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Tra narrativa e memorialistica: War can’t be put into a book

Con la fine della guerra si assiste immediatamente al proliferare di opere sulle avventure che ognuno aveva vissuto nel corso di quegli anni dolorosi: “l’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo”95. Ed era davvero, come scrive Calvino, un bisogno “fisiologico” quello di raccontare, di parlare per comprendere la propria esperienza e per liberarsi dagli incubi, come se rievocare quei fatti fosse l’unico modo per andare avanti con la propria vita. Si aggiunga che, per quanto riguardava i reduci della Resistenza, continuare a testimoniare poteva anche essere considerato come un dovere politico o morale, un modo per proseguire la lotta e per contribuire alla costruzione di una nuova società (forse alcuni avrebbero detto, per portare a termine la rivoluzione) oppure semplicemente per ricordare i morti in battaglia.

In realtà sappiamo che molti pensavano a scrivere della guerra anche molto prima che questa finisse: Fenoglio, autore che non ci ha lasciato saggi o articoli teorici, ci propone comunque un’immagine di sé finché prende appunti. Nel racconto originalmente anepigrafo, oggi conosciuto con il titolo War can’t be put into a book, Fenoglio mette in scena una conversazione tra due partigiani, che appaiono essere una doppia proiezione di sé stesso in due fasi distinte della sua vita: il narratore, insegnante d’inglese, ironico, si propone infatti come una rappresentazione dell’autore nella maturità, mentre lo snob Jerry, anglofilo, sempre intento a scrivere su quaderni scolastici, non può che riportarci alla mente il giovane Fenoglio/Johnny.

Sapevo che il mio compagno Jerry scriveva della guerra. […]

Lo vedevo scrivere e non dubitavo che scriveva della guerra. Ricordo che quando me ne convinsi mi venne subito in mente una frase di Lawrence (quello buono, il colonnello): <<… to pick some flowers…>>96 ma conclusi che non potevo, proprio non potevo, ascriverglielo a frivolezza. <<E’ un’idea, - dicevo fra me commentarily: - Questa roba potrà andar molto, dopo. Gli editori saranno tutti per

94 B. FENOGLIO, War can’t be put into a book, in Tutti i racconti, a cura di L. Bufano, Torino, Einaudi, 2007, pp. 146-151. Il racconto in questione, non viene riconosciuto come tale dai curatori delle Opere (a cura di M. Corti, Torino, Einaudi, 1978) e per questo relegato in una sezione di Frammenti. Per L. BUFANO (Beppe Fenoglio e il racconto breve, Ravenna, Longo Editore, 1999) invece, sebbene privo di titolo, si tratterebbe di un racconto compiuto, dell’ultimo Fenoglio (probabilmente risalente agli anni 1961-1962).

95 I. CALVINO, Prefazione (1964), in Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. VI.

96 Il “cogliere fiori” deve essere interpretato in senso negativo, come nel passo originale di T. E. Lawrence da cui è tratto: si tratta infatti di una polemica con chi si diletta a registrare i momenti della guerra senza quell’intento di rielaborazione artistica che per Lawrence e per Fenoglio è importante. Cfr. E. SACCONE,

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questo genere di roba, dopo, per almeno una decina d’anni. Ma ci sarà un dopo per Jerry?97

Il narratore quindi ci presenta l’origine della memorialistica partigiana nei quaderni scritti a caldo, durante la guerra stessa, per poi essere ripubblicati al suo termine, e intuisce quanta fortuna avrà questo genere nel periodo successivo; così il partigiano più anziano parla con Jerry:

- Scrivi della guerra, eh, Jerry? - Appunti, - disse in fretta.

- Appunti della guerra, - insinuai io. - Naturale, - disse lui un po' ostilmente.

Aveva afferrato il tono vagamente ironico che io usavo e, stranamente, io non riuscivo a correggerlo. […].

- Sai, - dissi poi, - che ha scritto Walt Whitman della guerra? Lui si riferiva alla Guerra di Secessione, ma naturalmente vale per tutte le guerre.

La curiosità ardeva nel suo viso quasi scancellato dal buio. - War can’t be put into a book98, - citai in inglese.

- Questo è vero, verissimo, - disse con una sorta di disperazione. – Me ne sto accorgendo. E’ come svuotare il mare con un secchiellino.

[…]

- Lo fai per la stampa, spero? – ripresi.

