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Letterature

William Trevor, UOMINI D'IRLANDA, ed. orig. 2007,

trad. dall'inglese di Laura Pignatti, pp. 197, €15, Guanda, Milano 2009

Come preannuncia il titolo, ciascuno dei dodici racconti che compongono il libro esprime un diverso volto dell'Irlanda. Ogni pagina è infatti pregna delle sue atmosfere rurali e senza tempo, di quella religiosità che pervade tutti i livelli dell'esistenza, di quella patina un po' provinciale che sembra posarsi ovunque, ma che ben presto si dis-solve per rivelare un'umanità profonda e fortemente contraddittoria. Di questa Irlan-da, tuttavia, non spiccano solo gli uo-mini, come accade nel racconto che dà il nome al libro, incentrato sulle fi-gure di un ambiguo emarginato e di un vecchio parroco; tante e convin-centi sono anche le figure di donne, di adolescenti, di bambini e bambi-ne, tutte esaminate nella loro cruda complessità e illuminate da una luce cui il lettore difficilmente è abituato e che conduce l'azione a esiti per nien-te scontati. Per questo pare più felice il titolo scelto per la raccolta nell'edi-zione in lingua inglese, Cheating at

canasta, che a sua volta riprende il

ti-tolo di uno dei racconti. L'idea di ba-rare, al gioco come in amore o nella vita, rappresenta infatti una caratteristica comune a tutti i personaggi, che ora cerca-no di dissimulare la propria vera natura, ora nascondono oscuri segreti, ora tradiscono la persona amata, ora si ingannano per giu-stificarsi, per alterare il passato, per rende-re la propria tetra esistenza un po' più sop-portabile. Strategie del pensiero e del com-portamento comuni a molti, sotto gli occhi di tutti ogni giorno, ma che all'interno di que-ste storie insolite, svelate a poco a poco, con pazienza e precisione, appaiono dav-vero straordinarie.

ILARIA RIZZATO

W i l l i a m W y c h e r l e y , L A MOGLIE DI CAMPAGNA, ed. orig. 1675, a cura di Loretta Innocenti, pp. 374, € 19, Marsilio, Venezia 2009

Con la pubblicazione di questa celebre e fortunata commedia di William Wycherley, la collana di classici inglesi "Elsinore" diretta da Giovanna Mochi prosegue l'ammirevole opera di diffusione e di studio dei capolavo-ri del teatro inglese della Restaurazione, av-viata con la prima traduzione italiana

dell'F-dipo di Dryden e Lee. Presentata al

pubbli-co nel 1675 e ora mirabilmente tradotta e annotata da Loretta Innocenti, The Country

wife è in assoluto il testo teatrale della

Re-staurazione ancor oggi più rappresentato sui palcoscenici inglesi. Riscritta e "moraliz-zata" nel corso dei secoli, riscoperta nella piccante e caustica forma originale nel No-vecento, questa commedia deve il suo straordinario e durevole successo non solo al perfetto meccanismo drammaturgico con cui è costruita e ai dialoghi salaci, fitti di doppi sensi erotici, che stuzzicano il pubbli-co di ogni epoca, ma soprattutto alia profon-da e spietata riflessione sul legame matri-moniale e, di conseguenza, alla critica, se-vera ma non per questo meno divertita, di una società che trovi nel matrimonio la sola giustificazione della propria esistenza. Da li-bero pensatore, Wycherley vede l'irrisione delle nuove "maniere" cortigiane e del loro falso moralismo sessuale come bersagli di un più ampio discorso sul contrasto tra realtà e finzione, una dicotomia essenziale in una società che andava a teatro per ri-specchiarsi e che spesso confondeva, o giocava a confondere, la verità con la rap-presentazione. I! vero protagonista della

Mo-glie di campagna non è quindi il libertino

Harry Horner, "cornificatore" di nome e di fatto, che per meglio far becchi i gentiluomi-ni londinesi si finge impotente, e neppure Margery Pinchwife, l'ingenua campagnola

del titolo che Horner si impegna a dirozzare, ma l'essenza stessa della rappresentazione. Il teatro, e ancor più il linguaggio teatrale è perciò il luogo più adatto a ospitare il con-fronto tra vero e falso o, per usare una for-mula famosa, tra parole e cose. Ciò che al-lontana la commedia di Wycherley dal suo modello e omologo francese Molière è pro-prio l'importanza della parola come azione, una conquista che Innocenti riconduce giu-stamente alla grande tradizione degli elisa-bettiani. La capacità di dominare le regole del linguaggio e della rappresentazione, il controllo dei doppi sensi e delle ambiguità, è ciò che separa il wit, l'individuo arguto e li-bertino, dal top, l'ingenuo che crede di sa-per giocare con le apparenze e che viene

