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Fassoniere nello Stagno di Santa Giusta durante una regata.

Per altre attrezzature da pesca, le nasse ed una particolare rete chiamata “sciaigotti” usata negli stagni dagli “sciaigotteris”, veniva utilizzato il giunco. Nei paesi del Sinis ancora oggi è possibile trovare questi oggetti di artigianato, per l’attività di poche persone che sono continuatori di una tradizione millenaria.

È fiorente anche l’attività di tessitura, praticata sempre a livello familiare, sia per la produzione di oggetti usuali quotidiani, che per essere immessi nel mercato per la vendita; si producevano fino al dopoguerra coperte (tra le più apprezzate quelle a “pibiois”), tappeti e copriletti (fanugas), secondo modelli stilistici locali che ripetevano fedelmente disegni e combinazioni geometriche tradizionali. I dati e le notizie relative alla cultura materiale sono tratti da Murru R., 1993.

Il corallo, “Oro Rosso” del Sinis

Alla fine degli anni ‘70 a Cabras come per il resto della provincia, ci fu un vero e proprio boom economico. La vita e soprattutto il reddito di molte famiglie locali, sono stati fortemente influenzati da un nuovo tipo di pesca e dalla commercializzazione di una ulteriore risorsa proveniente dal mare. Viene chiamato

“l’oro rosso”, il corallo, che ha rappresentato per la comunità cabrarese, seppure per un breve periodo di tempo, una delle maggiori risorse.

Tutto cominciò nel 1975, quando un pescatore, incuriosito dal sempre più frequente impigliarsi di rami di corallo nelle sue uscite con i tramaglioni (reti usate in particolare per la cattura delle aragoste), decise di attrezzare la propria imbarcazione con un nuovo strumento; una croce di ferro lunga circa tre metri, di oltre cento chili di peso con retine resistentissime attaccate per rastrellare tutto ciò che si trova nei fondali marini: era il cosiddetto “ingegno”, che spianò la strada ai “corallini”. Dalle acque del Sinis, infatti, i chili di pescato, di quello che un tempo veniva considerato erroneamente una pianta di mare, diventarono realtà.

La notizia della possibilità di avere dal mare, con relativa facilità, una nuova fonte di reddito, si sparse velocemente. L’anno successivo il numero delle barche armate con “l’ingegno” salì a 10 unità e nelle stagioni che seguirono venne raggiunto il tetto massimo, con ben 65 imbarcazioni dedite alla nuova attività.

Da pescatori comuni i cabraresi avevano “inventato” un mestiere nuovo, il “corallino”, dimostrando notevoli capacità di adattamento, aiutati anche dalla già collaudata ed esperta flotta dei colleghi ponzesi. Un passaggio che non arrivò mai all’estrema conseguenza: nessun “corallino” cabrarese, infatti, è mai sceso in mare con le bombole a pescare il corallo da sommozzatore.

Negli anni ‘80 la nuova fonte di guadagno era il corallo. La corsa al corallo proseguì regolarmente fino al 1982 quando una scoperta segnò una tappa importante per il paese. Un’attenta lettura dell’ecoscandaglio permise a una “corallina” di individuare un banco “vergine” di rilevanti dimensioni. Da un fondale di oltre 160 metri, con l’aiuto di altre due barche consociate, emersero dal mare 10 quintali di corallo rosso e altrettanti della varietà denominata “giallone”.

Nello stesso sito si riversò immediatamente l’intera flotta corallina cabrarese: 40 barche, giorno e notte, grattarono il fondo, pescando mediamente un quintale e mezzo a testa. Una stagione magica, quella dell’82, rimasta nella memoria di tutta Cabras; negli anni seguenti, però, la pesca del corallo subì un progressivo calo.

L’enorme risorsa disponibile e le potenziali occasioni di sviluppo economico, legate al suo sfruttamento, vennero lasciate cadere ed è svanito nel nulla il progetto di creare nuova occupazione attraverso una scuola locale per la lavorazione del corallo.

L’artigianato e la commercializzazione della materia prima del Sinis di Cabras rimangono interamente sotto il controllo dei mercanti campani di Torre del Greco. Il loro monopolio non viene mai messo in discussione e progressivamente la pesca al corallo si spegne; a ciò si aggiunge il depauperamento dei fondali che costringerà la Regione a vietare la pesca con l’ingegno (Atzori A., 1995).

L’Ossidiana, “Oro Nero” del Monte Arci

L’ossidiana, denominata come “Oro Nero” del Monte Arci, è una roccia ignea d’origine vulcanica, vetrosa, amorfa, priva cioè di struttura cristallina, con un elevatissimo contenuto in silice (SiO2); la sua formazione infatti dipende dall’alto

contenuto di silice e dal veloce raffreddamento delle lave.

