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FARE PARCHI PER LE SOCIETÀ DEL XXI SECOLO

1 RADICI STORICHE

FARE PARCHI PER LE SOCIETÀ DEL XXI SECOLO

A chiusura di una rassegna di modelli di parco in chiave etica/estetica presentata nel capitolo precedente, si è scelta per il parco urbano del XXI secolo, la definizione di spazio etico ed estetico. Il parco urbano è sempre un contenitore di valori etici, oltre che estetici: è la manifestazione di un pensare e di un fare sulla natura e sulla città, e costituisce la rappresentazione di un’idea di spazio sociale e di comunità urbana.

Come luogo per la vita di tutti i giorni e teatro delle relazioni sociali nel quotidiano, ogni parco costituisce una risposta estetica a bisogni e necessità del cittadino urbano: realizzarlo implica la capacità di dare corpo ad un sistema di materiali, culturali e naturali, e di elementi, reali e ideali, visibili e invisibili. Il paesaggista è il traduttore di un clima estetico generale e agisce a livello locale per dargli forma e sostanza in un ambiente vivente.

Se uno dei caratteri della contemporaneità è costituito dalla velocità dei mutamenti di luoghi e bisogni (individuali e collettivi), dal carattere dominante dell’ubiquità, e dal senso di contrazione dello spazio e del tempo, se la produzione di merce immateriale e realtà virtuale ha acquisito un ruolo preponderante nella economia della globalizzazione, quali sono oggi i più significativi valori in gioco per il progetto paesaggistico che si confronta con i processi e le regole della modernizzazione? E ancora, in che modo possiamo fare tesoro della eredità, buona e cattiva, ricevuta dalla tradizione del Movimento Moderno e dalla retorica del Post-Moderno? Sono questi i principali nodi tematici affrontati nel primo paragrafo, in cui si cerca di porre in evidenza il significato dei concetti di qualità, di memoria, e di identità, paradigmi strategici del progetto urbano e paesaggistico, rispetto ai processi di modernizzazione che hanno determinato le trasformazioni della città nel corso del Novecento.

Nella città che oggi più che mai “è mobile, va, non è ferma”1, incerta nella definizione dei suoi limiti,

delle sue forme, anche il parco, come idea e come spazio urbano, cambia i suoi connotati. Uno dei rischi più evidenti delle città-metropoli-megapoli dell’epoca digitale, è quello della perdita del senso dello spazio e di una metrica spaziale, (“l’energia che sprigiona il territorio post-metropolitano è essenzialmente de-territorializzante, anti-spaziale” afferma ad esempio Massimo Cacciari2), e, di

conseguenza, di una sua leggibilità.

Ben lontano dal riproporre asetticamente i modelli plasmati nella concezione Ottocentesca, il parco urbano contemporaneo si candida a diventare figura di misura, di controllo dello spazio, un luogo di lettura di uno spazio-tempo del territorio. Il parco non è un contenitore chiuso (destinato a promuovere esperienze surreali di natura, divertimento, cultura, cronicizzate come la malattia negli ospedali)3, bensì un ambito di relazioni aperte, interne ed esterne: con i cicli della città, da cui dipende per la sua sopravvivenza e la sua durata nel tempo, con quelli della natura, che ne costituisce il principale elemento di definizione, con quelli delle ritualità sociali della comunità che lo vive.

Il parco è prima di tutto un luogo per abitare la città che presenta elevate capacità di adattamento, morfologico, figurativo e funzionale, alle diverse sollecitazioni che la città stessa, trasformandosi,

1MASSIMOCACCIARI, La città, Pazzini Editore, Rimini 2004. Pag. 13. 2MASSIMOCACCIARI, op.cit. Pag. 50.

3Si fa qui ancora riferimento alle riflessioni di Cacciari, che contrappone il concetto filosofico di spazio chiuso, in cui

l’esistenza metropolitana viene congelata, che “naturalmente non è soltanto l’edificato definito in base ad una funzione, a una sola ‘proprietà’; è anche, e più ancora, il quartiere ‘residenziale’ e basta; spazi chiusi sono i parchi divertimento, dove il divertimento stesso viene ‘cronicizzato’, come la malattia negli ospedali, l’istruzione nelle scuole o nei campus, la cultura nei musei e nei teatri”. MASSIMOCACCIARI, op.cit. Pag. 51.