disegni di Franco Matticchio

regolarmente gabbato, così come distingue l'attore esperto dal guitto pasticcione. Ai due poli opposti di tale consapevolezza lin-guistica, teatrale e mondana Wycherley po-ne i personaggi di Horpo-ner e Margery, l'inno-cente campagnola che nel corso della com-media lascia la sua spiazzante sincerità per indossare come tutti la maschera che le spetta. Ai centro della scena, perno ideale della commedia e del teatro della vita, resta Alithea, inattingibile oggetto del desiderio il cui nome vuoi dire verità.

STEFANO MORETTI

con la coerenza e il rigore morale pagati a prezzo altissimo, di fronte a invasori sempre più ottusi, e a nomenclature di zelante ser-vitù. La ragione si contorce, tenta di sfuggi-re al carcesfuggi-re della sfuggi-realtà, ma la morsa del-l'assurdo è più stringente, il giorno irrespira-bile si chiude tutt'intorno, e non c'è fuga, non c'è salvezza, ie pareti della storia, dell'epo-ca, si ergono altissime, per chissà quante generazioni ancora: "Quando, nella vita, un uomo perde ogni speranza, dovrebbe per-dere nel contempo anche la volontà di vive-re. Il fatto che nonostante tutto mantenga in-vece questa volontà conduce a fini orribili, atroci, ignobili, l'uomo si trasforma in un mo-stro, in un orrore, in un essere aberrante". Nella grande desolazione, nello stupore di fronte all'assurdo che regge l'intero teatro della realtà, risuonano con de-licatezza e infinito strazio i ricordi dei genitori, incarcerati a lungo e metico-losamente annientati dal sistema: piccoli dettagli, momenti strappati al-le separazioni, accompagnamenti al treno, scene conservate per sempre di fronte al nulla che le assediava re-stano nella memoria come incisioni preziose, documenti rari di vite spaz-zate via dalla storia. Zabrana ha ten-tato di resistere, nel suo esilio inter-no, sino all'estinzione fisica: altri, do-po aver lucrato i benefici dell'orto-dossia, hanno poi raccolto all'estero fama e onori.

GIOVANNI CATELLI

Jan Zabrana, T U T T A UNA VITA, a cura di Patrik Ourednik, pp. 136, € 12, duepunti, Palermo 2009

"I torti ai quali non si ripara nell'arco di una generazione ritornano nel nulla - come se non fosse mai successo niente - tutto scom-pare - gli assassinati e gli assassini. Questo l'hanno capito. Hanno riflettuto per bene su Talleyrand: 'Il tradimento è solo questione di tempo'". Jan Zabrana è stato un poeta di grande valore, un finissimo traduttore, ma per una singolare ironia della sorte è ora co-nosciuto in Occidente per il suo diario, che scrisse per se stesso, senza mai l'intenzione che venisse reso pubblico: pura terapia, se-greta e unica, di un essere ferito, come dice Olga Spilar nel saggio che accompagna il diario. L'edizione originale ceca, tratta dagli innumerevoli quaderni e taccuini ritrovati do-po la morte di Zabrana, consta di 1.100 pa-gine, mentre l'edizione italiana, curata dallo scrittore Patrik Ourednik, così come quella francese, seleziona circa un decimo dell'ori-ginale, precisamente gli scritti successivi al 1969, epoca di normalizzazione sovietica della Cecoslovacchia, seguita alla Primave-ra di PPrimave-raga del '68 e all'invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia. In qual-che modo, dunque, la scelta del periodo e dei brani privilegia gli aspetti polemici e po-litici dei diari, lasciando un poco in secondo piano le osservazioni più propriamente lette-rarie dello Zabrana poeta. Le qualità dell'au-tore, le difficoltà del suo vivere, l'intensità della sua pena e la folgorante capacità d'ir-ridere il proprio tempo sgorgano comunque limpidissime da queste pagine, trascinando il lettore in un mondo di ieri che riappare, colpendolo con la forza di un moralista clas-sico e insieme con l'amara asciuttezza di un Karl Kraus: come resistere infatti alla suc-cessione di tradimenti e di invasioni che nel Novecento hanno infierito sulla nobile di-gnità del popolo ceco? Con i soli strumenti della cultura, del disincanto, della lucidità,