- Spero – rispose con una sorta di non-speranza.

- Gli editori saranno tutti per questo genere di letteratura. E… sarà una cosa puramente documentaria, o qualcosa che varrà… decisamente sul piano artistico? - Spero… sul piano artistico, - rispose con quel suo tono di non-speranza. – Come documentario, non varrebbe nemmeno la pena che me li portassi dietro -. Diceva dei quadernetti: dunque dovevano essere parecchi.99

Jerry dunque mette in scena il giovane Fenoglio che scrive durante la guerra per poi far confluire tali annotazioni negli Appunti partigiani (l’insistenza sulla parola “appunti” non è infatti casuale), opera scritta nell’immediato dopoguerra e mai pubblicata, forse proprio perché caratterizzata da un andamento più documentaristico che narrativo. Il narratore infatti ci fa anche percepire il giudizio ironico (rivelato dalle due citazioni di Lawrence e di Whitman, che si mostrano entrambe polemiche verso chi cercava di rappresentare la

97 B. FENOGLIO, War can’t be put into a book, in Tutti i racconti, cit., p. 146.

98 La citazione, non esattamente corrispondente all’originale, si riferisce al capitoletto intitolato appunto

The real war will never get in the books di Specimen Days (in italiano: Giorni rappresentativi), che nel

libro chiude la parte dedicata alla guerra di Secessione. La dicotomia tra intento documentario e artistico è quella presente anche in Lawrence.

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guerra solo riferendo dei fatti, senza alcuna elaborazione artistica) dello scrittore adulto su quella prima fase, che non fu solo sua ma di tutta la letteratura italiana di quel periodo. Dopo la guerra infatti, se i temi da trattare erano chiari, se la storia si era imposta con una tale forza, da non lasciare scelta a coloro che ora volevano scriverne, si presentava il problema di come farlo. La vicinanza agli eventi e il desiderio di raccontare esattamente che cosa era accaduto, nei primissimi anni successivi al conflitto, portavano infatti al continuo insorgere di una prima persona autobiografica. E’ la persona che verrà accettata dalla memorialistica, ma che spesso cerca di insinuarsi anche nelle opere di carattere narrativo.

Il problema è percepito anche da Calvino che, a proposito della stesura de Il sentiero dei

nidi di ragno, scrive:

Per mesi, dopo la fine della guerra, avevo provato a raccontare l’esperienza partigiana in prima persona, o con un protagonista simile a me. Scrissi qualche racconto che pubblicai, altri che buttai nel cestino; mi muovevo a disagio; non riuscivo mai a smorzare del tutto le vibrazioni sentimentali e moralistiche; veniva fuori sempre qualche stonatura […]100

Calvino in seguito riuscirà a risolvere il problema creando un personaggio che fosse diverso da lui, il bambino Pin: “Quando cominciai a scrivere storie in cui non entravo io, tutto prese a funzionare: […] più lo facevo oggettivo, anonimo, più il racconto mi dava soddisfazione”101.

Il problema dunque che tutti i narratori devono affrontare in questo periodo per parlare degli avvenimenti della guerra è quello di trovare la giusta distanza, per fare in mondo che le “vibrazioni sentimentali e moralistiche” dell’Io non si insinuino nei loro scritti, permettendo loro di trovare la via dell’oggettività.

Potremmo dire che anche Fenoglio cercò di allontanarsi dal sé autobiografico degli

Appunti partigiani; lo fece anche lui mettendo da parte la prima persona e lasciando che

il tempo passasse, aspettando di poter vedere da lontano ciò che gli era accaduto.

Si sviluppano così le due direzioni in cui si muoverà nell’immediato dopoguerra la produzione di argomento resistenziale: la memorialistica, con il suo Io autobiografico e l’attinenza ai fatti così come erano stati, e la narrativa, in particolare con il genere del racconto.

100 I. CALVINO, Prefazione (1964), in Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. IX.

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Per quanto riguarda la memorialistica che vide la pubblicazione di un grande numero di diari, cronache e relazioni nell’immediato dopoguerra102, gli autori spesso si appellavano nelle loro prefazioni, alla forza del documento e al rispetto della verità. Pietro Chiodi nell’introduzione al suo Banditi scriveva: “Questo libro non è un romanzo, né una storia romanzata. E’ un documento storico, nel senso che personaggi, fatti ed emozioni sono effettivamente stati”103. Di fronte a tale dichiarazione, che si trova simile in molte altre opere, è chiara la volontà di marcare la distanza tra questo genere e la letteratura; dunque, la memorialistica non ci dovrebbe interessare nell’ambito della nostra trattazione. Tuttavia, Maria Corti ha messo in evidenza come a volte sia difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra i generi, infatti in certi casi ci troviamo di fronte a dei testi che, sebbene per esplicita dichiarazione dei loro autori siano documentari, sembrano “denunciare narrativamente”104.

