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La Resistenza si è abbattuta con la forza e la tragicità di una guerra civile sui giovani dell’Italia dell’epoca, in modo tale da far sì che tutti ne fossero toccati con più o minore forza. Valgono allora anche per il caso italiano le parole di Starobinski:

E’ vano stabilire tra il poeta e la storia il medesimo rapporto che c’è tra lo spettatore e lo spettacolo. Nessuno può sottrarsi all’effetto delle potenze che si affrontano. Per la sua forza e la sua universalità lo sconvolgimento obbliga chiunque si serve della parola, che ne sia cosciente o meno, a prendere parte.83

Che gli uomini che hanno combattuto fossero dalla parte dei resistenti o meno, ma prima ancora, che abbiano accettato di fare parte della lotta o si siano invece ritirati ai suoi margini, con una scelta altrettanto radicale, sempre tali avvenimenti hanno rappresentato una cesura nella loro vita: per questo oggi ricordiamo ancora la non-Resistenza di Pavese, che ci appare significativa come l’azione di coloro che invece hanno deciso di combattere. Quindi tutti gli autori italiani che passarono per questa guerra, ne furono segnati e spesso vi ritornano nelle loro opere: riuscire a descrivere uno ad uno questi uomini che da narratori sono divenuti combattenti o che viceversa nel combattimento hanno trovato il momento fondante della loro carriera di narratori, non è certo un’impresa possibile, possiamo però cercare di delineare dei punti comuni, dei profili che costituiranno una

83 J. STAROBINSKI, La poesie et la guerre. Introduction à la poésie de l’événement, in Croniques

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sorta di guida nelle letture dei singoli testi, delle chiavi interpretative che possono aiutarci a comprendere meglio il prodotto del singolo alla luce del movimento collettivo.

Allora si possono proporre dei criteri comuni per guardare agli uomini che hanno combattuto e aggregarli in “famiglie”: i primi dati che verranno alla mente saranno quelli di natura biografica.

Uno dei criteri più proficui è quello di dividere gli scrittori secondo la data di nascita. Le generazioni letterarie coinvolte nella guerra di Resistenza sono state almeno due: quella degli autori nati alla fine del primo decennio del XX secolo, che avevano già fatto in tempo ad esordire durante gli anni del fascismo e quindi al momento dello scoppio della guerra, erano già autori affermati e con una propria ideologia (tra questi troviamo Moravia, Bilenchi, Pavese, Vittorini, Caproni e Pratolini); e quella nata invece agli inizi degli anni Venti, la cui adolescenza è coincisa con tutto il periodo del fascismo, e per i quali il secondo conflitto mondiale rappresentò il momento essenziale della vita, di crescita personale e anche di fondazione letteraria (Calvino, Fenoglio, Rigoni Stern, Venturi, Zanzotto, Meneghello e di poco precedente Primo Levi, nato nel 1919). Risulta chiaro che trovarsi coinvolti nel conflitto a venti o trent’anni rappresenta una differenza di rilievo: gli scrittori degli anni Venti infatti nascono alla vita pubblica come scrittori-combattenti, per i quali la guerra ha costituito il momento della risposta alla vocazione letteraria.

Un altro criterio che è stato spesso proposto è quello che si basa sulle differenze politiche84. I gruppi partigiani che si profilano nettamene contrapposti da questo punto di vista erano due: gli azionisti e i socialcomunisti (anche se la distinzione primaria è ovviamente tra coloro che hanno preso realmente parte al movimento resistenziale e coloro che invece l’hanno solo costeggiato, magari condividendone gli obbiettivi, come ad esempio Moravia e Pavese). I due gruppi avevano chiaramente obbiettivi finali nettamente diversi, ma noi andiamo a guardare soprattutto alle ricadute sul piano letterario, in particolare chiedendoci chi fosse il nemico per questi due schieramenti. Noteremo allora che mentre gli scrittori di parte socialcomunista tendono ad identificarlo soprattutto con l’invasore tedesco, invece gli azionisti troveranno il loro nemico principale nel fascista, venendo così a dare alla Resistenza i connotati di una guerra civile,

84 Cfr. G. FALASCHI, La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit., e G. PEDULLA’, Una lieve

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valorizzandone quindi la tragicità, ma anche il valore etico e politico della scelta compiuta. E’ questa una distinzione di fondamentale importanza, poiché sempre i partiti e gli uomini maggiormente schierati a sinistra tenderanno a negare il carattere fratricida dello scontro, indicando i fascisti come dei traditori, e mettendo in evidenza invece la lotta nazionale per la Liberazione dall’invasore.85 Cercando di prendere le distanze da ogni determinismo, non sembra però un caso se in autori come Calvino, Venturi, Viganò e Pratolini il nemico sia preferibilmente lo straniero, mentre Fenoglio e Meneghello cercano invece di mettere in evidenza la frattura lacerante che è derivata dallo scontro, tanto che Fenoglio la metterà in scena rappresentando due fratelli schierati su fronti avversi (partigiani e fascisti) nel Partigiano Johnny. Mentre Pavese, ne La casa in collina, carica la definizione di “guerra civile” di un valore esistenziale:

[…] ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo […] Guardare certi morti è umiliante. […] Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo esserci noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.86

Gabriele Pedullà decide però di utilizzare come criterio distintivo nella sua antologia una classificazione su base geografica, non solo per motivi di comodità, ma anche per segnalare in questo modo una delle caratteristiche fondamentali della lotta partigiana: il suo legame con la terra e con il paesaggio, quello che Carl Smith avrebbe definito il carattere “tellurico”87 del partigiano. Questa definizione vuole mettere in evidenza come la natura della guerra partigiana fosse essenzialmente difensiva, fondata sulla conoscenza profonda del territorio, poiché è chiaro che il combattente al di fuori del suo ambiente, delle sue colline e montagne, non potrebbe avere scampo di fronte alla superiorità logistica e numerica del nemico:

Erano venuti in tre divisioni, per setacciare tutto e tutti. Ma, chiedo perdono ai morti e alle loro famiglie, scusa a quelli che ci han perduta la casa e il bestiame, ma io credo che allora tedeschi e fascisti non si siano salvate le spese. Non fu

85 Cfr. C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 221-303.

86 C. PAVESE, La casa in collina, Torino, Einaudi, 2008, p. 122.

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abilità nostra, né che loro fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa.88

Quindi solo il legame stretto con l’ambiente, la padronanza dei luoghi danno la possibilità al partigiano di vincere, ma non appena egli esce dalla condizione che Fenoglio avrebbe definito “ettorica” della guerriglia, e passa invece all’attacco, è irrimediabilmente destinato alla sconfitta.

A questo punto la contrapposizione che si delinea è quella tra montagna e città: il partigiano rimane infatti una creatura essenzialmente non urbana, legata alla terra (nel caso di Fenoglio si direbbe meglio “al fango”, mentre per Calvino “al bosco”) e il suo ambiente naturale è la montagna, in cui le truppe nemiche faticano maggiormente ad agire. Proprio della narrativa partigiana sarà quindi un particolare pathos del luogo. Queste distinzioni, che possono certamente essere utili per delineare un primo profilo della letteratura resistenziale, sono però basate esclusivamente su fatti di carattere biografico, e quindi in definitiva extra-letterari. I critici che si sono occupati di scrittura partigiana hanno allora cercato di proporre altri criteri, che andavano dal trattamento del tema della morte, alla figura dell’eroe partigiano, fino alla distinzione tra autori di narrativa e di memorialistica. Abbiamo però deciso di riportare qui un criterio che viene proposto solo da Gabriele Pedullà, e che ci appare interessante, per la possibilità che offre di abbracciare nella loro complessità le opere dei vari autori, ma anche di essere applicato racconto per racconto. Pedullà parla di autori dell’Io, del Noi e del Loro.89

Gli scrittori dell’Io sono coloro che nelle loro opere hanno interpretato la Resistenza principalmente con Bildung, e ne sottolineano il valore come presa di coscienza o come rito di passaggio tra due fasi della vita: ciò che conta è quindi principalmente il processo di maturazione del protagonista e la sua personale vicenda.

Gli scrittori del Noi invece, “sono coloro per i quali la Resistenza coincide innanzitutto con la scoperta del gruppo, sia esso una comunità di eguali e di compagni, […], o soltanto di amici e sodali che si riconoscono attraverso il rifiuto, etico ed estetico, dell’Italia fascista e della Germania hitleriana”90. Per questi autori quindi, non è importante il processo individuale, ma la scoperta degli altri per la costituzione di un movimento coeso che si propone di cambiare il mondo circostante. Questa prospettiva viene adottata

88 B. FENOGLIO, Appunti partigiani, Torino, Einaudi, 2007, p. 78.

89 G. PEDULLA’, Una lieve colomba, in Racconti della Resistenza, cit., p. XV-XIX.

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maggiormente in quei racconti in cui è più forte l’urgenza della lotta politica e non è un caso se gli scrittori che possiamo far risalire a questo gruppo, come Pratolini, Vittorini e Viganò, sono quelli che oggi percepiamo come più lontani dalla nostra sensibilità. Infine, abbiamo gli scrittori del Loro: ovvero coloro che nel dopoguerra “hanno vissuto e scritto costantemente sotto lo sguardo, per lo più severo, dei compagni morti”91. Per questi scrittori solo una parte dei compagni sono arrivati a vedere l’Italia repubblicana, e coloro che non ce l’hanno fatta sono divenuti dei fantasmi a volte ossessionanti, che investono lo spazio dello scrittore, il cui rimpianto e senso di colpa alimentano l’imperativo a non dimenticare. Nei confronti di questi morti quindi gli autori vivono un rapporto di devozione e fedeltà al ricordo. Probabilmente Andrea Zanzotto è stato colui che meglio di tutti ha saputo esprimere questo sentimento di lacerazione e di ammirazione verso i compagni, così nella prosa, con 1944: FAIER, come nella poesia. Nelle sue opere non troviamo però alcun richiamo alla bella morte, ma solo un rapporto di ammirazione e insieme di rimpianto:

Il vostro perire – nel sacro di primavera – Mi sembrava la radice stessa di ogni sacro. Anche se per voi, certo, non lo era.92

Certo è raro che un autore guardi soltanto ad una di queste categorie: è più probabile invece che da un’opera all’altra, da un racconto all’altro muti il proprio indirizzo più verso l’Io o il Noi ad esempio, in una sorta di polarizzazione. Così in certi casi potrà essere più forte l’esperienza del rito di passaggio che porta alla vita adulta: la vediamo spesso nei racconti di Calvino e Fenoglio. In altri invece l’impossibilità di far parte del gruppo porta, soprattutto in quest’ultimo autore, all’avvicinamento alla comunità dei morti e anzi a vedere la morte come unico esito possibile nel destino del partigiano.

Questa familiarità con i defunti è però qualcosa di diverso dal semplice senso di colpa del sopravvissuto nei confronti dei compagni, che troviamo nelle pagine ad esempio di Meneghello, al quale non resta che mormorare: “in fondo non è colpa nostra se siamo ancora vivi”93.

91 Ivi.

92 A. ZANZOTTO, Verso il 25 aprile, in Poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Milano, Mondadori, 1999, pp. 730-733.

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