Friedrich Hebbel, D I A R I , ed. orig. 1885, a cura di Lorenza Rega, prefaz. di Claudio Magris, pp. 640, € 35, Diabasis, Reggio Emilia 2009

Corredata di un'ampia introduzione della traduttrice Lorenza Rega e di una prefazione di Claudio Magris, la nuova edizione dei Diari di Hebbel si rivela preziosa per il lettore italia-no. Contrariamente all'edizione curata quasi un secolo fa da Scipio Slataper, comprenden-te alcuni significativi excerpta, Rega traduce pressoché integralmente i Diari che il poeta e drammaturgo Friedrich Hebbel (1813-1863), "anima dilacerata" del realismo tedesco, scrisse per oltre un ventennio. L'autore di

Giu-ditta, Maria Magdalena, I Nibelunghi, drammi

assurti al rango di classici della letteratura, scrisse la sua prima pagina di diario a venti-due anni, quando ancora non aveva compo-sto nessuna delle sue opere. Nel 1835, dopo un'infanzia all'insegna della povertà, Hebbel, scrivano parrocchiale umiliato in un'oscura provincia della Germania settentrionale, ma animato dalla convinzione della propria gran-dezza poetica, si trasferì ad Amburgo e, forte dell'aiuto di una mecenate, iniziò il suo viatico artistico. A quell'anno risale la sua prima pagi-na del diario, ai quale Hebbel affida le sue "ri-flessioni sul mondo, la vita e i libri, ma soprat-tutto su me stesso". Il valore privato del diario, come confessio intima e preclusa all'idea di lettori posteri, è escluso da Hebbel sin dalla prima pagina: "Inizio questo diario (...) per fa-re un favofa-re al mio futuro biografo, che certa-mente avrò, considerate le mie prospettive di diventare immortale". La descrizione degli av-venimenti quotidiani trova poco spazio nelle pagine dei diari, lasciando invece posto a ri-flessioni di natura esistenziale, religiosa, este-tica. La forma frammentaria, dove l'aforisma batte il tempo per il passaggio da una rifles-sione all'altra, ha da sempre decretato, dalla prima pubblicazione in Germania nel 1885, la fortuna di queste pagine. Il pantragismo heb-beliano riverbera con forza dirompente nei la-conismi delle sue riflessioni diaristiche, in cel-lule dotate di vis tragica assoluta: "L'uomo è un cieco che sogna di vedere". La riflessione storico-filosofica sul ruolo dell'individuo in rap-porto a un'imperscrutabile trascendenza e al-la collettività, nerbo delal-la teoria tragica heb-beliana, si frantuma nei diari in schegge auto-nome, che tradiscono spesso la vocazione so-lipsista di un'anima presaga dell'immortalità poetica: "Chi vuole viaggiare verso le stelle non si guardi intorno per cercare compagnia".

, L'INDICE

• • D E I L I B R I D E L M E S E B H

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Dragan Velikic, VIA POLA, ed. orig. 1988,

trad. dal serbo-croato di Ljiljiana Avirovic, pre-faz. di Claudio Magris, pp. 157, € 15,

Zando-nai, Rovereto 2009

La via Pola del titolo, come sottolinea Claudio Magris nella prefazione, non è il nome di una strada, ma un transito ideale e culturale, che collega Dublino a Trieste in direzione Oriente e che rimanda dichia-ratamente a Joyce, ma soprattutto a un fertilissimo e indefinibile humus fatto di vo-ci, sensazioni, evocazioni storiche, sapori e visioni oniriche. Mitteleuropea, certa-mente, ma anche qualcosa di più stratifi-cato e sorprendente. Metafora di questo mondo sovvertito nella scansione tempo-rale, dalle atmosfere paludose e malsane, è il latrodectus, "colui che morde a tradi-mento", il ragno comunemente conosciuto come vedova nera, che uccide il maschio dopo l'accoppiamento e che produce una tela estremamente resistente. E come una ragnatela immutabile di fronte ai cambia-menti del tempo e della storia, ai venti bel-lici e ideologici, è presentata la struttura urbanistica di Pola. Ma il latrodectus è an-che l'espediente materiale an-che innesca la trama del romazo, forse una visione o for-se la tragica vicenda del protagonista Bruno Gasperini. Medico psichiatra, viene punto dal ragno e inizia la rievocazione di confuse memorie, in cui compaiono le nu-merose persone incontrate, italiani, tede-schi, morlacchi, l'amata Gordana, i suoi pazienti, epoche diverse sovrapposte, Joyce, che fu professore d'inglese alla Berlitz School di Pola, prostitute e militari dalle molteplici divise. Dragan Velikic, na-to a Belgrado, ma cresciuna-to a Pola, per questo romanzo ha ricevuto nel 1991 il premio MiloS Crnjanski. È oggi uno fra gli autori dell'area balcanica più apprezzati e conosciuti in Europa. Nel novembre del 2008 ha ricevuto a Vienna, dove è attual-mente ambasciatore della Repubblica serba, il prestigioso Mitteleuropa Preis dell'Istituto per il Danubio e l'Europa cen-trale. Durante la cerimonia di premiazione, ha pronunciato un discorso di elogio e di sincero affetto verso quell'area di mondo fatta di tanti diversi mondi, di tolleranza e incontro necessitante dell'altro, di capa-cità di convivenza nonostante i conflitti, quasi una metafora della letteratura, qua-le "fessura dalla quaqua-le si riesce a vedere meglio, qualsiasi cosa ci sia da vedere".

