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fam XI 7: L'attendismo di Decimo e le sollecitazioni d

gennaio 43 a.C.)

III.2 fam XI 7: L'attendismo di Decimo e le sollecitazioni d

di Cicerone

TESTO E TRADUZIONE fam. XI,7

M. CICERO S. D. D. BRUTO IMP. COS. DESIG.

[1] Cum adhibuisset domi meae Lupus me et Libonem et Servium, consobrinum tuum, quae mea

fuerit sententia, cognosse te ex M. Seio arbitror, qui nostro sermoni interfuit: reliqua, quamquam statim Seium Graeceius est subsecutus, tamen ex Graeceio poteris cognoscere.

[2] Caput autem est hoc, quod te diligentissime percipere et meminisse volam, ut ne in libertate et

salute populi Romani conservanda auctoritatem senatus exspectes nondum liberi, ne et tuum factum condemnes (nullo enim publico consilio rem publicam liberavisti, quo etiam est res illa maior et clarior) et adulescentem vel puerum potius, Caesarem iudices temere fecisse, qui tantam causam publicam privato consilio susceperit, denique homines rusticos, sed fortissimos viros civisque optimos dementis fuisse iudices, primum milites veteranos, commilitones tuos, deinde legionem Martiam, legionem quartam, quae suum consulem hostem iudicaverunt seque ad salutem rei publicae defendendam contulerunt. Voluntas senatus pro auctoritate haberi debet, cum auctoritas impeditur metu.

[3] Postremo suscepta tibi causa iam bis est ut non sit integrum, primum Idibus Martiis, deinde

proxime, exercitu novo et copiis comparatis. Quam ob rem ad omnia ita paratus, ita animatus debes esse, non ut nihil facias nisi iussus sed ut ea geras quae ab omnibus summa cum admiratione laudentur.

fam. XI,7

Scritta a Roma a metà di dicembre del 44 a.C.

MARCO CICERONE SALUTA DECIMO BRUTO IMPERATOR, CONSOLE DESIGNATO

[1] Il parere da me espresso nella riunione che Lupo ha promosso a casa mia con Libone e con tuo cugino Servio, penso tu l'abbia appreso da Marco Seio, che partecipò al nostro colloquio; il resto potrai apprenderlo da Greceio, per quanto egli sia partito subito dopo Seio.

essendo in ballo la libertà e l'incolumità del popolo romano, non devi aspettare l'autorizzazione ufficiale di un senato che non è ancora libero. Diversamente, tu condanneresti l'atto che hai compiuto, dato che hai liberato la repubblica senza alcuna deliberazione ufficiale, e proprio per questo quell'impresa è ancora più grande e più illustre; inoltre giudicheresti avventata l'iniziativa di Cesare, un giovane, anzi un ragazzo, che con una decisione privata si è assunto una responsabilità politica così grave; infine giudicheresti dei pazzi quegli uomini rozzi sì, ma valorosissimi soldati e ottimi cittadini, e cioè in primo luogo i veterani, tuoi compagni d'armi, in secondo luogo la legione Marzia e la quarta legione, che hanno giudicato il loro console nemico pubblico e sono accorsi a difendere la repubblica. La volontà del senato dev'essere considerata equivalente a una delibera ufficiale, quando le delibere ufficiali sono impedite dalla paura.

[3] Infine tu hai già due volte preso posizione, così che non sei libero ora di scegliere: la prima volta alle idi di marzo, la seconda recentemente, quando hai formato un nuovo esercito e hai reclutato truppe. Per questi motivi devi essere pronto a tutto, con la ferma intenzione non di aspettare gli ordini altrui per agire, ma di compiere azioni che siano ammirate senza riserve ed elogiate da tutti.