Basti considerare un unico esempio: quello di Pino Levi Cavaglione, ebreo e comunista che nel 1945 pubblica per Einaudi Guerriglia nei Castelli romani, opera che riscosse anche un certo successo di pubblico105. Recensendo questo libro nel 1946, Pavese annota come “un sicuro istinto narrativo” ha fatto scegliere all’autore la sola forma in cui “a così poca distanza dai fatti, è possibile rievocare senza errori di prospettiva o sbavature la tremenda esperienza della guerriglia: il diario, l’annotazione quotidiana”106. Il libro sembra quasi un diario di regressione che descrive il ritorno agli stadi originari della vita e alla lotta per la sopravvivenza; in questa battaglia, come scrive anche Pavese, si ha un ritorno al pensiero “elementare”.

Non vi troviamo però solo la pura registrazione degli eventi, tutto è condito con sapori altamente drammatici o anche ironici, come quando l’autore propone una visione (ironica) di sé attraverso lo sguardo degli altri partigiani: “Ostia! Che bel partigiano!”107 dicono di lui i compagni quando lo vedono sentirsi male di fronte allo spettacolo della macellazione dei buoi; oppure in altri casi, quando propone delle riflessioni stranianti (come quella sulle proprietà fertilizzanti dei cadaveri).

102 Cfr. G. FALASCHI, La memorialistica, in La Resistenza armata nella letteratura italiana, cit., pp. 25-53, per una visione complessiva sulla memorialistica (non solo di carattere letterario) dell’epoca.

103 P. CHIODI, Banditi, Torino, Einaudi, 2002, p. 5.

104 M. CORTI, Il viaggio testuale, cit., p. 54.

105 P. LEVI CAVAGLIONE, Guerriglia nei Castelli romani, Firenze, La nuova Italia, 1971.

106 C. PAVESE, Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1951, p. 242.

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Quello di Levi Cavaglione non è l’unico esempio di memoria che “denuncia narrativamente”, possiamo citare anche altri nomi infatti, come quelli di Pietro Chiodi con Banditi o di Luciano Bolis con Il mio granello di sabbia. Non è questo il luogo per una trattazione più approfondita della questione; ciò che vogliamo mettere in evidenza è che in certi casi il sottogenere diario-cronaca-testimonianza, non ha solo una valenza pragmatica, ma anche letteraria.

Possiamo ora passare invece alla narrativa e in modo particolare al racconto che secondo Falaschi sarebbe “il prodotto più tipico di tutta la letteratura partigiana”108. I reduci della Resistenza hanno infatti trovato nel racconto la forma che maggiormente (almeno in un primo momento) poteva rispondere alle loro esigenze: permetteva infatti di esprimere il carattere episodico, per singole azioni, proprio della guerriglia, piuttosto della difficile prospettiva globale della guerra civile, che anzi appariva sostanzialmente impossibile a così breve distanza dai fatti.

Il racconto partigiano appare a partire già dal 1945, soprattutto su quotidiani di sinistra, su riviste militanti e sulle pubblicazioni dell’Anpi, nonché in volumi miscellanei dedicati alla rievocazione della lotta di Resistenza. In particolare, il periodo più prolifico andava dal 1946, quando i quotidiani cominciarono ad essere pubblicati con una certa regolarità, fino al 1948; in seguito questi racconti appariranno più raramente, soprattutto in occasioni celebrative, come ad esempio il 25 aprile.