DONATELLA SASSO

M i r o s l a v K r l e z a , IL RITORNO DI FLLIP LATI-NOVICZ, ed. orig. 1932, trad. dal serbo-croato di Silvio Ferrari, pp. 238, €18, Zandonai, Rove-reto 2009

Bene ha fatto Zandonai a proporre una riedizione rivista e corretta di questo ro-manzo ingiustamente dimenticato. La

pre-cedente edizione italiana risaliva al 1983, a cura della Studio Tesi di Pordenone II cu-ratore e il traduttore di allora, Silvio Ferrari, riconoscendone alcune imperfezioni, ha oggi rimesso mano al testo, arricchendolo con due saggi di commento; l'introduzione è di Predrag Matvejevic. Composto nel 1932 da Miroslav Krleza, uno dei più ap-prezzati e contraddittori scrittori croati del secolo scorso, ebbe immediatamente un grande successo in patria e all'estero. Jean-Paul Sartre, durante un incontro pub-blico a Zagabria nel 1960, definì il Filip

La-tinovicz, scritto sei anni prima della Nausea,

un autentico romanzo esistenzialista. Krleza, nato nel 1893, oppositore della po-litica degli Asburgo, aderì al comunismo fin dal 1917, ma dopo un soggiorno in Unione Sovietica assunse un atteggiamento critico che nel 1937 gli costò l'espulsione dal par-tito, su decisione dello stesso Tito. Durante la seconda guerra mondiale fu arrestato due volte dagli ustascia e, dopo la vittoria, Tito lo reintegrò a pieno titolo nella vita cul-turale del paese. Mantenne sempre un at-teggiamento libero, favorevole alla pluralità di temi e stili in letteratura, e fondò il celebre Istituto lessicografico jugoslavo, che oggi porta il suo nome. Il ritorno di Filip

Latino-vicz, insieme al dramma I Signori Giembaj,

è l'opera più compiuta di Krleza, in cui com-paiono tutti i temi a lui più cari. Filip Latino-vicz è un pittore, che dopo anni sregolati trascorsi all'estero, torna in Croazia dalla fa-miglia d'origine. Il suo arrivo risveglia senti-menti sopiti e innesca nuovi legami che condurranno a un duplice esito tragico. Fi-lip si innamora di una donna sposata a un uomo annichilito dai fallimenti, che per ti-more di perderla la uccide. Conosce due membri della nobiltà con i quali si scontra duramente esponendo le sue idee di pro-gresso e di attenzione verso i più deboli. Ma il vero dramma ruota attorno all'equivo-ca figura materna e al padre mai conosciu-to, il cui nome verrà rivelato in un tragico fi-nale, quando i giochi saranno ormai chiusi.

( D . S . )

Filip David, IL PRINCIPE DEL FUOCO, ed. orig.