È presente in diverse aree del Mediterraneo, tra cui la Sardegna dove risulta localizzata nell’importante giacimento di Monte Arci; in questo complesso vulcanico

piroclastica talvolta rimaneggiati.

Il colore tipico dell’ossidiana riolitica del Monte Arci è nero intenso traslucido, ma esistono anche varietà più rare con sfumature rosse, marroni e grigie e, in rarissimi casi, verdi, blu e violetto.

Si raccoglie prevalentemente in grossi ciottoli, sia in giacimenti a cielo aperto che nei greti dei torrenti. Fra i giacimenti in filone, il più importante di tutti è sicuramente quello di Roia Cannas presso il territorio di Masullas (OR), mentre altri piccoli filoni sono presenti a Cuccuru Porcufurau presso il territorio comunale di Marrubiu e a Sennixeddu in territorio di Pau (qui chiamata pedra crobìna), lungo il sentiero di Scaba Crobina.

Ogni giacimento è caratterizzato da un tipo di ossidiana differente e le informazioni sui giacimenti e sulla distribuzione di ossidiana possono essere riassunte come segue:

Ossidiana di tipo “SA” si presenta in situ presso Conca Cannas, a nord-est di Uras

ed è associato con perlite; è nera, vetrosa e appare in forma di noduli (con il diametro medio di cm 10-15). In Sardegna questo tipo di ossidiana è stato ritrovato in circa 40% degli artefatti fino ad ora analizzati. In Francia e nell’Italia settentrionale, il tipo di ossidiana “SA” è decisamente il tipo di ossidiana sarda più comune (85%), ma in Corsica esso rappresenta meno del 5% dell’ossidiana analizzata.

• Ossidiana di tipo “SB”, originariamente identificato solo da campioni archeologici, può essere ritrovato sui pendii occidentali del Monte Arci, vicino a Santa Maria Zuarbara. È stato ritrovato del materiale lavorabile in situ presso numerose località che includono le zone del Monte Sparau Nord, Cucru Is Abis, Cuccuru Porcufurau, Punta Su Zippiri, Bruncu Perda Crobina e Su Paris de Monte Bingias. Sono stati osservati blocchi di 1 metro, e sia i giacimenti di Cucru Is Abis che di Bruncu Perda Crobina contengono noduli di 15-20 cm. L’ossidiana di queste zone è nera e tende ad essere vetrosa come quella di tipo “SA”, ma forse meno traslucida e spesso con accenni di grigio. Alcuni pezzi hanno delle caratteristiche macchie bianche, ma generalmente non è possibile differenziare ad occhio nudo l’ossidiana proveniente dai giacimenti sardi.

Ossidiana di tipo “SC” si trova in situ a Punta Pizzighinu, a sud di Perdas Urias, a circa 600 m s.l.m. Questo tipo di ossidiana appare più comunemente in depositi secondari ad altitudini più basse vicino a Santa Pinta, sotto Perdas Urias, e probabilmente anche a nord e ad ovest di Su Varongu. L’ossidiana di tipo “SC” è nera, spesso non è così vetrosa come quella di tipo “SA”, ma appare in blocchi di 30 cm. Il tipo di ossidiana “SC” è il materiale più comune in Sardegna ed in Corsica, e anche se è stato ritrovato nel continente, esso è presente in quantità minori dell’ossidiana di tipo “SA”.

Nonostante i numerosi giacimenti locali di ossidiana, sembra che il tipo di ossidiana “SB” sia stato usato raramente in Sardegna, visto che rappresenta solo il 5% degli manufatti analizzati. Analisi preliminari suggeriscono che il giacimento di Cucru Is Abis corrisponde ai pochi campioni archeologici analizzati. L’uso diverso

dei diversi tipi di ossidiana in Sardegna, in Corsica, e nel continente, è statisticamente significativo e suggerisce che esistevano diversi meccanismi di scambio locale, regionale e con il continente. È possibile che i commercianti del Mediterraneo occidentale possano aver trasportato il tipo di ossidiana “SA” direttamente nel Golfo di Oristano, dove navi hanno fatto rota verso Nord, passando per la Corsica verso la costa toscana.

Il tipo di ossidiana “SC” presente sulla parte orientale del Monte Arci, potrebbe essere stato trasportato verso il Golfo, ma è stato distribuito principalmente sulla terraferma. Anche se il tipo di ossidiana “SB” era usato solo localmente in Sardegna esso, era accessibile ai commercianti marittimi e probabilmente per questo motivo l’uso di questo tipo di ossidiana è aumentato in Corsica.