COMMENTO

Sulla base delle reiterate esortazioni rivolte dall'oratore a Decimo affinché questi intraprendesse la guerra contro Marco Antonio, è plausibile ritenere che la lettera sia stata scritta alcuni giorni prima del 20 dicembre del 44 a.C., data dell'adunanza senatoria in cui il congiurato avrebbe assunto definitiva posizione contro il console. Cicerone, nel momento in cui scriveva la missiva, si trovava a Roma: conscio del rischio cui lo aveva esposto la redazione della violentissima invettiva contro Marco Antonio, nota come “Seconda Filippica”22, aveva ritenuto opportuno lasciare l'Urbe nella metà di ottobre per

farvi ritorno soltanto il 9 dicembre del 44 a.C23, approfittando dell'assenza del

console da Roma. Il 29 novembre, infatti, Antonio, dopo aver ricevuto a Tivoli il giuramento dei soldati e l'omaggio del senato, dei cavalieri e del popolo, si era messo in marcia alla volta della Gallia Cisalpina, dirigendosi verso

22 L'orazione non fu pronunciata in senato il 19 settembre da Cicerone contro Antonio: si trattava infatti di un'opera composta a tavolino dal contenuto gravemente compromettente, frutto di un'attenta ponderazione da parte dell'Arpinate. Cicerone, per ragioni di sicurezza, non avrebbe presenziato in senato fino al 20 dicembre: cfr. Cristofoli 2004, pp. 1-12.

Rimini.24 Tale versione dei fatti è contraddetta dalla testimonianza di

Cicerone, il quale nell'epistolario presenta la partenza di Antonio come una fuga precipitosa provocata dalla paura derivata dall'accresciuta autorità di Ottaviano e dalle recenti defezioni delle legioni Marzia e Quarta.25 Al di là

dell'inattendibilità della versione ciceroniana in quanto interessata a denigrare l'immagine del console, deformando la realtà dei fatti, risulta comunque opportuno ricordare che Ottaviano in ottobre aveva iniziato la sua opera di reclutamento dei veterani di Cesare allocati in Campania, e al contempo aveva inviato propri emissari per corrompere le legioni macedoniche di cui Antonio aveva assunto il comando in vista del conflitto contro Decimo Bruto26,

affinché disertassero dal rivale e aderissero alla sua causa.27 La promessa di

lauti donativi da parte di Ottaviano, di gran lunga superiori a quelli offerti da Antonio, unitamente all'abilità dei suoi agenti nella campagna propagandistica antiantoniana e alla scarsa propensione del console nel vendicare Cesare, avevano condotto alla defezione della legione Marzia il 24 novembre del 44 a.C, alla quale era seguita dopo pochi giorni quella della legione Quarta.28 In

un simile contesto, si colloca un episodio singolare che vede come protagonista Decimo Bruto. Secondo quanto riferito da Cicerone in una lettera

24 App. civ. III,46,188-189; Cass. Dio XLV,13,5; Grattarola 1990, p. 102 e p. 113, nota 96.

25 Cic. fam. X,28; Mangiameli 2012, p. 73; sul dissenso maturato dalle truppe cesariane dopo la morte di Cesare, cfr. Mangiameli 2014, pp. 79-93.

26 Marco Antonio il 9 ottobre era partito per Brindisi dove erano stanziate le legioni macedoniche che intendeva guidare contro Decimo Bruto in Cisalpina. Cic. fam. XII,23,2 gli attribuisce, invece, l'intenzione di condurle a Roma: si trattava si una chiara invenzione dell'oratore, volta a giustificare gli arruolamenti illegali compiuti da Ottaviano in Campania, in modo tale che si configurassero come necessari per la salvezza della repubblica; cfr. Grattarola 1990, p. 104-105.

27 Sull'opera di corruzione e reclutamento di veterani e legionari, cfr. App. civ. III,40,164; Cass. Dio XLV,12,1; Grattarola 1990, pp. 31-32.