Gli autori più noti dell’immediato dopoguerra erano Italo Calvino, Marcello Venturi, Silvio Micheli e Antonio Meluschi. Leggendo questo breve elenco, ci rendiamo conto di come, tranne Calvino, gli altri autori siano abbastanza oscuri ai nostri giorni, mentre all’epoca riscuotevano un grande successo di pubblico: ciò era dovuto al clima diverso del dopoguerra, in cui, complice proprio la vicinanza degli avvenimenti trattati, venivano forse più apprezzati dai lettori la retorica e il commento sentimentale ai fatti, cioè quel lirismo che oggi invece non è più molto amato (infatti si rivolge un interesse decisamente maggiore alle rappresentazioni anti-retoriche, come quelle di Fenoglio e Meneghello). Questi scrittori inoltre si muovevano in un clima politico ben diverso rispetto a quello dei nostri giorni: quelli nominati erano infatti tutti affiliati a partiti di sinistra (di solito al PCI) e, seppure la codificazione del neorealismo in letteratura, con la formulazione dei compiti

108 G. FALASCHI, La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit., p. 54. Al capitolo dedicato al racconto si rimanda per un’analisi più approfondita della produzione dell’immediato dopoguerra (1945-1948).

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pedagogici delle arti, si avrà solo nel 1948, comunque le politiche di sinistra già manifestano una propria influenza sugli autori.

Guardando ora alla formazione letteraria e ai modelli di questi scrittori giovanissimi (sono nati infatti negli anni Venti), Falaschi ci propone una doppia linea di interessi.109 Da una parte la triade di opere italiane che Calvino aveva proposto nella Prefazione al Sentiero

dei nidi di ragno: i Malavoglia, Paesi tuoi e Conversazione in Sicilia “da cui partire,

ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio”110, dove il riferimento ad opere specifiche, e non all’intera produzione degli autori in questione, fa comprendere come fossero singoli aspetti ad interessare gli scrittori (ad esempio la maggiore irregolarità della lingua dei Malavoglia, più vicina al parlato, rispetto al Mastro

don Gesualdo). L’altro punto di riferimento per questi autori sarebbe stata la letteratura

americana (nelle persone di Hemingway, Faulkner e Anderson ad esempio, che in Italia erano divenuti noti grazie all’antologia Americana curata da Vittorini) che spesso proponeva una società in continua trasformazione, come appariva quella italiana ai giovani appena usciti dalla Resistenza: così la loro scrittura rapida era considerata il modello migliore per rappresentare la realtà italiana in movimento.111

In seguito, i racconti apparsi su rivista vengono spesso raccolti e pubblicati: è quello che avviene nei casi di Calvino, con Ultimo viene il corvo (1947) e anche di Venturi con la raccolta Gli anni e gli inganni (1965). In altri casi invece i racconti non saranno più riuniti da parte dell’autore e questo probabilmente ne ha favorito un precoce oblio: Caproni è un esempio lampante. I suoi racconti, che certamente mostrano un volto più intimista rispetto a quelli di autori più noti, sono stati a lungo dimenticati, con l’eccezione forse de Il

labirinto (unico ad essere stato poi ripubblicato in volume da Rizzoli).

Chiaramente ci fu anche chi non pubblicò davvero nulla nel primo periodo, in cui tutti scrivevano, ma attese e rievocò i fatti della Resistenza a qualche anno di distanza, con una nuova prospettiva. Fenoglio pubblicò la raccolta I ventitre giorni della città di Alba nel 1952, Zanzotto attese il 1955 per pubblicare 1944: FAIER, mentre arriviamo

109 G. FALASCHI, La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit. p. 57.

110 I. CALVINO, Prefazione (1964), in Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. VIII.

111 Non tutti concordano sul peso effettivo che l’influenza straniera avrebbe avuto sui nostri autori appena usciti dalla Resistenza: se infatti FALASCHI (La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit.) le riconosce un ruolo di primo grado, superiore anche ai modelli italiani, invece lo stesso CALVINO le attribuisce un ruolo marginale (La letteratura italiana sulla Resistenza, in <<Il movimento di Liberazione italiana>>, n. 1, 1949).

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addirittura al 1994 per il racconto Polenta e formaio zè bon di Mario Rigoni Stern. Queste date non sono fini a sé stesse: vogliono sottolineare che il racconto resistenziale non si esaurisce con l’avvento degli anni Cinquanta, ma prosegue, come una corrente sotterranea che ogni tanto rivive negli autori e nelle loro nuove opere, spesso dai tratti molto diversi rispetto alla produzione dell’immediato dopoguerra. La retorica partigiana infatti non vi trova più spazio e anche l’espressione sembra in certi casi allontanarsi dal Neorealismo, corrente a cui spesso facciamo risalire con troppa leggerezza ogni manifestazione della letteratura resistenziale (è difficile infatti che un autore concettoso come Zanzotto possa essere paragonato ai primi Calvino e Fenoglio)112.