determina. La varietà morfologica e funzionale dei parchi del XXI secolo molto dipende dal cambio di visione rispetto alle trasformazioni urbane: parco e giardino diventano strategie di rifigurazione, acquistano valore come vuoti strutturanti di un sistema, come elementi di qualificazione estetica puntuale, di ricostruzione di un’immagine e di una idea di città, in cui naturale e artificiale si compenetrano l’uno nell’altro, virtualmente e realmente. Con l’obiettivo di riconquistare per la città una metrica spaziale, una continuità figurativa, una funzionalità ecologica, i nuovi parchi nascono negli spazi residuali lasciati dalle nuove infrastrutture, nei frammenti svuotati di tessuto costruito, come strategie spaziali di riqualificazione ambientale, come collante tra pezzi di città sparsi nel caos che i processi di urbanizzazione hanno prodotto, e continuano inevitabilmente a produrre. La dominanza del concetto di ibridazione come carattere esplicativo della varietà e variabilità delle recenti esperienze di verde urbano, rende appropriato l’uso della definizione di specie di parchi. Rispetto a questa si propone una classificazione delle diverse morfologie e topografie del parco contemporaneo.

“Schiller - tanto nomini…non dico altro - fu il primo a parlare di una <<educazione estetica>> (…). <<L’uomo – scriveva il gran Federico – gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola,

ed è pienamente uomo unicamente quando gioca>>. Da un’affermazione tanto decisa egli partiva per giungere addirittura all’idea di uno <<Stato estetico>>,

al quale riservava il compito di <<dare la libertà attraverso la libertà>>. Sarà stata un’idea sbagliata, ma intanto noi, purtroppo, abbiamo avuto lo <<Stato etico>>:

e c’è costato sangue e lacrime.” Gianni Rodari, 19734

Un nome per la nostra epoca

In City as landscape, pubblicato nel 1996, Tom Turner tratteggia nella introduzione una lettura degli orientamenti socio-culturali degli anni Novanta. Ritenendo ormai in fase di superamento la condizione post-moderna, propone di riconoscere una nuova categoria, post-post-modernism, per definire l’epoca contemporanea. Per inquadrare gli scenari di fine secolo, Turner si avventura dentro l’insidioso territorio delle nominazioni e, avvalorando la tesi di una processualità del tempo lineare, sceglie tra le tante possibili la definizione più semplice: l’aggiunta del suffisso post precisa l’idea che siamo andati avanti e ci troviamo in un segmento epocale dopo il moderno, dopo il post- moderno. L’intento del paesaggista pare di tipo pragmatico didattico: niente a che vedere con la cosiddetta sindrome di Colombo.5

Secondo Turner, possono essere rilevati numerosi segni a testimonianza di un cambio di atteggiamento mentale e culturale, e quindi operativo, utili a dimostrare che molti dei paradigmi post-moderni si sono sgretolati, per essere sostituiti da altri. Un esempio? Le attuali tendenze della pianificazione e della progettazione urbana europea, in cui si registra un ritorno di attenzione alle regole, alla riscoperta dei valori della tradizione e della memoria storica, in cui viene recuperato in termini più flessibili (e snumerati) il concetto di zonazione, spurgato del significato meramente igienico-funzionalista. Le zone considerate dai pianificatori contemporanei non sono di tipo mono- funzionale, ma prevedono un approccio interculturale, interdisciplinare.

“New zones can be visual, historic, ecological, cultural, or they can give a spatial dimension to belief”.6 Con un tono vivacemente enfatico, e con un tocco di proverbiale humour inglese, Turner conclude infine il primo capitolo del suo libro affermando:

“Coherent, beautiful and functional environments are wonderful things, which can be produced in different ways. The modernist age, of ‘one way, one truth, one city’, is dead and gone. The postmodernist age of ‘anything goes’ is on the way out. Reason can take us a long way, but it has limits. Let us embrace post- postmodernism – and pray for a better name”.7

4GIANNIRODARI, La grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino, 2001. Pag. 173.

Prima ediz. dell’opera: Eianudi, 1973.

5 La sindrome di Colombo, “temutissima dai critici”, “è facilmente riconoscibile dall’ansia spasmodica della nominazione:

da quella coazione a classificare, cioè, generata dalla paura di incorrere nella stessa fatale valutazione del navigatore genovese, tristemente spentosi a Valladolid ignorando di aver scoperto il nuovo mondo.” FULVIOIRACE, Dimenticare Vitruvio, Ed. IlSole24Ore, Milano 2001, pag. 200.