28 Sulla guerra di propaganda tra Antonio e Ottaviano nei mesi di ottobre e novembre del 44 a.C., cfr. Cristofoli 2010a, pp. 51-71; sulle ragioni addotte dalle truppe per giustificare il loro stato di insoddisfazione, cfr. App. civ. III,43,175; Mangiameli 2014, pp. 82-85; sulla defezione della legione Marzia e della legione Quarta, cfr. Cic. Phil. III,15,39; App. civ. III,45,185; Cristofoli 2010a, pp. 65- 67.

indirizzata ad Attico29, Antonio, al fine di consolidare l'ardimento dei legionari

e accrescere l'odio del popolo contro i cesaricidi, aveva messo in circolazione la voce che il congiurato avesse tentato di farlo assassinare da uno schiavo subornato di nome Mirtilo. La vicenda doveva aver avuto luogo tra il 9 ottobre, data della partenza di Antonio da Roma per raggiungere le legioni macedoniche a Brindisi, e il 5 novembre, data della missiva indirizzata ad Attico. Poiché la trovata di Antonio è facilmente spiegabile alla luce della lotta propagandistica tra i due leaders cesariani al fine di accapparrarsi il favore delle legioni, la versione di Cicerone, finalizzata a sottolineare la falsità dell'accusa imputata a Decimo, risulterebbe attendibile. Ciò nonostante, è lecito ipotizzare che un fondo di verità poteva comunque sussistere. Al fine di delinearlo, occorre stabilire una correlazione con un altro tentativo di uccidere Antonio, verificatosi poco prima, attorno al 4 ottobre. Il mandante dell'attentato ai danni del console in tale circostanza era stato identificato in Ottaviano.30 Anche in questo caso, la maggioranza degli studiosi propende per

la tesi della macchinazione da parte di Antonio.31 Tuttavia è utile constatare

che l'unica fonte strettamente coeva che conserva memoria di entrambe le vicende sia Cicerone e pertanto la sua testimonianza risulta essere troppo tendenziosa. Inoltre sembrerebbe piuttosto inverosimile che il console avesse messo in circolazione la voce di due attentati a distanza così ravvicinata l'uno dall'altro, avendo cura di precisare addirittura il nome dello schiavo

29 Cic. Att. XVI 11,5 del 5 novembre 44 a.C: “De Myrtilo dilucide. O qualis tu semper istos! Itane?

In D. Brutum? Di istis!”. “Riguardo a Mirtilo fornisci ragguagli con chiarezza! Oh! Che specie di

gente è codesta che tu sempre descrivi perfettamente! È proprio così? Contro Decimo Bruto? Che gli dèi diano un malanno a codesta gente!”; cfr. anche Att. XV, 13a,3, del 28 ottobre: “Sed perscribe,

quaeso, quae causa sit Myrtilo (poenas quidem illum pependisse audivi) et satisne pateat unde curruptus”. “Però descrivimi per filo e per segno, te ne prego, il tipo di causa giudiziaria in cui è

implicato Mirtilo (ho sentito dire che ne ha pagato il fio) e se risulta sufficientemente chiaro da chi è stato corrotto”.

30 Dell'episodio conservano memoria Cic. fam. XII,23,2; Svet. Aug. 10,3; Plut. Ant. 16,4; App. civ. III, 39,157.

ingaggiato da Decimo Bruto per ucciderlo. Di conseguenza, l'accusa imputata al congiurato da parte del console potrebbe essere vera. In tal caso, si possono evincere due dati: innanzitutto che fin dagli inizi di ottobre Decimo fosse in contatto con dei collaboratori pronti a eseguire i suoi ordini in Italia; in secondo luogo il fatto stesso che il congiurato avesse incaricato lo schiavo Mirtilo di uccidere il console suggerirebbe la sua potenziale progettualità politica nell'Urbe. Se, infatti, Antonio fosse stato eliminato, Decimo avrebbe evitato la guerra contro il console, e dunque avrebbe potuto fare immediatamente ritorno a Roma.

