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fam XI 18: Decimo Bruto e i timori manifestati sulla

gennaio 43 a.C.)

IV.4 fam XI 18: Decimo Bruto e i timori manifestati sulla

condotta del Senato

TESTO E TRADUZIONE

fam. XI,18

M. CICERO S. D. D. BRUTO IMP. COS. DESIG.

[1] Etsi ex mandatis, quae Galbae Volumnioque ad senatum dedisti, quid timendum putares,

suspicabamur, tamen timidiora mandata videbantur, quam erat dignum tua populique Romani victoria. Senatus autem, mi Brute, fortis est et habet fortes duces. Itaque moleste ferebat se a te, quem omnium quicumque fuissent, fortissimum iudicaret, timidum atque ignavum iudicari. [2] Etenim, cum te incluso spem maximam omnes habuissent in tua virtute florente Antonio, quis erat, qui quidquam timeret profligato illo, te liberato? Nec vero Lepidum timebamus; quis enim esset, qui illum tam furiosum arbitraretur, ut, qui in maximo bello pacem velle se dixisset, is in optatissima pace bellum rei publicae indiceret? [3] Nec dubito, quin tu plus provideas; sed tamen tam recenti gratulatione, quam tuo nomine ad omnia deorum templa fecimus, renovatio timoris magnam molestiam afferebat. Quare velim equidem, id quod spero, ut plane abiectus et fractus sit Antonius; sin aliquid virium forte collegerit, sentiet nec senatui consilium nec populo Romano virtutem deesse nec rei publicae te vivo imperatorem.

XIIII. Kal. Iun.

73 Sul carteggio tra Cicerone e Planco, cfr. Bellincioni 1974, pp. 240-242; White 2010, pp. 150-158. 74 Cic. fam. X,13,2; cfr. anche Cic. fam. X,19,2 e X,20,3; White 2010, p. 150.

fam. XI,18

MARCO CICERONE SALUTA DECIMO BRUTO, IMPERATOR, CONSOLE DESIGNATO

[1] Anche se dai messaggi che hai inviato al senato per il tramite di Galba e di Volumnio immagino quali siano le ragioni che ti inducano a temere, tuttavia mi pare che questi messaggi siano improntati a timori eccessivi, rispetto a ciò che sarebbe degno della vittoria tua e del popolo romano. Il senato, caro Bruto, è coraggioso e hai dei capi coraggiosi; perciò mal sopporta di essere giudicato pauroso e fiacco proprio da te, che giudica l'uomo più coraggioso che sia mai esistito. [2] Infatti, se quando tu eri assediato e Antonio era potente, tutti riponemmo nel tuo valore le più grandi speranze, chi potrebbe avere qualche motivo di timore ora che lui è stato sconfitto e tu sei stato liberato? Né io temo Lepido; chi infatti potrebbe ritenerlo tanto pazzo che, dopo aver detto nel pieno della guerra che voleva la pace, ora che si è raggiunta una pace tanto desiderata, muove la guerra alla repubblica? [3] Non metto in dubbio che tu sia più lungimirante di noi; tuttavia, dopo che abbiamo appena celebrato azioni di grazie a nome tuo in tutti i templi degli dèi, questi nuovi timori apportano grave disagio. Perciò mi auguro, è chiaro, e spero che Antonio sia completamente annientato e stroncato; ma se dovesse invece riprendere un po' di forze, si accorgerà che al senato non manca capacità di decisione, al popolo romano non manca il valore, e alla repubblica, finché ci sei tu, non manca un generale.

19 maggio.

COMMENTO

La lettera è scritta da Cicerone il 19 maggio del 43 a.C., a pochi giorni di distanza da fam. XI,12, la missiva precedentemente analizzata. L'oratore, come si può evincere fin dall'esordio, con la presente intende rimproverare Decimo per il modo con il quale si era espresso in un suo recente dispaccio inviato al senato. Il congiurato aveva affidato l'incarico di far pervenire la comunicazione a Servio Sulpicio Galba, il bisnonno del futuro imperatore75, e

a Volumnio, personaggio citato anche in fam. XI,12. Sebbene il contenuto del dispaccio non sia specificato, tuttavia possiamo cercare di avanzare ipotesi in merito attraverso le osservazioni riportate da Cicerone. Dalle parole dell'oratore, si evince che si trattasse di una comunicazione in cui Decimo manifestava il proprio timore al senato, definendolo “timidus atque ignavus”.

75 Già in precedenza era emerso il ruolo di intermediario di Galba con Roma: questi, infatti, aveva prontamente fornito a Cicerone un resoconto della battaglia di Forum Gallorum, alla quale aveva partecipato detenendo il comando di una legione: cfr. supra, p. 197, nota 15.

Al fine di comprendere il perché di tale giudizio, è opportuno interrogarsi sull'origine di tale timore. È lecito supporre che le preoccupazioni di Decimo Bruto fossero legate alla figura di Ottaviano. Il congiurato, già in fam. XI,13, la missiva datata attorno al 9 maggio nella quale si era giustificato per il ritardo nell'inseguimento di Antonio, aveva confessato a Cicerone di non fidarsi di Ottaviano (“Caesari non credebam”). Decimo probabilmente temeva che il Senato supportasse il giovane Cesare nella sua aspirazione a divenire console. Se così fosse stato, egli avrebbe visto compromesso il suo disegno politico. Dobbiamo, infatti, tenere presente che Ottaviano, al fine di raggiungere il consolato, a partire dagli inizi di maggio aveva iniziato ad attuare una doppia strategia tesa, da un lato, alla riconciliazione con Antonio, dall'altro, al mantenimento delle buone relazioni, esclusivamente formali, con il Senato, al fine di strappare ad esso le maggiori concessioni76: alla luce di ciò

