I P R E D A T O R I D E L L ' A R T E P E R D U T A IL SACCHEGGIO DELL'ARCHEOLOGIA IN ITALIA
pp. 222, € 19, Skira, Milano 2009
I
ividere è distruggere. Su questo asserto, tratto da Quatremère de Quincy, è co-struito il fondamento di un libro teso, miste-rioso e amaro, quasi un romanzo storico, che narra le vicende avventurose della disper-sione dei beni archeologici italiani. Protagonista è il predatore, che assume le vesti volta a volta di tombarolo, mediatore, collezionista e curatore di museo. Ma è storia che viene da lontano, sto-ria della grande razzia dell'arte italiana nei seco-li (di cui il volume costituisce un capitolo), in cui i poteri politici ed economici dominanti espropriano per forza o per fraude la ricchezza più grande del giardino d'Europa, l'arte quale manifestazione simbolica del valore assoluto.
Quando si preleva un manufatto da un'area archeologica e lo si disperde sul mercato anti-quario, si divide un oggetto dal suo contesto. Si fa un'operazione di immagine e l'opera diviene status symbol che proclama l'importanza di chi 10 detiene; ma in quello stesso momento si di-strugge l'insieme, il legame ineliminabile dell'o-pera con la sua storia ideologica e materiale, e si compie inevitabilmente un'operazione distrutti-va. Ne sanno qualcosa gli etruscologi che cerca-no casa alle numerosissime anticaglie volterrane, frutto di scavi settecenteschi che hanno distrut-to, nella foga del ritrovamento dell'opera d'arte, 11 contesto che le ha prodotte, accolte e protette per millenni.
Potere e arte procedono in parallelo e il più grande predatore della storia fu Napoleone, che
accentrava a Parigi un impero politico e cultu-rale concentrando prede di guerra, tra cui i più grandi capolavori classici e italiani.
La storia che ci racconta con garbo Fabio Isman è senz'altro meno roboante, si dipana nel-la penombra non meno distruttiva di un'illegale, diuturna attività. Qui non ci sono grandi ideali ma perfidi guadagni, non progetti cosmopoliti ma tornaconto immediato. Quella che fu la grande dispersione dell'arte rinascimentale ita-liana di Otto-Novecento a favore dei nuovi ric-chi statunitensi (che fu di grandi opere, grandi antiquari) diviene lo stillicidio continuo della grande razzia del sottosuolo archeologico, il sac-co di un paese malato di abusivismo.
Da ogni luogo, e specie dal mezzogiorno d'I-talia, rivoli d'antichità gonfiano un fiume pieno di oggetti di dubbia provenienza. Gli attori sono ora improvvisati scavatori di frodo, piccoli inter-mediari, mediatori di provincia, sensali, gente modesta e arrabattata, ben rappresentata da Luigi Magni nel suo primo lungometraggio Fau-stina del 1968, anno cruciale, quando il mondo melodrammatico degli pseudo-archeologi si av-via a organizzarsi per corrispondere a un merca-to più strutturamerca-to. Se c'è una qualche compren-sione sociale per il tombarolo, nessuna giustifi-cazione può essere invocata per collezionisti di poco scrupolo e per impettiti responsabili di musei americani ed europei, e non solo, che tra il 1970 e il 2004 hanno avuto il torto di incenti-vare con acquisti perlomeno incauti l'abusivi-smo dello scavo archeologico. La restituzione al-l'Italia di alcune opere, come il celebre Vaso di Lufronio, ha in parte rovesciato una tendenza. Resta un problema, ben evidenziato da Isman che cita Flaiano: "L'arte è un investimento di ca-pitale, la cultura un alibi". Potranno mai le ra-gioni dell'arte prevalere su quelle del capitale?
citazioni letterarie e filosofi-che relative all'importanza degli oggetti seriali nella ri-costruzione storica rispetto alle creazioni artistiche, del-la necessità di integrare le inevitabili lacune e di ap-poggiarsi all'antropologia per spiegare i comporta-menti alla base di certi fatti. Vengono citati Gorge Ku-bler, Friedrich Nietzsche, Hannah Arendt, teorici del-la letteratura (Cesare Gar-boli, Roger Caillois, Franco Moretti) e frequenti passi letterari (Màrai, Proust). Si punta soprattutto l'obiettivo su Roma, straordinario scrigno archeologi-co privo di un museo della città che consenta alle migliaia di visi-tatori di comprendere l'evoluzio-ne storica del plurisecolare inse-diamento urbano. Si ripropone, infine, la teoria dell'archeologo inglese Martin Carver circa la ne-cessità di un dibattito pubblico sull'opportunità di scavare o me-no un contesto archeologico, co-stringendo gli archeologi a con-vincere con buoni argomenti la comunità circa l'importanza di ef-fettuare un'indagine nell'ambito di progetti che riguardano altro: tuttavia, così come non fa Carver, neppure Carandini spiega a cari-co di chi debbano essere attribui-ti gli alattribui-ti cosattribui-ti dell'indagine ar-cheologica, sempre che che l'ar-cheologo sia riuscito ad essere sufficientemente convincente (al privato costruttore, agli enti pub-blici, allo Stato come Soprinten-denza o come Università, metà per uno?). L'autore sottopone a dura critica la struttura della tute-la italiana, quando in questi casi è il funzionario del Ministero per i Beni e le Attività Culturali "a de-cidere nel chiuso del suo ufficio", "al tempo stesso avvocato e giudi-ce", "immune da dover prevedere cosa il deposito restituirà", "per cui nessuno è in grado di percepi-re in base a quale orientamento le scelte sono state fatte".