Antonio si accingeva a condurre contro il congiurato un esercito che, anche se mutilato a causa delle diserzioni subìte, era pur sempre efficiente: partito da Tivoli con la fedele legione V Alaudae, a Rimini era stato raggiunto dalle due legioni macedoniche rimastegli fedeli, la II e la XXXV32, condotte dal fratello,

Lucio Antonio; a tali forze militari, dovevano sommarsi la sua scorta personale, le truppe ausiliarie e le reclute33. Seriamente allarmato per

l'avvenuta partenza di Antonio da Roma, Cicerone aveva esortato all'azione Decimo Bruto, che in quel momento era attestato a Modena.34 In particolare in

una lettera datata al 9 dicembre del 44 a.C. aveva cercato di persuadere il congiurato del fatto che non avrebbe avuto alcun motivo di esitare a combattere contro il console, dal momento che aveva portato a compimento l'assassinio di Cesare, definito “la più grande impresa a memoria d'uomo”.35

L'oratore aveva dunque promesso di offrire tutto il proprio supporto al

32 Probabilmente il vincolo di fedeltà era stato mantenuto saldo poiché queste due legioni erano costituite da soldati pompeiani e, a differenza delle altre, avevano ricevuto dal console il cospicuo donativo di 500 denari. Per ulteriori dettagli, cfr. Grattarola 1990, p. 102.

33 App. civ. III,46, 188-189.

34 La notizia si può evincere da Cic. fam. XI,6, missiva indirizzata da Cicerone a Decimo verso la fine di settembre del 44 a.C. L'oratore, sostendendo che Lupo, figura che fungeva da corriere nella corrispondenza tra i due, avesse impiegato circa cinque giorni per raggiungere Roma da Modena, ci induce a ritenere che Decimo si trovasse in questa città della Cisalpina.

congiurato, rassicurandolo che avrebbe provveduto ad accrescere la sua dignitas.36 Poiché non si sono conservate missive scritte da Decimo dal

settembre del 44 a.C. fino al 29 aprile del 43 a.C.37, per quanto concerne tale

lasso di tempo, possiamo cercare di carpire il pensiero del congiurato e i suoi obiettivi unicamente avvalendoci delle lettere inviate da Cicerone. Nella presente, l'oratore esordisce facendo riferimento a una riunione che Lupo, persona che fungeva da corriere nella corrispondenza con il congiurato38,

aveva organizzato a casa sua. Al colloquio avevano partecipato Lucio Scribonio Libone39, suocero di Sesto Pompeo, Servio Sulpicio Rufo, cugino

di Decimo40, Marco Seio, da identificarsi con il figlio di un Seio morto verso

la fine del 46 a.C.41, e Greceio42, amico e forse legato di Decimo. Cicerone

ipotizza che il parere da lui espresso nella riunione e in sintesi riproposto nella lettera indirizzata a Decimo (caput autem est hoc), fosse già stato comunicato al liberator da Marco Seio, dichiarando che le opportune delucidazioni relative al resto del colloquio gli sarebbero state fornite da Greceio. Malgrado l'identificazione di questi personaggi sia alquanto problematica, un dato risulta evidente: Decimo, oltre ad avere un rapporto di corrispondenza epistolare con Cicerone, disponeva di personali informatori che lo ragguagliavano sullo status quo dell'Urbe. Il fatto è particolarmente significativo perché indica che

36 Sulla promessa di dignitas intesa come “strategia di cortesia” nell'epistolario ciceroniano, cfr. Hall 2009, pp. 204-205.

37 Cic. fam. XI, 9.

38 Cfr. Cic. fam. XI, 6 e XI, 5; in merito alla sua identità non ci è dato sapere nulla.

39 Lucio Scribonio Libone al tempo della guerra civile si era schierato dalla parte di Pompeo, assumendo il comando della flotta; cfr. Caes. Civ. III,5,3.