6TOMTURNER, City as landscape. A post-postmodern view of design an planning, E&FN Spon, London 1996,pag. 10. 7TOMTURNER,Ibidem.

Sopra, lo scenario urbano pop di una famosa opera di Roy Lichtenstein, This Must tbe Place, 1968.

Sotto, il quartiere Le Vele a Scampia, Napoli, dopo l’intervento di demolizione di uno dei blocchi, nel 1998. Un caso italiano recente di rottamazione di edilizia post-bellica priva di qualità. La riqualificazione urbana delle periferie prodotte in un incubo modernista avanza a colpi di esplosivo pianificato: il recupero del senso del luogo è tra i valori in gioco. Si cerca di attuarlo anche rimodellando i vuoti: a Secondigliano, il grande parco di 20 ettari inaugurato ai piedi delle Vele nel 1994, (in alto a destra) avrebbe dovuto contribuire a combattere il degrado di questa scheggia di città. Ma il tentativo è fallito: un parco da solo, trattato in prevalenza come elemento formale, non è un rimedio alla mancanza di senso di comunità e di coesione sociale!

Ma è davvero così? Per conquistare la capacità di costruire luoghi coerenti, belli e funzionali, basta liquidare teorie e pratiche di modernismo e post-modernismo, ponendoci sopra una pietra tombale? E’ questo l’atteggiamento per affrontare il nuovo millennio fiduciosi in un cambiamento radicale delle prassi e degli approcci alla progettazione ed alla pianificazione della città e dei suoi sistemi spaziali?

La lettura, candidamente sibillina, che Turner ci propone si inserisce in un mosaico critico, epistemologico ed interpretativo composto da una vasta costellazione di contributi autorevoli8. Ad

essere poste in evidenza sono la complessità e le aporie della condizione contemporanea, letta ruotando intorno ai concetti di modernità e di modernizzazione.

In un suo recente saggio Frederic Jameson9, che all’inizio degli anni Ottanta del Novecento aveva

brillantemente teorizzato sul fenomeno allora vincente del postmoderno, argomenta sul ritorno non previsto di una modernità singolare, svolgendo un’attenta analisi che passa in rassegna le contraddizioni e le antinomie dei processi culturali in atto. Nell’introduzione al saggio, così stigmatizza la curatrice della edizione italiana, Carla De Benedetti:

“Ora si direbbe che l’epoca non sappia più come definirsi, moderna, postmoderna, tardo moderna, neomoderna. Che l’Occidente non sappia più come rappresentarsi, se sull’orlo dell’implosione o se, al contrario, in espansione e se la sua cultura sia in divenire oppure immobilizzata nell’epigonalità. Queste oscillazioni e inquietudini, che si registrano sia in campo artistico che in quello geopolitico, e che naturalmente coinvolgono anche le autodescrizioni dell’economia e della tecnologia occidentali in rapporto ai paesi del cosiddetto Terzo mondo, portano in primo piano gli aspetti paradossali della nozione di modernità, e anche le ambiguità della sua pretesa liquidazione da parte del postmoderno.”10

La ricerca nominale per battezzare in maniera pertinente la nostra epoca costituisce un campo di interesse aperto, e pare proporsi come un buon “modo per osservare più da vicino ciò che sta prendendo forma”11.

Si può parlare di era globale, oppure era postbiologica o postumana, dato che “dall’invenzione della pillola, la tecnologia ha acquisito un tale controllo sui vari processi della vita umana che la dominanza biologica nella selezione e nella protezione della specie sta iniziando a declinare”12. O

ancora, si parla di epoca digitale, meglio, di epoca virtuale.

“La digitalità oggi è una condizione pervasiva. Influisce su di noi creando un nuovo spazio, accanto agli spazi mentale e fisico che occupiamo, non solo singolarmente e collettivamente come gli altri due, ma in via particolare, specifica e preferenziale in modo connettivo”13.

