da essere autosufficienti grazie alle proprie risorse agricole. Ma ciò non significa che le guerre fra essi non fossero pressoché continue. A mano a mano, specie dopo la Pace di Utrecht (1714), si andò affermando la dottrina del Balance of Power, che in qualche modo funzionò fino alla tempesta napoleonica, che segnò il terzo grande periodo di guerre intraeuropee (1789-1815).

A Vienna, nel 1815, si sancì il Concerto d’Europa, preconizzato due secoli prima da Enrico IV (di Francia). Sotto il vigore di tale principio le Grandi Potenze avrebbero dovuto consultarsi prima di ogni modifica dello status quo, e la cosa in qualche modo funzionò, grazie soprattutto all’astuzia di Metternich, fino al prorompere delle rivendicazioni na-zionali che portarono, tra l’altro, al nostro Risorgimento e, in ultima analisi, ai massacri della Prima guerra mondiale.

La Società delle Nazioni si dimostrò fallimentare. Le guerre presto deflagrarono di nuovo in varie parti del Mondo; fino all’immane ecatombe della Seconda guerra mondiale

La ristrettezza dello spazio disponibile m’induce a sorvolare, mio sommo malgrado, su molti aspetti, pur rilevanti, delle costruzioni teoretiche di Quincy Wright & Co., sembrandomi preferibile riferire sulle parti più salienti dell’ap-pendice aggiunta alla seconda edizione, come detto del 1965, dal titolo «Commentary on War since 1942».

Certo è che dopo la Seconda guerra mondiale la struttura della Comunità Internazionale risultò sostanzialmente mutata, e conseguentemente anche la teoria generale della guerra e dei suoi fattori.

La guerra, o il timore di essa, e direi gli sforzi per esorcizzarla, quantomeno nelle sue dimensioni più spaventose,

L’ONU ha stabilito una «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sessuale nei conflitti». Qui nell’immagine il Palazzo di vetro dell’ONU di New York (Fonte: wikipedia).

divenne quindi un problema cruciale. Ancora una volta, l’accelerazione della Storia con il progresso galoppante delle scienze e, conseguentemente, delle invenzioni; la crescente distruttività delle ostilità; l’emergere di democrazie (o se-dicenti tali) che aspiravano all’autodeterminazione (decine di nuovi Stati neonati si affacciarono alla vita, grazie a dei parti peraltro spesso travagliati), soprattutto in reazione al colonialismo; infine gli sforzi per una reale cooperazione in-ternazionale: tutto questo evolvere di scenari si susseguì nel secondo dopoguerra.

Nel settore degli strumenti bellici, campeggia la bomba atomica e quella a idrogeno, i cui possibili vettori sono sempre più rapidi e difficilmente intercettabili: aerei supersonici, missili ecc.; onde si diffuse una vulnerabilità genera-lizzata dalla quale nessuno poteva sentirsi sicuro da un improvviso annichilimento.

Questi e altri mutamenti di scenario hanno improntato una configurazione totalmente nuova dell’ecumene mon-diale, e hanno diffuso l’opinione abbastanza generalizzata che la guerra è ormai obsoleta quale strumento a disposizione della politica e che gli Stati devono disarmare. Eppure i bilanci militari hanno raggiunto grandezze mai viste, e molti Governi sono convinti che la deterrenza mutua grazie alla incombente riposta nucleare, mantenendo un “equilibrio del terrore” (o «delle impotenze», come diceva l’Ambasciatore Toscano), sia il prezzo della sopravvivenza. Vi è una diffusa consapevolezza del fatto che il genere umano nel complesso costituisca una entità sociale le cui componenti comunicano (e commerciano) tra loro ininterrottamente, e dipendono dalla stabilità e dal progresso di essa entità globale per la loro sicurezza e prosperità.

Eppure, mai furono tanto appariscenti i conflitti ideologici, le rivendicazioni nazionalistiche e le minacce di guerre comunque motivate, che talvolta son giunte a deflagrazione sia pur a livello locale, peraltro stemperando in qualche modo le tensioni tra le due Grandi Potenze.

È chiaro, ovviamente, che il problema della guerra è diventato sempre più acuto dopo che il libro di Wright fu scritto. I mutamenti quantitativi sono stati di tale magnitudine che i rapporti fra Nazioni sono diventati diversi qualita-tivamente. È emerso un Mondo totalmente nuovo. Eppure, a detta di Quincy Wright, le sue intuizioni circa le cause della Guerra sarebbero (allora, quando scriveva) ancora valide. Esse sarebbero: 1) la reazione alla percezione di una mi-naccia; 2) l’entusiasmo per degl’ideali; 3) la frustrazione per condizioni insoddisfacenti attribuite a una Potenza straniera;

4) il convincimento dell’utilità di una minaccia di guerra o addirittura di una guerra guerreggiata come strumento d’in-dipendenza, di politica, di prestigio o di potenza; 5) la convinzione che l’uso dello strumento militare sia necessario per ottenere giustizia, legalità e diritti ove mai i negoziati pacifici all’uopo intavolati si siano dimostrati inefficaci.

Comunque Wright ammette che nell’era atomica la neutralità lascia scarso spazio alla speranza di pace, perché non c’è dove nascondersi. I pollastri non possono svolazzare verso la salvezza. Riprendendo una similitudine di Vilfredo Pa-reto, le grandi Potenze non possono più atteggiarsi a leoni, né le piccole a volpi. Forse meglio essere sciacalli…

Wright conclude con un pio desiderio: si deve sperare che il senso comune della gente supererà i pregiudizi, che gl’interessi della comunità internazionale nel suo complesso saranno percepiti come interessi di ogni singola Nazione, che il diritto delle genti controllerà la sovranità d’ogni singolo Stato, e che il buon senso dei decision-makers, dei loro consiglieri e dei loro agenti di intelligence subordineranno le loro percezioni, illusioni e ambizioni all’aspirazione di sal-vare l’umanità dal disastro.

Pio desiderio, dicevo, al quale penso che neanche Wright credesse. Figuriamoci se avesse dovuto confrontarsi con

Pio desiderio, dicevo, al quale penso che neanche Wright credesse. Figuriamoci se avesse dovuto confrontarsi con

Nel documento GUERRA E PACE (pagine 62-69)