A causa delle sue caratteristiche mineralogiche, che la rendono particolarmente adatta alla scheggiatura, l’ossidiana divenne nel corso della preistoria una preziosa materia prima utilizzata e lavorata per la produzione di strumenti litici (lame, raschiatoi, punte di freccia) di vario tipo per tutto il Neolitico (VI-II millennio a.C.) da popolazioni che abitavano nella maggior parte dei casi in villaggi siti nella piana a occidente del Monte Arci in un’area che attualmente è compresa all’interno di un triangolo ai cui vertici stanno i paesi di Mogoro, Terralba e Cabras.

Dal punto di vista quantitativo, la presenza di strumenti litici in ossidiana predomina nel centro-sud dell’isola, mentre al nord l’uso di ossidiana come materia prima si accompagna (più frequentemente che a sud) all’impiego di selce (roccia sedimentaria composta quasi esclusivamente di silice).

In una prima fase l’ossidiana non veniva estratta, ma veniva semplicemente raccolta lungo le rive dei torrenti che scendendo dal monte portavano con sé ciottoli di roccia vetrosa di varie dimensioni. La lavorazione non avveniva in loco, ma in un secondo momento direttamente nel villaggio; in questa fase, quindi, non si può verosimilmente parlare di sistematico sfruttamento dell’ossidiana, né di una qualche specializzazione a essa legata.

A questa prima fase, riferibile all’incirca alla parte iniziale del Neolitico, ne succedette una seconda (seconda metà del VI millennio - V millennio a.C.) in cui la fase iniziale della lavorazione avvenne nei pressi dei luoghi di rinvenimento dell’ossidiana.

Soltanto nelle fasi finali del Neolitico sembra instaurarsi un processo di sistematico sfruttamento e lavorazione in loco della pietra, con una probabile forma di specializzazione finalizzata alla distribuzione della materia prima.

Le ricerche da tempo in corso sul Monte Arci hanno consentito di identificare diversi centri di estrazione e di lavorazione dell’ossidiana, fornendo preziose informazioni relativamente all’intera filiera tecnologica ed economica che, dall’estrazione dell’ossidiana dalle cave, giungeva alla produzione del manufatto finito.

Attualmente i principali giacimenti di ossidiana sono quelli di Perdas Urias in territorio di Pau, Sonnixeddu in territorio di Masullas, nel versante orientale del monte, nel versante occidentale quelli di Roja Cannas in territorio di Masullas, e Tzipaneas in territorio di Marrubiu. Nei pressi del giacimento i noduli d’ossidiana venivano sottoposti a una prima lavorazione, che veniva poi perfezionata in un secondo momento nel villaggio.

Questa è anche una delle ragioni per cui la Sardegna, e specialmente la piana ai piedi del Monte Arci, ha attratto fortemente l’uomo preistorico. Da qui l’ossidiana del Monte Arci si diffuse gradatamente in tutta l’isola, in Corsica, quindi nell’Italia centrale (Toscana e Lazio in particolare), nell’Italia settentrionale, nel sud della Francia, e infine, sebbene in maniera meno frequente, nell’arco pirenaico e in Catalogna.

Per le fasi più antiche della sua diffusione sembra improprio parlare di vero e proprio commercio, vale a dire di un’attività propriamente specializzata finalizzata all’approvvigionamento della materia prima o dei manufatti nei luoghi di loro produzione e alla loro successiva vendita in luoghi diversi e diversamente lontani. Si dovrà parlare piuttosto di “scambi di confine” tra popolazioni diverse, grazie al quale l’ossidiana si è diffusa in luoghi sempre più distanti da quelli di origine.

Pesca

L’importanza economica delle zone umide di una certa estensione risiede soprattutto nelle attività di pesca tipiche delle lagune sarde e nelle recenti iniziative di acquacoltura. Di seguito vengono riportate le principali attività praticate nell’area di studio:

La pesca professionale: come si può rilevare in un dettagliato studio sulle lagune

dell’isola (Consiglio Regionale della Sardegna, 1981), l’ittiocoltura, ossia la gestione “sensu lato”di particolari specie di pesci nelle acque salmastre degli stagni-lagune, costituisce una delle maggiori attività economiche, per di più tradizionali, dell’Isola. Le specie ittiche tipiche degli ambienti salmastri sono costituite sia da specie marine sia da specie d’acqua dolce, ma si tratta sempre di specie particolari, dotate di grande adattabilità e quindi capaci di sopportare diverse variazioni come per esempio la salinità, che muta a seconda della presenza o meno di immissari di acqua dolce, della esistenza di bocche a mare, della marea, della evaporazione, della temperatura dell’acqua, che varia molto a causa della limitata profondità tipica di questi ambienti e il pH, come conseguenza di questi ed altri fattori. Le poche specie di pesci tipiche di tali “difficili” ambienti risultano soprattutto i Cefali, le Spigole e le Orate.