1987, trad. dal serbo-croato di Alice Parmeggia-ni, pp. 94, €11,50, Zandonai, Rovereto 2009

I dieci racconti minimali di questa raccol-ta, che congiungono elementi di mistica ebraica, atmosfere della tradizione occulti-sta alla Meyrink, visioni oniriche e prefigu-razioni di catastrofi, hanno come tema do-minante la morte, propria o dei propri cari, per cause naturali o per indicibile violenza, prefigurata o consumata. All'angoscia di morte è costantemente affiancata l'ansia di conoscenza, nella sua duplice veste di for-za vitale e, insieme, di limite umano e po-tenziale maledizione per chi osa chiedere troppo. Composti nel 1987 (ma potrebbero sembrare fuori dal tempo) da Filip David,

un eclettico scrittore serbo di origini ebrai-che, questi racconti lasciano trapelare rife-rimenti storici inequivocabili. Il linciaggio di un bambino da parte di suoi coetanei che precipitano in un abisso senza principio né fine, lo shtetl dato in fiamme dai cosacchi, una rivisitazione della leggenda del Golem sono echi neanche troppo criptici delle per-secuzioni antisemite, dei pogrom orientali, della Shoah. David, nato nel 1940, durante la seconda guerra mondiale perse cin-quanta dei suoi familiari, ma si salvò anche grazie alle capacità narrative di sua madre. A soli tre anni, con il fratello, fu costretto a una durissima marcia di civili imposta dagli occupanti nazisti, che non si accorsero del-le loro origini ebraiche. Spronò i bambini a non cedere alla stanchezza, rischiando l'immediata fucilazione, il racconto della mamma di un albero di ciliegie che li atten-deva alla fine del cammino. In quella pre-coce esperienza si impressero nell'autore il valore salvifico della narrazione e un dolore in qualche misura irrecuperabile. Noto al pubblico italiano soprattutto come sceneg-giatore del film La polveriera di Goran Pa-skaljeviò David è stato uno strenuo opposi-tore della politica di MiloSeviò ha animato circoli di intellettuali estranei alle logiche ul-tranazionaliste, durante i tre anni dell'asse-dio di Sarajevo ha tenuto una rubrica fissa a Radio France International esprimendo la sua vicinanza alla città. Contrariamente alle sue aspettative, in molti a Sarajevo lo ascol-tarono, trovando la forza di camminare fino all'albero di ciliegie.

(D.S.)

Paula Fox, IL DIO DEGLI INCUBI, ed. orig. 1990,

trad. dall'inglese di Gioia Guerzoni, pp. 223, € 18,50, Fazi, Roma 2009

Probabilmente ispirato, come molti dei suoi precedenti romanzi, a dati biografici, questo The God of Nightmares, racconta la fuga di una giovane donna, Helen, da New York a New Orleans durante gli anni della seconda guerra mondiale. Trovato un lavo-ro di fortuna, come commessa in una ne-gozio di biancheria intima (è unico lo sguar-do della ragazza sulle clienti in preda alla paura di invecchiare, mentre torturano un povero corsetto, "manipolavano ganci e oc-chielli, pizzicavano i risvolti elastici e le stecche e tiravano le giarrettiere con una violenza tale che temevo che lo strappas-sero"), Helen va a vivere da Lulu, la zia al-colizzata gravemente danneggiata nel fisi-co. Incontri, amori, povertà e tanta malinco-nia per un'età dell'oro mai vissuta, ma solo immaginata, fanno pensare alle atmosfere di Tennessee Williams (c'è anche una sto-ria omosessuale celata ma nota a tutta la comunità), corrette da un tocco di sarca-smo e di sano realisarca-smo. Scrittura vivace, fi-nale aperto per una formazione che finisce nel disincanto. La causa sta,

probabilmen-te, nella capacità di smontare le proprie il-lusioni nel momento stesso in cui nascono: "Ero tormentata dall'amore. Len e io ci sdoppiavamo, diventando quattro persone: le due civili, quasi formali, chiacchieravamo nei bar (...) Poi uno sguardo improvviso, un lampo, una sensazione di debolezza che mi travolgeva, e percepivo l'imminenza del-le altre due, che sudavano e gemevano nelle notti umide".

CAMILLA VALLETTI

Kurt Vonnegut, RICORDANDO L'APOCALISSE,

ed. orig. 2008, trad. dall'inglese di Vincenzo Mantovani, pp. 185, €16, Feltrinelli, Milano 2008

Ricordando l'apocalisse è una raccolta

postuma di racconti di Kurt Vonnegut, un autore celebrato per la sua capacità di mescolare scrittura di protesta, fanta-scienza e commedia dal gusto dark. Il li-bro è introdotto da una toccante nota del figlio Mark Vonnegut insieme a una lettera dell'autore del 1945 e a un discorso che lo stesso tenne nel 2007, poco prima di mo-rire. I due testi autobiografici si presentano come il testamento spirituale di un artista consapevole e disincantato, la cui visione della vita e del mondo è stata plasmata dall'esperienza della guerra e del bombar-damento di Dresda nel 1945. In quell'anno Vonnegut era prigioniero in Germania e gli

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