40 Tale personaggio è da identificare in Servio Sulpicio Rufo, figlio del giureconsulto amico di Cicerone e console nel 51 a.C. Non sappiamo con esattezza definire il grado parentale che lo legava a Decimo. Tuttavia, possiamo supporre che, poiché sua madre apparteneva alla gens Postumia, il legame parentale che lo univa al congiurato sarebbe stato soltanto di tipo adottivo: come è stato messo in evidenza nel primo capitolo, infatti, il congiurato era stato adottato da un Postumio Albino: cfr. Shackleton Bailey 2004, p. 494, nota 2.

41 Se ne ha notizia in Cic. Att. V,13,2. 42 cfr. Cic. Att. XV,8.

la sua comunicazione con Roma non si limitasse allo scambio di lettere con Cicerone, ma che egli fosse provvisto di più collaboratori, pronti a informarlo sugli ultimi sviluppi politici. Ciò gli avrebbe consentito di studiare la situazione e individuare con serenità il momento più proficuo per far ritorno nell'Urbe, affinché le sue aspirazioni politiche potessero trovare piena soddifazione. A tal proposito, è opportuno anche notare come le esortazioni alla guerra da parte di Cicerone risultino particolarmente ricorrenti: al di là del chiaro intento parenetico, ci inducono a sospettare che il congiurato fosse poco incline all'azione. Risulta alquanto strano il fatto che Decimo nel mese di settembre nella lettera indirizzata all'oratore si fosse dimostrato risoluto ad agire per salvaguardare le istituzioni repubblicane, mentre a metà dicembre, quando la minaccia di Antonio era ormai alle porte, fosse restio a intraprendere la guerra, pur consapevole dell'indiscussa fedeltà del suo esercito e dell'appoggio incondizionato offertogli da Cicerone.

È interessante notare la pervicacia con la quale l'oratore incita Decimo a intraprendere un atto illegale. Manipolando abilmente la realtà dei fatti, intende conferire una veste di ufficialità a delle azioni che certo si configuravano come sovversive, ma che a suo avviso si erano rivelate inevitabili sulla base delle contingenze. Ecco allora che, allo scopo di persuadere Decimo, costruisce un vero e proprio vocabolario dell'illegalità, sul quale è doveroso soffermare la nostra attenzione. Nella missiva l'oratore afferma: “essendo in ballo la libertà e l'incolumità del popolo romano, non devi aspettare l'autorizzazione ufficiale di un senato che non è ancora libero”. Dalla frase si può evincere che il senato non avesse ancora proceduto ad alcuna deliberazione dal momento che su di esso incombeva ancora la minaccia delle armi dei legionari, di cui Antonio si era servito per ottenere l'approvazione della sua legislazione. A contrario di quanto sostenuto

dall'oratore, occorre osservare che a metà dicembre risulta assai improbabile che il Senato fosse ancora cinto d'assedio dagli armati di Antonio, poiché questi ormai si trovava lontano da Roma e non aveva più alcun interesse nel prolungare tale clima di terrore, avendo già ottenuto la ratifica dei provvedimenti che legittimavano la sua condotta. Pertanto il Senato, per quanto infiacchito e prostrato, avrebbe comunque potuto conferire una veste ufficiale all'iniziativa di Decimo Bruto. Da una lettura in controluce, l'attendismo del congiurato può essere spiegato alla luce del suo personale interesse politico: prima di passare all'azione, desiderava, infatti, ricevere da Cicerone quella legittimazione da parte del Senato che successivamente avrebbe reso agevole il suo cursus honorum nell'Urbe. Nell'ottica ciceroniana, invece, l'esitazione di Decimo poteva essere ricondotta agli eccessivi scrupoli legalitari del congiurato. L'oratore, fermamente intenzionato a dimostrare che niente potesse essere risolto attraverso l'intervento del Senato, almeno fino a quando i nuovi consoli non fossero entrati in carica il primo gennaio del 43 a.C.43, sostiene che nelle suddette circostanze Decimo dovesse assumersi