La pesca professionale costituisce una delle maggiori attività economiche, svolta da secoli nella quasi totalità dei comuni che fanno parte dell’area di studio. Purtroppo l’inquinamento delle acque ed il mancato rispetto del necessario riposo biologico hanno fortemente diminuito, in molti stagni-laguna, la produttività del settore.

Pesca sportiva e caccia: tra le fruizioni sociali capaci di aumentare l’importanza

economica delle zone umide, ed in particolare di quelle non costituite in oasi, può essere posta, come accade in tutta l’Europa, l’attività venatoria e quella della pesca sportiva, da attuare mediante adeguati e severi controlli. Ovviamente, quando si parla di possibile esercizio venatorio nelle zone umide, anzi di esercizio venatorio in genere, non ci si riferisce alla caccia anarchica ed al nomadismo venatorio che caratterizzano da troppi anni questa attività in Italia ed in Sardegna, salvo alcune eccezioni. Occorre invece riferirsi ai modelli europei di attività venatoria, che legano

il cacciatore ad un dato territorio, obbligandolo ai necessari controlli e coinvolgendolo nella gestione.

Per quanto riguarda la pesca sportiva nelle acque interne, essa trova finora un interesse non adeguato alla potenzialità dei tanti specchi d’acqua esistenti nell’oristanese. E’ un’attività tuttavia in sviluppo, anche sulla scia degli appassionati provenienti da altre regioni, in particolare l’Emilia-Romagna, i quali in genere prediligono i laghi artificiali, con catture soprattutto di Carpe, Persici-trota e Trote. In anni recenti, in particolare di Carpe, sono state effettuate vere e proprie mattanze, senza un controllo o un limite (Massoli-Novelli R., Mocci Demartis A., 1989).

I pescatori di Cabras

Parlare di pescatori di Cabras ha significato, quasi sempre, riferirsi ai pescatori di stagno; questo perché le vicende storico-culturali di Mar’e Pontis, del mare dei “padroni”, hanno catalizzato l’interesse di studiosi e non, sia nel passato che, ancor più, in tempi recenti.

La ricchissima documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Cagliari e le testimonianze acquisite da chi nello stagno di Cabras ha vissuto e lavorato indicano chiaramente l’importanza economica che il compendio ha avuto e aiutano a comprendere le vicende che si sono susseguite.

Appartenuto al patrimonio del Giudicato di Arborea, quindi alla Corona di Spagna, nel 1652 fu ceduto come pegno, per un debito mai estinto, al banchiere Geronimo Vivaldi di Genova. È ancora di proprietà del Marchese Vivaldi-Pasqua nel 1812, quando, nella Descrizione della Sardegna di Francesco d’Austria-Este, menzionato fra i principali stagni, risulta affittato per seimila e più scudi.

Nel 1852 i Vivaldi-Pasqua, ormai duchi di S. Giovanni, che per lungo periodo avevano concesso lo sfruttamento di stagni e peschiere a notabili di Oristano in cambio di un “rovinoso affittò e regalie non indifferenti” - secondo quanto riferito da Pasquale Cugia nel 1892, vendettero alla nobile famiglia Carta di Oristano lo stagno e le peschiere per 1.025.000 lire.

Per oltre un secolo la famiglia Carta gestì questo patrimonio che, soltanto dopo la lunga lotta dei pescatori di Cabras per l’applicazione della L.R. N° 39, le interminabili trattative e un periodo di completo abbandono e degrado, fu acquistato dalla Regione Sarda per tre miliardi di lire nel 1983.

La pesca nello stagno non è mai stata un’attività priva di preoccupazioni per i proprietari delle varie epoche storiche. Pur essendosi mantenuto un sistema gerarchizzato fra i dipendenti e potendo contare sulla loro assoluta fedeltà, fin da tempi remoti hanno ripetutamente denunciato furti di pesci e di bottarghe da parte di quei cabraresi, ai quali era preclusa la possibilità di lavoro nello stagno. Ma le richieste di interventi severi e decisi all’autorità giudiziaria e il costante servizio di guardiania, costato anche vite umane, non sono mai serviti a risolvere definitivamente il problema della pesca abusiva a Cabras.