I valori del contemporaneo: qualità, memoria, identità

Provare a risalire le correnti di valori socio-culturali che attraversano questa epoca e che costituiscono il nutrimento del pensiero contemporaneo, costituisce una tappa interpretativa d’obbligo. La proposizione di una lettura della variegata mappa delle topografie dei parchi urbani contemporanei, filtrata da possibili categorie interpretative, spinge a farsi carico di una riflessione

8 Negli anni Novanta vengono pubblicati, o trovano una più ampia diffusione sul mercato editoriale internazionale, alcuni

di quelli che sono ora considerati classici della teoria della cultura: saggi e contributi critici da parte di filosofi, politologi, sociologi, antropologi, critici d’arte, eccetera, che costituiscono un fondamentale repertorio critico-analitico degli effetti del processo di modernizzazione sulle società contemporanee, e dei “mali” della modernità. Tra i più noti: DAVIDHARVEY, The condition of Postmodernity, Blackwell, Oxford 1989. Ed. it. La crisi della modernità, EST, Milano 1997; ALAIN

TOURAINE, Critique de la modernité, Parigi 1992. Ed. it. La critica della modernità, EST, Milano 1997; CHARLESTAYLOR, The Malaise of Modernity, 1991. Ed. it. Il disagio della modernità, Ed. Laterza, Roma – Bari 1994.

9 Docente di Letterature comparate alla Duke University di Durham, Frederic Jameson è ritenuto tra i più autorevoli

teorici del postmoderno. Nel 1984 ottenne ampia notorietà con la pubblicazione di Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo.

10CARLABENEDETTI, Introduzione. Il revival della modernità in FREDERICJAMESON, Una modernità singolare. Saggio

sull’ontologia del presente, Sansoni, Milano 2003.

11Pag. 8.DERRICK DE KERCKHOVE, Un nome per l’epoca in “Domus” 822, gennaio 2000. Pag. Citato in pagg.71-72.

12DERRICK DE KERCKHOVE, Ibidem.

sulle retoriche ed i paradigmi della cultura contemporanea, lanciando insieme uno sguardo a “passato e futuro delle città”14.

Come sostiene Giovanni Cerami:

“Descrivere le avventure del progetto moderno del giardino non può essere scisso dalla ricostruzione delle vicende che riguardano più in generale il tema della Modernità, e non solo per le relazioni con il suo principale <<luogo>> di appartenenza (e cioè la città), ma anche con gli aspetti letterari, filosofici, poetici ed estetici, in una parola <<culturali>>, che ne costituiscono i presupposti sociali”15.

Spaesamento, deterritorializzazione, frammentazione, smarrimento del senso di identità, della storia e di luogo: sono questi alcuni dei nodi concettuali del pensiero contemporaneo, affrontati nel consueto oscillare tra tradizione ed innovazione, tra valori del passato e idee di futuro, tra senso del sacro e del divino e fiducia nella Scienza e nella Tecnica.

E’ qui, in questo sconcerto della condizione dell’uomo e della società del XXI secolo, che affondano le loro radici le ragioni del dibattito attuale sulla crisi identitaria dell’individuo, ma anche quello sulla costruzione delle nuove identità paesistiche e urbane. Ed è un dibattito dai toni cangianti, legato com’è alle riflessioni sui sempre più tumultuosi mutamenti socio-culturali (improntati sui temi del pluralismo, della coesione, del multiculturale), e che sollecita approfondimenti in ambiti diversi del sapere. Investendo lo spazio dell’abitare e delle relazioni tra l’uomo e l’ambiente, la natura ed il paesaggio, il discorso coinvolge direttamente le discipline della progettazione dei luoghi. Sappiamo che ogni forma di paesaggio, urbano e non, rappresenta la cultura della società che lo ha plasmato e ne costituisce il teatro della vita quotidiana. Ecco perché è opportuno prendere in considerazione alcuni tra i temi sociologici, antropologici, di cultura del progetto della città attualmente più dibattuti, e che sono fondativi della questione etica/estetica applicata alla costruzione delle forme urbane contemporanee. E del resto pare esistere una stretta analogia, una corrispondenza non casuale tra la terminologia del disagio utilizzata dalle scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia) e quella in uso tra ecologi del paesaggio, paesaggisti, urbanisti per definire gli effetti prodotti dall’urbanizzazione su paesaggio e territorio. Se, come argomentano vari autori, la personalità dell’uomo contemporaneo è sempre più a rischio di frammentazione e perdita di identità, se la sua vita è deprivata di qualità, sovresposta ad una produzione incessante di immagini sempre nuove, e finisce per formarsi nel caos quotidiano e nello smarrimento del senso dei valori della storia, medesima lettura viene data rispetto ai paesaggi della contemporaneità.

