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Grazie, buonasera a tutti, anche da parte mia. Che Raimondi sia tuttora molto vivo in me lo conferma la giacca tirolese che indosso, perché questa giacca corrisponde all’ultima avventura intellettuale che ho vissuto con Raimondi nei corsi tenuti a Bressanone presso la Facoltà di Scienze della Formazione, dove avevamo un insegnamento insieme e dove io lo accompagnavo e dove misurai una volta di più, da un lato l’amicizia e l’affetto perché tutte le volte mi diceva: «Mi sono dovuto impegnare a preparare questa lezione perché lei rimane lì ad ascoltarmi e io non voglio farla annoiare», delicatezza molto difficile da trovare o da riprodurre nel rapporto tra maestro e allievo, in generale. Dall’altro lato, doveva sembrargli di essere tornato alle origini del Magistero bolognese (di cui fu fra gli ideatori, attorno al 1955), perché in quegli anni, parlo degli anni tra il 1999 e il 2011, Scienze della Formazione a Bressanone prometteva molto, poi non ha mantenuto queste promesse, ma sembrava davvero una nuova facoltà europea, o una prima facoltà europea. E Raimondi teneva davvero a questa connotazione internazionale di dialogicità e di plurilinguismo didattico. Lì teneva lezioni di livello straordinario non solo nell’abituale dimensione filologica e interpretativa, ma anche in quella comunicativa. Quasi sempre prendeva le mosse da Calvino davanti a classi italofone, ma tutt’altro che facili, perché c’era una frequenza obbligatoria, quindi spesso i ragazzi e le ragazze tendevano a distrarsi, a fare le loro cose durante le lezioni proprio perché obbligati da una firma e da una presenza. Anche giocando “fuori casa”, invece, Raimondi seppe sempre conquistarle tutte, grazie a questa sua parola, lo ha detto molto bene Claudio Longhi prima di me, che era energia pura e che era davvero parte di un atto di performance però condivisa, in cui lui era tanto bravo da riuscire a svolgere e a interpretare tutte le parti del dramma, compresa quella dello spettatore,

dell’autore, degli attori, del regista e dello spettatore, o degli spettatori. E però, questa bravura sapeva trasmetterla in un modo straordinario, tanto è vero che egli era ben consapevole di un paradosso, ci pensavo proprio all’inizio di questo pomeriggio, anche attraverso gli interventi del Rettore, di Gian Mario Anselmi, di Andrea Battistini, ovviamente, di Giorgio Zanetti, per cui questa performance nasceva però dal libro, dal dialogo che i libri - affidati a mani sapienti come le sue - sanno intrattenere fra di loro, senza forzature e senza esibizioni erudite. Tanto più oggi che del libro si tende a celebrare il funerale, nel senso che di libri se ne leggono sempre meno, se ne producono sempre meno, se ne vendono sempre meno e che anche le principali catene librarie non godono certo di buona salute, la fiducia riposta da Raimondi nella Biblioteca come primaria istituzione democratica, dinamica e interdisciplinare coincide con una visione fin che si vuole utopica, ma in realtà assai lungimirante, che colloca in una prospettiva decisamente d’avanguardia l’azione di Raimondi sul territorio bolognese, tanto nel suo ruolo di Presidente dell’Istituto per i Beni Culturali della regione Emilia-Romagna quanto nell’ambiente universitario. Lo dimostrano proprio l’ampiezza, la fruibilità, l’“apertura” a chiunque intenda affacciarvisi di una biblioteca come la nostra del Dipartimento di Filologia classica e Italianistica, da lui fondata e costantemente arricchita, grazie anche agli innesti che ci ha appena descritto Federica Rossi: uno “strumento umano” (per dirla con Vittorio Sereni, uno dei più importanti e attuali poeti novecenteschi) non solo intessuto di un’erudizione rivolta al passato, ma uno spazio plurale e dinamico rivolto al futuro. Questa è un’altra volontà precisa di Raimondi, che ha saputo imprimere questa dimensione positiva, all’inizio anche utopica, in una realtà tutt’altro che agevole, entro un’università diventata da decenni “di massa”... E invece Raimondi e la sua lezione ci consentono di esaltare ancora di più il libro, il libro come spartito, il libro appunto come copione, il libro da agire, il libro che non è semplicemente cultura scritta o impolverata o lontana anni luce di un passato ormai irrecuperabile, dovuto a pochi eruditi che

Ezio Raimondi: il volto nelle parole

si scambiano tra loro alcune distillate postille. Per Raimondi, al contrario, vale il libro, come principio attivo; principio inesausto di oralità; virtualità e potenzialità mai esaurita da nessuna interpretazione, da nessun intervento, da nessuna esecuzione, comprese le sue.

Raimondi aveva questa straordinaria umiltà della lettura e del convincimento, lo ha detto bene Giorgio Zanetti, che ogni lettura non fosse mai l’ultima, definitiva, perfetta e compiuta, ma fosse la ragione per una lettura successiva, dunque la ragione di una dinamica successiva, aperta anche a coloro che magari leggevano per la prima volta o si impegnavano nella lettura di un determinato per la prima volta. Poi, al di là di questo, vorrei ricordare proprio in chiusura, molto rapidamente, altre due caratteristiche straordinarie che tutti noi dobbiamo a lui: l’intuito, la sensazione della traccia innovativa da seguire (com’è stato appunto per la scoperta di Bachtin nel ’67, attraverso un saggetto della Kristeva). Beh, Raimondi ci ha persuaso subito, dall’inizio, quando eravamo matricole del primo mitico corso a lettere su Svevo, cominciato nel dicembre del ’74, che la letteratura è ontologicamente internazionale e non legata all’epiteto italiana, o perlomeno, se si partiva dalla letteratura italiana perché ci si rifaceva a un canone, a una tradizione di testi scritti in lingua italiana, bisognava immediatamente rompere questi confini, confrontando la letteratura italiana con le altre: il principio della letteratura-mondo esposto da Goethe era uno dei suoi principi cardinali e così l’apertura automatica alla Letteratura comparata.

L’altro elemento a cui tengo molto, per quello che faccio adesso, per quello che facciamo adesso, anche in questo Dipartimento, che è sua creazione prima di tutto, è l’abbattimento di ogni barriera tra la letteratura cosiddetta generale e la letteratura contemporanea, nel senso che le sue cognizioni erano talmente vaste da coprire qualunque secolo in modo perfetto, ampio, pieno di riferimenti, ma anche proprio per quel principio che ho dichiarato all’inizio di energia, di forza e del fatto che le voci non erano mai voci sepolcrali, ma sempre voci rinnovate, vitali: e quando si

leggeva un testo del passato lo si leggeva con l’energia, le cognizioni, la disponibilità a un testo del futuro. E così, nello stesso modo, a leggere un testo del presente naturalmente non ci si poteva non confrontare con quel principio dinamico di intertestualità, che è stata un’altra delle sue straordinarie lezioni non solo teoriche, ma pratiche, concrete, effettuali (per usare categorie care al suo amatissimo Machiavelli), perché lui poi non amava la teoria fine a sé stessa e quindi tutte le varie teorie, le varie mode culturali, le varie metodologie che si sono accavallate, negli anni Settanta, quando il metodo era un mito. No, le istanze teoriche dovevano sempre essere messe alla prova dei testi e io ho sempre amato soprattutto le lezioni di commento puntuale dei singoli testi. E allora lì la capacità di far vibrare le epoche all’interno di un testo che si leggeva con la responsabilità del proprio presente è stata una lezione che continua assolutamente a vivere in me e che davvero me lo fa presente ogni giorno, ogni volta che apro un libro. Grazie.