i timori del Nostro appaiono tutt'altro che infondati. Considerata la sua recente vittoria di Modena, tuttavia Cicerone reputa le preoccupazioni di Decimo eccessive. Inoltre a suo giudizio il Senato si era sentito offeso poiché il congiurato, esprimendosi in tali termini, ne avrebbe messo in discussione la capacità decisionale. L'oratore probabilmente intendeva in qualche modo rassicurare Decimo, ricordandogli che il Senato in occasione della vittoria di Modena aveva decretato per lui grandi riconoscimenti, che includevano il comando dell'esercito consolare e il futuro trionfo, mentre a Ottaviano aveva riservato soltanto un'ovazione. Per tali ragioni Decimo avrebbe dovuto manifestare una certa riconoscenza nei confronti del Senato: tacciandolo di ignavia, avrebbe ottenuto solo effetti controproducenti. Cicerone prosegue ribadendo il giudizio estrememente positivo che il Senato aveva di Decimo: questi viene definito “l'uomo più coraggioso che fosse mai esistito”, in

sostanza l'uomo a cui si doveva la vittoria di Modena, l'uomo grazie al quale Antonio era stato sconfitto. Di Ottaviano non viene fatto il minimo cenno. Chiaramente si trattava di una strategia messa in atto dall'oratore per vincere l'esitazione del congiurato. Come l'Arpinate stesso aveva avuto modo di verificare in precedenza, Antonio era ben lungi dal potersi definire sconfitto. Poiché la coalizione antiantoniana, cui aveva dedicato con grande zelo i propri sforzi, si era completamente sfaldata, Decimo costituiva per lui l'unica concreta possibilità rimastagli per eliminare l'acerrimo rivale. Pertanto si impegnava a incoraggiare e persuadere il congiurato, il quale, come prima dell'inizio dello scontro contro Antonio, si dimostrava esitante. L'oratore nella lettera inoltre osserva che non vi era alcun motivo di temere Lepido. Decimo aveva palesato i timori sul governatore della Gallia Narbonense in fam. XI,9. Nell'epistola, datata al 29 aprile, aveva pregato Cicerone di prendere al più presto contatti con Lepido, onde evitare che questi, congiungendosi con Antonio, provocasse una ripresa della guerra. Lo aveva definito “ventosissimus”77, ossia una banderuola, sostenendo con fermezza che questi

non avrebbe mai agito onestamente. Non dobbiamo dimenticare che il Nostro, trovandosi sul teatro di guerra, avesse modo di constatare direttamente l'evolversi della situazione. Tale circostanza senza dubbio favoriva di gran lunga la sua lungimiranza rispetto a quella che poteva avere Cicerone. Tuttavia, dinanzi alle recise affermazioni del congiurato, l'oratore si professava ancora fiducioso sulla condotta di Lepido.

Il paragrafo conclusivo della lettera si apre con il riferimento alla supplicatio gratulatoria celebrata in onore del congiurato per la vittoria nella guerra di

77 Cic. fam. XI,9,1: “In primis rogo te ad hominem ventosissimum, Lepidum, mittas, ne bellum nobis

redintegrare possit Antonio puto te perspicere quid facturus sit”. “Innanzitutto ti prego di prendere

contatti con Lepido, quella banderuola, per impedirgli di rinnovare la guerra contro di noi, una volta unite le sue truppe a quelle di Antonio”.

Modena.78 Occorre ricordare che Decimo Bruto già nel settembre del 44 a.C.,

dopo essere stato acclamato dalle proprie truppe imperator per la campagna bellica intrapresa contro i popoli alpini, aveva pregato Cicerone di intervenire in suo favore affinché il Senato gli decretasse l'onore di una supplicatio.79 Dal

momento che nell'epistolario ciceroniano non vi è traccia di una risposta in merito da parte dell'oratore, né tantomeno si sono conservate fonti che attestano l'approvazione di tale richiesta, sembra opportuno ritenere che a Decimo non fosse stato accordato il riconoscimento che, tuttavia, sarebbe solo stato posticipato di qualche mese. Nell'importante riunione senatoria del 26 aprile, infatti, su proposta di Cicerone, erano stati decretati cinquanta giorni di supplicationes in onore di Decimo Bruto e gli era stato riconosciuto il diritto di celebrare il trionfo.80 Nell'accordare al congiurato tali onori straordinari, i

senatori intendevano evidentemente ricompensarlo per essere riuscito a resistere all'assedio di Antonio e forse per aver contribuito alla sua sconfitta sotto le mura della città.81

Cicerone nella missiva sostiene che appena dopo che la supplicatio era stata celebrata, i timori di Decimo avevano apportato magna molestia. È di estremo interesse che tale onore venga posto in relazione alle perplessità manifestate dal Nostro. L'oratore sembra voler dire che, se il congiurato avesse continuato a dimostrarsi esitante, comunicando al Senato i propri timori, il trionfo, che gli era stato promesso e che doveva necessariamente seguire la supplicatio, veniva in tal modo posto in discussione. Pertanto Decimo non avrebbe potuto fare ritorno a Roma e vedere realizzate le proprie aspirazioni politiche. La condizione necessaria affinché ciò si verificasse era l'eliminazione di Antonio,

78 Vedi Halkin 1953, pp. 68-70. 79 Cfr. supra, pp. 63-64.

80 Delle supplicationes conservano memoria anche App. civ. III,74; Cass. Dio XLVI,39,3. 81 Cic. ad Brut. I,2,2; 4,1; fam. XI,14,1; cfr. Münzer 1931, col. 390.

verso cui Cicerone convogliava tutti i propri sforzi.

IV.5 fam. XI, 20: La preoccupazione per l'esercito e il