personalmente l'iniziativa dell'impresa. Secondo Cicerone “la conclusione doveva essere coerente con gli inizi”44: l'uccisione di Cesare avrebbe dovuto

essere proseguita e completata con l'eliminazione di Antonio, che a sua volta voleva instaurare un potere dispotico. Per vincere l'esitazione di Decimo, gli ricorda che il cesaricidio era stato compiuto nullo publico consilio, ossia senza che questi avesse ricevuto preventivamente alcuna deliberazione ufficiale, e proprio per questo l'impresa doveva essere considerata maior et clarior. Negli stessi termini era necessario che si configurasse la guerra contro Antonio: uno scontro inevitabile, che doveva prescindere da qualsiasi aspetto legalitario.

43 Cic. Att. XVI,9.

L'espressione “nullo publico consilio” è un altro concetto cardine che l'oratore inserisce nel suo lessico dell'illegalità, e che sarà ribadito nel prosieguo della missiva, nella variante di “privato consilio” riferita ad Ottaviano. Possiamo osservare come l'oratore implicitamente ravvisi, a distanza di tempo, un'evoluzione nel comportamento del Nostro: se alle Idi di marzo non aveva esitato a fornire il proprio aiuto ai compagni d'impresa, non si era fatto scrupoli nel compiere un atto sovversivo, arrivando addirittura a tradire il suo amato generale, ora invece ritiene inopportuno agire. Il cambiamento si rivela ancora più significativo, se consideriamo che all'incirca tre mesi prima sembrava che Decimo fosse risoluto a combattere: aveva comunicato all'oratore di aver testato la fedeltà del suo esercito in vista della difesa della causa repubblicana. Il congiurato non si era limitato a questo, ma aveva anche provveduto a rafforzare con nuove leve le due legioni di cui disponeva nella Gallia Cisalpina, arruolando sul posto un'altra legione (exercitu novo et copiis comparatis).45 Dunque, appurato che un cambiamento nel suo comportamento

effettivamente c'era stato, al fine di motivare questa presunta incoerenza, è necessario indagare quale fosse stata la reale ragione che lo aveva provocato. Al di là degli scrupoli legalitari addotti da Cicerone, possiamo ragionevolmente ipotizzare che Decimo fosse rimasto profondamente deluso dal fatto che l'oratore, pur avendo promesso ripetutamente di tutelare la sua dignitas, non lo aveva mai concretamente aiutato al fine di fargli ottenere l'ambita supplicatio che gli aveva richiesto. Pertanto, se lo scopo del congiurato era quello di tornare a Roma, a maggior ragione non avrebbe avuto più un valido motivo per offrire il proprio aiuto a Cicerone dopo che questi aveva lasciato cadere nel vago la sua richiesta. Bisogna ricordare anche che,

45 Cfr. anche App. civ. III,49,201: “Il suo esercito era formato da un gran numero di gladiatori e da tre legioni, delle quali una era di uomini arruolati da poco e ancora inesperti, due invece, già da tempo ai suoi ordini gli erano fedelissime.”

per quanto ci è dato sapere, era stato Decimo ad iniziare la corrispondenza epistolare con Cicerone e non viceversa: perciò, essendo l'iniziativa partita da lui, è probabile che avesse in mente un preciso obiettivo personale, per il cui raggiungimento pensava di avvalersi dell'aiuto dell'oratore. L'attendismo del congiurato, apparentemente giustificato dallo scrupolo legalitario, potrebbe rivelare il suo disinteresse a combattere. È lecito ritenere che Decimo non intendesse agire in difesa di un bene comune, della causa repubblicana, bensì volesse perseguire le proprie ambizioni che avrebbero potuto essere appagate solo nell'Urbe; il suo temporeggiamento, l'apparente incoerenza del suo