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di Angela Marazzita (V B Liceo Scientifico di Petilia)

Angela Marazzita

Giacomo Leopardi, ritratto di S. Ferrazzi, conservato in Casa Leopardi a Recanati

L’Infinito

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piacere, dice che l’unica soluzione alla perpetua insoddisfazione dell’uomo, causata dalla sua ricerca infinita del piacere, è l’immaginazione, definita “primo fonte della felicità umana”.

Ma l’immaginazione è l’elemento principale della poesia, è la sua stessa essenza. Quindi la poesia è la prima fonte di piacere per l’uomo, in una vita in cui prevalgono gli eventi negativi.

Leopardi, nel corso della sua breve vita è riuscito a trasformare il dolore in bellezza, partendo proprio dai limiti che la vita pone all’uomo, superandoli e usandoli come punto di partenza, come se quei dolori fossero proprio la famosa siepe che lui canta nell’“Infinito”, una siepe che ostacola la vi(s)ta, ma al contempo permette di vedere oltre, di plasmare nella mente la bellezza, perché “L’anima s’immagina ciò che non vede” (Zibaldone).

Leopardi non può essere liquidato con posizioni semplicistiche, che lo vedono solo come un pessimista e uno sfortunato. Un poeta pessimista non avrebbe cantato il dolce naufragar nel mare dell’infinito e non avrebbe composto il meraviglioso capolavoro che è “La ginestra”, suo testamento spirituale, scritto negli ultimi anni di vita, conosciuto anche come “Il fiore del deserto”, in cui Leopardi manda un messaggio di speranza amara. “La ginestra” è un inno alla solidarietà e all’empatia e, ancora oggi, quasi duecento anni dopo essere stata scritta, indica la strada da seguire per uscire insieme dalle crisi di ogni tipo, senza individualismi dannosi ed egoismi. Leopardi invita gli uomini a unirsi in una “social catena”, ossia una coalizione, una guerra comune contro l’unico vero nemico: la natura, definita

“dura nutrice”. La lotta contro la natura induce gli uomini alla filantropia, alla fratellanza, all’amore verso il prossimo, alla solidarietà e questo sarebbe l’unico vero progresso possibile per l’umanità. Non è un progresso scientifico o tecnologico (che Leopardi, al contrario, considera “regresso”), bensì civile e morale. Oltre a lanciare questo messaggio importante, Leopardi, attraverso l’immagine del fiore del deserto, offre un modello di comportamento da seguire per l’uomo. La ginestra è l’unico fiore che nasce nel paesaggio arido e desolato del Vesuvio; è continuamente sottoposta alle minacce del vulcano, il quale fa

parte di una natura “ignara”, che “nol vede”, ma, nonostante ciò, la ginestra rifiorisce laddove viene distrutta. È un fiore coraggioso, paziente, fragile e flessibile, non codardo. La ginestra è consapevole della sua fragilità, si lascia piegare dalla lava del Vesuvio, ma non si spezza, non perde la sua dignità.

Continua a consolare il deserto lavico emanando il suo profumo eroico. Essa riparte dal superamento di quel limite, così come fa Leopardi con la sua poesia, che gli permette di guardare oltre il suo dolore, di scorgere il bello oltre l’estremo orizzonte.

Giacomo, come la ginestra, ha fede nella vita. Una fede celata dalla malinconia, ma pur sempre fede. Questa fiducia nella vita la si può scorgere in altre opere del poeta, ad esempio nel

“Dialogo di Plotino e di Porfirio”, nel quale Giacomo, celandosi dietro il filosofo neoplatonico Plotino, spiega al suo discepolo Porfirio, il quale vuole suicidarsi, che il vero antidoto al male della vita è la filantropia, che di nuovo ritorna. Per affrontare un dolore è necessario che l’uomo lo condivida con qualcun altro, in modo tale che vi sia un conforto da parte di quello.

L’amicizia, così come l’amore, sono tematiche molto care a

Manoscritti leopardiani alla Biblioteca Nazionale di Napoli

Il Vesuvio

Leopardi, punti di forza che lo hanno spinto ad andare avanti, nonostante le crude delusioni riscontrate nella vita, le quali avevano pian piano inaridito e abbattuto il cuore del poeta, come egli esprime in

“A se stesso”, poesia delle morte illusioni.

Ma, nonostante tutto, Leopardi ha avuto il coraggio di andare avanti, non è ricorso al suicidio, come farebbe una persona davvero esausta dal soffrire.

Come lascia intendere il poeta nel “Dialogo

di un venditore di almanacchi e di un passeggere”, noi uomini diamo più peso ai ricordi infelici che a quelli felici. È molto vero.

I dolori sono come dei grossi macigni che gravano sulla nostra anima e che dobbiamo trasportare per tutta la vita, ma è anche vero che sono proprio quei macigni che, in maniera proporzionata alla loro grandezza, opprimono talmente tanto l’anima al punto di liberarla, ed è allora che fuoriesce tutta la bellezza che risiede nel profondo di essa. Ogni uomo possiede del bello, chi più, chi meno. Ma non tutti riescono a portarlo fuori. Ecco! Leopardi ci è riuscito, partendo proprio da quell’enorme macigno che gravava su di lui. Egli si è avvicinato attentamente alla vita, ponendosi spesso degli interrogativi mai risolti, ha studiato a fondo l’esistenza, capendo che in essa esiste tanto dolore, tanta sofferenza, ma ha mantenuto viva la sua curiosità e la sua stessa voglia di vivere, attraverso il suo canto.

Come dice Alessandro D’Avenia nel suo libro L’arte di essere fragili, Giacomo Leopardi usa la sua fragilità come trampolino di lancio verso la bellezza della vita, che viene resa eterna proprio attraverso la poesia. “Cos’è la poesia se non canto di ciò che non deve finire?”, scrive D’Avenia. Egli parla di Leopardi

come colui che ha costruito un’altra terra fecondissima, la terra di coloro che sanno essere fragili, nella quale ha creato beltà e l’ha conservata in eterno.

Lo definisce “poeta della malinconia”,

“nato da un limite per superarlo, come la Fenice”. Leopardi non è pessimista, poiché canta la bellezza dell’universo, il quale non è tenuto a esser bello, eppure lo è. Allo stesso modo, i versi di Giacomo, sono belli “nonostante la tenebra”. Un po’ come Ungaretti, che, nella sua poesia “Veglia”, restava sempre più ancorato alla vita perché aveva visto l’immagine della morte. Lo stesso Ungaretti scrive: “Chi è nato per cantare anche morendo canta”.

È proprio in questo che consiste il bellissimo paradosso leopardiano: l’assenza che genera l’essenza, la mancanza che crea bellezza. La fragilità di Leopardi è come quel chicco di sabbia che, una volta entrato nell’ostrica, la ferisce e da lì si genera la perla; è la crepa del vaso rotto, dalla quale entra la luce. A proposito di tale paradosso, un grande fisico diceva:

“La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva. Chi supera la crisi, supera se stesso senza essere superato” (Albert Einstein).

Se tutti noi umani imparassimo ad affrontare la vita secondo questi insegnamenti, con lo stesso atteggiamento di Leopardi, se fossimo tutti fiori del deserto, il mondo sarebbe un posto migliore, un posto più profumato.

Dunque, “la vita è male”, ma quel male è una siepe, oltre la quale è possibile scorgere l’infinito della bellezza. Sta all’uomo essere curioso e saper osservare oltre i limiti che la vita ci pone.

Leopardi e Ranieri nel film Il giovane favoloso di Mario Martone (2014)

Targa in un palazzo dei Quartieri Spagnoli a Napoli

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