L’antica organizzazione piramidale, rimasta funzionante fino ai primi anni ‘70, vedeva i pescatori di stagno divisi in due gruppi: i pescatori fissi, addetti allo sfruttamento e alla manutenzione delle peschiere e i pescatori vagantivi, stagionali, che esercitavano la pesca con diversi sistemi, una sorta di mezzadri delle acque, scelti dai padroni.

Si aveva al vertice della piramide “s’abitanti”, una sorta di messaggero, di uomo di fiducia, di intermediario fra pescatori e proprietari, che ha sempre avuto una sua posizione al di sopra di tutti. A fare da direttore d’azienda c’erano i capipeschiera, i pasrasgius (i pesatori), gli organizzatori della vita e del lavoro nelle peschiere e i sovrintendenti alla pesca vagantiva nell’intero compendio. Alle dipendenze dei pasrasgius c’erano i tzaraccus (i servi), forti e abilissimi lavoratori, esperti in svariate tecniche di pesca, da quelle con le reti alla pesca a mano.

Anche i pescatori vagantivi erano suddivisi in sottogruppi, differenziati nel numero e nella concessione di pesca. I privilegiati erano cinque “scaigotteris” che esercitavano la pesca tutto l’anno con una rete a strascico, la “sciabica” (sciaiga).

Ai “poiggeris” (il cui nome deriva da un tipo di rete chiamata “poiggiu”), in numero di venti persone, oltre all’uso di una rete a maglia larga, per alcuni mesi dell’anno era concesso il privilegio di partecipare alla pesca nella Peschiera Pontis e di controllare lo stagno dai pescatori abusivi.

I “bogheris” (da “boga’i”, remare) o vogatori, in numero di oltre un centinaio, avevano una serie di restrizioni nell’esercizio della pesca e nell’uso delle reti; anch’essi collaboravano al rifacimento dei lavorieri (impianti da pesca a labirinto, costruiti con canne o ponti in alluminio nei canali che mettono in comunicazione gli stagni e le lagune col mare) e di tutto l’impianto delle peschiere due volte l’anno.

Ultimi nella scala gerarchica i più umili, i “paramittaius” (i palamitai), categoria alla quale, dietro il pagamento di un canone annuo, era consentito il solo uso di lenze tenute da una cordicella lunga anche due chilometri, il palamito, appunto e di un’imbarcazione di materiale palustre, “su fassõi”. Con questa misera categoria di pescatori, limitata anche negli strumenti di lavoro, si esauriva la gerarchia piramidale che ha permesso un intenso sfruttamento delle acque del “Mare dei Ponti”.

Alla gerarchia dei ruoli, delle professionalità e dei privilegi si accompagnava una gerarchia di spazi. Ai vagantivi i padroni concedevano una vita quotidiana all’interno del proprio nucleo familiare e offrivano sulle rive dello stagno basse costruzioni in terra cruda e spazi all’aperto per l’organizzazione del lavoro, il ricovero degli attrezzi, la riparazione delle reti, il rendiconto del pescato mentre ai dipendenti delle peschiere veniva riservato un diverso trattamento; i “pasrasgius” trascorrevano, alternandosi, una settimana in famiglia e una presso la peschiera, i “tzaraccus” avevano rari momenti di vita comune con i propri familiari dal momento che era concesso loro un solo giorno di libertà alla settimana.

I “tzaraccus” trascorrevano la maggior parte del tempo nel piccolo villaggio di Pontis, dove ad ogni persona e ad ogni cosa erano attribuiti un proprio spazio e i propri compiti. Le “baraccheddas de castiu”, capannette su palafitte per il controllo dei lavorieri, costituivano il giaciglio per la notte dei “tzaraccus”; “s’apposentu de is

pasrasgius” era la camera da letto dei capipeschiera, “su poatziu”, il palazzetto dei

padroni, “sa cresiedda de S. Bissenti”, la chiesetta di S. Vincenzo, per la celebrazione delle Messe domenicali.

Il complesso edilizio, di un certo interesse urbanistico, con opere le vecchie di qualche secolo, era sempre tenuto in perfetta efficienza da continui restauri e anche le parti realizzate in materiali vegetali e palustri, quindi di breve vita, erano controllate

giornalmente e sostituite puntualmente per assicurare la massima rendita e sicurezza.

Gli strumenti e le attrezzature utilizzate erano scrupolosamente tenuti dai pescatori e forniti dai padroni: in tal modo era assicurato il controllo dei mezzi e dei sistemi di sfruttamento delle acque. Soltanto ai poveri palamitai era concessa la

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