Non può mancare, in un’occasione dedicata alla biblioteca di Ezio Raimondi e dunque al suo rapporto con i libri, un breve ricordo della sua presenza al Mulino; una presenza che ebbe inizio nel 1953, quando il Mulino era solo una rivista nata da appena due anni, ed è durata per sempre. In varie occasioni Raimondi ha detto che per lui il Mulino è stata una seconda università, anzi un’università che funzionava vicino a quella che non funzionava; per lui era il luogo dello scambio disinteressato delle idee, della libera accademia priva di fini e priva di beghe. Una casa, veramente.
La figlia Natalia ha raccontato che, quand’era bambina, Raimondi, per giustificare le proprie assenze, le aveva spiegato che lei aveva un altro fratello che si chiamava Mulino. Per Raimondi il Mulino è stato anche il luogo dell’amicizia, in particolare dell’amicizia con Giovanni Evangelisti, colui che ne è stato per oltre quarant’anni il deus ex machina: un’amicizia a prima vista un po’ incongrua, fra l’allampanato Don Chisciotte Raimondi e quell’apparente Sancho Panza che era Evangelisti, ma che fu probabilmente il rapporto decisivo, quello più duraturo e tenace, com’è apparso evidente soprattutto negli ultimi anni.
Il Mulino era una casa, un’altra delle case dei libri di Raimondi. Era un posto dove si potevano avere i libri gratis: Raimondi stesso ha raccontato che per vari anni si sobbarcò un ingrato lavoro di recensione per la rivista «il Mulino», centinaia di brevi schede anonime, perché era un modo per ottenere libri gratuitamente dagli editori, anche stranieri. Sono le schede poi identificate da Andrea Battistini e in parte pubblicate nel 2010 nel volume curato da Andrea Menetti La stagione di un recensore.
Bruno Basile ha affermato che Raimondi acquistava libri stranieri per proporli al Mulino, ma credo che sia un ricordo impreciso. Un editore, infatti, i libri di cui voglia considerare la traduzione li ottiene gratuitamente
dagli editori stranieri, e dunque è più verisimile che Raimondi avesse cura di segnalare al Mulino libri stranieri da richiedere in esame, non solo per un’eventuale traduzione, ma qualche volta anche per aver copia gratuita di libri che interessavano i suoi studi.
Nella sua veste di presidente del consiglio editoriale, carica che ha ricoperto dal 1967 al 2006, Raimondi ha poi ricevuto per decenni copia di tutti i libri pubblicati dal Mulino. E a differenza di altri che, titolari del medesimo privilegio, lo esercitavano solo in parte, ad esempio restringendo la scelta a determinate collane o materie, Raimondi prendeva assolutamente tutto, compresi i manuali di economia, anche i titoli che parevano più lontani dai suoi interessi. Migliaia di libri, che si depositavano in ogni angolo della casa, e poi nel suo studio all’Istituto per i Beni culturali.
Ma al Mulino c’erano naturalmente anche i libri da fare, libri da leggere, su cui esprimere pareri. I consigli e le suggestioni di Raimondi spesso erano molto alti e non sempre l’editore li seguiva. Uno dei suoi crucci ad esempio era di non essere riuscito a convincere il Mulino ad aprire un settore di arte, cosa che a lui, allievo mancato di Roberto Longhi, molto sarebbe piaciuta. Il contributo di Raimondi alla politica editoriale del Mulino è difficile da misurare e probabilmente tale rimarrà anche quando sarà stato aperto e studiato l’archivio editoriale, perché il suo contributo, intenso e in certi momenti quasi quotidiano, ha lasciato poche tracce scritte. Rimangono, ma pochi anche quelli con il diradarsi dei testimoni diretti, ricordi e aneddoti. Uno che si torna a raccontare con regolarità, anche perché è esemplare del difficile equilibrio fra ragioni alte e basse di cui è fatto il lavoro di una casa editrice, riguarda una riunione del consiglio editoriale alla fine degli anni Novanta in cui si parlava della collana «Farsi un’idea», una sorta di «que sais-je?» dedicata a introduzioni essenziali, per lettori non specialisti, ai grandi temi della società e dell’economia contemporanea. Raimondi vi prese la parola per raccomandare, nella sorvegliata ilarità dei funzionari, che si prevedesse nella collana anche un titolo sull’emblematica barocca.
Ezio Raimondi e il Mulino
Al di là degli aneddoti, colpiva in casa editrice l’estrema disponibilità con cui Raimondi partecipava alla fabbrica del libro, fino alla bassa cucina redazionale. Non solo per il suo ruolo istituzionale, e per la sua presenza e facilità di parola, ma soprattutto per l’insuperabile timidezza e ritrosia di Evangelisti a cui il compito sarebbe più legittimamente spettato, Raimondi serviva da rappresentante e volto pubblico del Mulino nelle occasioni ufficiali e nelle interviste. Però si accomodava anche, con assoluta naturalezza, a controllare una traduzione, a rivedere una quarta di copertina, a inventare titoli.
In tutto ciò emergeva un aspetto che anche altri non hanno mancato di osservare, vale a dire che Raimondi era veramente l’uomo dei libri, il «libridinoso» che per i libri mostrava una voracità insaziabile, ma in pari tempo era del tutto immune dalla passione bibliofila. Non era un collezionista, ma un accumulatore. Per lui i libri erano contenitori di testi, non oggetti di culto; e la biblioteca era un laboratorio.
Sul «Corriere della sera» del 10 gennaio 2010 uscì un’intervista di Paolo Di Stefano a Raimondi accompagnata da una straordinaria fotografia: inquadrato dall’alto, seduto alla scrivania, Raimondi vi appare come confitto nel pozzo dei libri del suo studio. Noi guardando quella foto ci dicemmo: «bisogna fare un libro su questo», e con l’aiuto di Paolo Ferratini raccogliemmo dalla sua voce Le voci dei libri, che poi ha finito per essere l’ultimo libro suo, acquistando quasi il senso di un congedo. Una delle cose che emergono da questo libro, per l’appunto, non è il culto dei libri, ma un’enorme riconoscenza per quello che i libri gli avevano dato, anche in termini di emancipazione sociale.
I libri dunque erano strumenti di un laboratorio, strumenti di studio. Il fatto che i suoi libri siano venuti in una biblioteca universitaria, cioè in una biblioteca-laboratorio, dove vengono letti per essere studiati e per produrre altri libri, appare dunque un fatto pressoché dovuto.