L'ultimo capitolo è destinato a presentare un modello più "de-mocratico" di tutela archeologi-ca, nel quale Soprintendenze, Università ed enti di gestione del territorio cooperano felicemente nella salvaguardia e valorizzazio-ne del patrimonio archeologico nazionale. Come, con quali ruoli e modi di interazione e risorse non è spiegato, se non per quan-to riguarda la sicura importanza di sistemi informatici di raccolta e gestione delle informazioni pregresse su piattaforma GIS (Geographic Information Sy-stem) per la tutela dei paesaggi storici e dei bacini archeologici, per le valutazioni di impatto ar-cheologico delle trasformazioni urbanistiche e delle opere pub-bliche: sistemi che dovrebbero essere affidati alle Università.
Così, mentre continui sussulti scuotono l'ambiente archeologico italiano, anche questo libro dà la sua spallata a un sistema di tutela che non è stato rinnovato a fronte del completo ripensamento di una disciplina. Già generatore di una polemica al momento della sua presentazione sul Corriere del-la Sera (3 novembre 2008), con pronta risposta del Direttore Ge-nerale per i Beni Archeologici, Stefano De Caro (Il Sole - 24 ore, 9 novembre 2008), è stato poi in-calzato dai fatti: il
commissaria-mento delle Soprintendenze di Napoli-Pompei e di Roma, le di-missioni di Salvatore Settis da presidente del Consiglio Nazio-nale dei Beni Culturali (immedia-tamente sostituito da Carandini stesso), la creazione di un mana-ger per la valorizzazione del no-stro patrimonio proveniente da altri settori, per non parlare delle deliranti proposte normative per 10 sdoganamento dei beni archeo-logici illecitamente posseduti da privati (Settis su Repubblica, 29 ottobre 2008, e II Sole 24 ore, 19 aprile 2009).
Di grande importanza è certa-mente la sottolineatura, che per-corre tutto il volume, dell'ar-cheologia classica come discipli-na che, se applicata con i metodi discussi e messi a punto in questi ultimi decenni, potrà radical-mente sostituire la vecchia impo-stazione dell'archeologo come studioso dei meri fatti artistici dell'antichità, affiancato all'ar-chitetto-rilevatore studioso dei monumenti e all'archeologia "cristiana" e "medievale" per i periodi successivi, offrendo piut-tosto un approccio unico allo studio integrale del nostro passa-to, teso verso una sempre più ef-ficace ricostruzione storica. In questo senso è esemplare il sag-gio, apparso in contemporanea, sulla residenza di Ottaviano Au-gusto sul Palatino, redatto a quattro mani con Daniela Bruno.
ui viene presentata una ser-rata ricostruzione delle di-verse fasi che scandirono il suc-cedersi delle costruzioni sulle pendici meridionali del colle, dalle case patrizie tardo-repub-blicane al primo Ralatium impe-riale, alla sua trasformazione con 11 passare dei secoli sino alla co-struzione della chiesa paleocri-stiana di Sant'Anastasia sulle ro-vine di questo, il tutto interrelato alla presenza del Lupercale, la grotta di Romolo e Remo, fulcro del mito fondante la città etema. Molto materiale documentario ed efficaci ricostruzioni grafiche consentono al lettore di com-prendere su quali dati siano fon-date le ipotesi proposte e quanta importanza abbiano quelle rovi-ne, ammantate di miti romantici, per una rigorosa ricerca storica. • federico. barello@beniculturali. it
F. Barello è archeologo presso la Soprintendenza di Torino
L ' I N D I C E DELL'ARTE è
a cura di Enrico Castelnuovo e Michela di Macco.
Coordinamento redazionale di Elide La Rosa, Nicola Pri-netti e Paola Boccalatte. ufficiostampa@lindice. net