Qualità versus quantità pare essere diventato il paradigma per le trasformazioni delle città del XXI secolo. Dopo decenni di sfrenato e abusato funzionalismo, la prassi basata sul principio della forma segue la funzione è stata prima direttamente ribaltata dal pensiero del post-moderno più convinto in la funzione segue la forma (si pensi ad esempio alla filosofia progettuale adottata negli anni Ottanta da Bernard Tschumi per il Parc de la Villette), poi, superata in parte la fase degli estremismi radicali, tradotta in una visione progettuale che non appare più così ideologicamente ancorata a dualismi oppositivi. Il concetto di qualità, nel dibattito sui modi e gli strumenti di miglioramento degli scenari urbani e paesistici dell’ordinario, viene di norma associato a valutazioni di tipo estetico-architettonico, ecologico-ambientale e culturale-sociale.

Parlare di qualità dei paesaggi urbani significa allora cercare quelle caratteristiche che rendono le città belle, vivibili, ambientalmente sane, socialmente eque, non immemori dei valori storici. Così, superata lo stordimento da standard di quantità, si è passati alla ricerca degli indici di qualità, di parametri di valutazione il più possibili oggettivi rispetto a qualcosa che non è poi così facilmente oggettivabile.

“Da un lato, è infatti possibile parlare di una qualità oggettiva degli spazi urbani, valutabile quantitativamente, da misurare e pianificare con strumenti che usano il linguaggio esatto dei numeri; dall’altro esiste una qualità soggettiva, una qualità che si colloca in una precisa prospettiva

14Con riferimento al titolo del libro del giornalista MARIOFAZIO, Passato e futuro delle città. Processo all’architettura

contemporanea, Einaudi, Torino, 2000.

15GIOVANNICERAMI, Il giardino e la città. Il progetto del parco urbano in Europa, Editori Laterza, Roma Bari, 1996.

storico-culturale che sfugge a queste logiche numerabili, e che pone sul tavolo a cui stanno seduti pianificatori, tecnici e amministratori, questioni di estetica, di semiotica, di antropologia, di sociologia e che parimenti deve essere stimata e sostenuta. Nel primo caso possono essere messe a punto metodologie e criteri scientifici, nel secondo si tratta di riconoscere una non meno importante sfida culturale, legata ad una ritrovata necessità di promuovere e costruire una vera e propria cultura del progetto dei luoghi dell’abitare, destinata a confrontarsi con l’immaginario collettivo, a promuovere la partecipazione dei cittadini, a tradurre in progetto le comuni istanze di qualità della vita di tutti i giorni.

Facciamo un esempio. La presenza di un bosco urbano migliora oggettivamente il microclima del quartiere in cui si colloca, forse dell’intera città. Il verde urbano, inteso sia come servizio, che come standard o come sistema, apporta oggettivamente un miglioramento della qualità urbana generale. In termini di ecologia urbana, il miglioramento è quantificabile: attraverso l’uso di determinati indicatori misurabili la qualità dell’aria e del microclima urbano, l’incremento della biodiversità, l’incremento della mobilità pedonale e ciclabile, l’ampiezza delle superfici permeabili per esempio. Posso misurare il grado di ombreggiamento delle diverse associazioni vegetali; la capacità di assorbimento di CO2 di una determinata specie arborea; l’effetto frangivento di una barriera verde; la differente quantità di biomassa generata da un bosco misto di caducifoglie o da una prateria a parità di superficie coperta.

La qualità, in questo caso, è data quindi dalle proprietà intrinseche degli elementi valutati, che fanno riferimento ad un sapere, a parametri scientifici applicabili indipendentemente dal punto di vista del soggetto che osserva.

Il dato qualitativo viene tradotto in entità misurabili, che aprono la strada alla creazione di nuovi strumenti scientifici capaci di indirizzare le politiche e la progettazione di nuovi spazi aperti nel segno della qualità ecologica e ambientale, secondo i principi delineati anche con il concetto di città sostenibile.

Parallelamente, però, la qualità urbana e dei suoi luoghi è data anche da fattori culturali, soggettivi, dipendenti dall’immaginario collettivo e dalle tradizioni appartenenti alle diverse epoche storiche, alle varie realtà geografiche, alle singole comunità. In questa prospettiva, ripensando ancora al bosco urbano, assume particolare interesse la ricerca progettuale delle forme, dei colori, dello studio delle associazioni vegetali, dello schema di piantagione, del rapporto tra vuoti e pieni, delle modalità di gestione da attuare in fase di mantenimento, ma anche la lettura simbolica che di quel bosco può esserne favorita.

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