Abbiamo detto che il racconto è il genere principe della Resistenza, ma appare naturale chiedersi perché questo ruolo non sia stato rivestito dal romanzo, che come sappiamo, è la forma che ha trionfato nella modernità ed è giunta fino a noi con una risonanza che gli altri generi non riescono ad avere.

Tra le difficoltà nella creazione di un romanzo della Resistenza,113 certamente giocava un ruolo importante la preoccupazione ideologica e morale di aderenza alla verità storica, che rendeva difficile ogni tentativo volto a sovrapporre in modo continuo e massiccio l’invenzione al documento. Il romanzo infatti è un genere che deve passare dai fatti reali a quelli d’invenzione (sia pure basati sulla realtà), mantenendo però quell’atmosfera di verità che era propria della memorialistica. Si tratta di un’operazione davvero complessa: implica la costruzione di una trama, l’allestimento di una serie di personaggi e delle loro storie; trama e personaggi richiedono un controllo da parte dell’autore tale da far risalire le varie linee della narrazione ad un disegno unitario, nel quale risiede il senso dell’opera. Tutto questo poteva mettere in pericolo l’atmosfera di verità. Si trattava allora di creare una sorta di realismo strico, che fosse rispettoso dei fatti e riprendesse però dal modernismo lo studio interiore, psicologico dei protagonisti.

Per fare tutto questo era necessario però anche un maggiore distanziamento temporale e spirituale, che desse la possibilità di creare il giusto equilibrio tra oggettività e invenzione.

112 Cfr. G. PEDULLA’, Una lieve colomba, in Racconti della Resistenza, cit. Pedullà in particolare ritiene che la coincidenza tra neorealismo e Resistenza sia divenuta (a partire dalle stesse tesi di Calvino) una sorta di dogma, per cui quei testi che non rientrano nel canone (come appunto quello di Zanzotto) vengono in qualche maniera lasciati ai margini, come se si trattasse di testi che trattano un argomento in realtà diverso. “L’esperienza comune della lotta antifascista non consente di ricondurre i diversi autori a una formula unica, neorealismo o neoimpressionismo che sia. Per ognuno degli scrittori presi in esame avremo invece una Resistenza diversa […]”. (p. VIII)

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Romanzi come quelli di Vittorini o di Calvino, pubblicati rispettivamente nel 1945 e nel 1947, infatti o attuavano tale distanziamento tramite lo sguardo straniato del bambino Pin, oppure, come molti imputeranno a Vittorini, non sapranno trovare il giusto compromesso tra biografia personale e storia collettiva, tra stilemi romanzeschi e oggettività documentaria.114

Potremmo però dire che quel romanzo della Resistenza, così com’era richiesto dai partiti di sinistra, con il suo eroe positivo che svolgeva anche un ruolo pedagogico, arrivò relativamente presto, nel 1949: si trattava de L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Un’opera con contrapposizioni manichee tra bene e male, resistenti e tedeschi (mai fascisti!), in cui il personaggio protagonista è la figura più umile che si potesse proporre: una donna anziana, contadina, ormai rimasta sola, non attraente, ignorante e silenziosa, che pure si dedica totalmente alla causa partigiana, maturando un po' alla volta una coscienza di classe e trovando alla fine la voce per esprimere le ragioni della lotta. Oggi

L’Agnese va a morire è molto distante dalla nostra sensibilità, ma a nostro parere si può

ancora giudicare interessante per questa protagonista femminile e per la rappresentazione di un luogo, la campagna emiliana, che raramente viene proposto.

Attualmente la nostra memoria della Resistenza è certamente legata ad opere più tarde, edite negli anni Sessanta: Una questione privata e Il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, pubblicati postumi, e I piccoli maestri (1964) di Luigi Meneghello. Due autori che hanno vissuto storie molto simili, come dirà lo stesso Meneghello, che in una conferenza del 2003 ammetterà di aver spesso vagheggiato il progetto di tracciare tutti gli spostamenti fatti da lui e Fenoglio, il compagno d’elezione, una sorta di alter ego potenziale scoperto sui libri quando più nessun incontro era possibile.115 Entrambi propongono una rappresentazione anti-retorica della Resistenza, ma mentre Fenoglio crea