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Il nome di Piazzalonga ci è stato tramandato da Gaetano Susani1 che, non si sa sulla base di quali documenti, lo aveva detto «man-tovano» e aveva a lui assegnato, come eseguito nel 1693, il coro della chiesa di San Domeni-co (tra l’altro già ai suoi tempi smembrato tra la chiesa di Santa Barbara (1800) e, forse, la chie-sa di San Tommaso apostolo di Bondeno di Gonzaga). L’attribu-zione, messa in forse dagli studiosi successivi, solo recentemente è stata ricondot-ta al ben più noto Lorenzo Aili.2

Perduta sia la statua intagliata della Madonna del Rosario sia la sua cornice della chiesa parrocchiale di Villimpenta,3 opere sicuramente sue sono il Cristo deposto, del 1691, oggi nella chiesa parrocchiale di Ostiglia ma proveniente dall’Oratorio della Compagnia della Santa Croce, collegato ai Domenicani,4 e la porta in noce intagliata, firmata e datata 1693, proveniente dal convento di San Domenico di Mantova, conservata nel Palazzo ducale5 (figure 13 e 14).

Suoi dovrebbero essere pure gli intagli che decorano l’altar maggiore della chiesa di San Martino, databili tra il 1692 e il 1702, per i quali ricevette «tra legname e fatura», lire 240 dal priore Giulio Cesare Lugli.6

1 Nuovo prospetto, cit., p. 34.

2 f. NegriNi, Tre chiese per un coro di Lorenzo Aili, «Civiltà Mantovana», anno XXXIV, n.

109, novembre 2009, pp. 86-99; Si veda anche m.g. grASSi, Gli arredi, cit., p. 102 2 n. 60; 106, fig.

19, 108 e n. 82; eAdem, Appunti, cit., pp. 6-7.

3 Donatella Martelli, Renata Casarin, comunicazioni orali.

4 g. mAtthiAe, Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, VI, Provincia di Mantova, Roma 1, i935, p. 124; A. ghirArdi, in Una chiesa, un paese, cento anni, Ostiglia 1999, p. 11-12, 35 fig. 9.

5 m.g. grASSi, in Tesori d’arte nella terra dei Gonzaga, catalogo della mostra (Mantova 1974), Milano 1974, pp. 48, 129 scheda n. 188; in precedenza: l. ozzolA, Il Museo d’arte medievale e moderna del Palazzo ducale di Mantova, Mantova, s.d. (ma del 1950), pp. 58-59, figg. 225, con alcune incisioni.

6 ASDMn, CV, Benefici, b. 33, 6; Parrocchia di San Martino, 1559-1870, Inventario 30 agosto 1702, c. 5r. Si veda anche: g. pAStore, L’antica chiesa di San Martino in Mantova, «Civiltà Mantovana», 46, 1974, pp. 182-185, che però non lo nomina).

Fig. 13 - Ostiglia (Mn), Chiesa di Santa Maria As-sunta, Cristo deposto. Federico Piazzalonga (1691).

Dall’atto di morte – scomparve il 4 dicembre 1710, a 60 anni7 – possiamo risalire all’anno di nascita, il 1650. Da quello del suo primo matrimonio mantovano con Vittoria Caranti-ni, del 4 luglio 1689,8 e dal collegato contrat-to di nozze9 ricaviamo tutta una serie di noti-zie di un certo interesse: figlio di Domenica, proveniva da Bergamo ed era vedovo con un figlio, Carlo; abitava in contrada dell’Orso ed era «intagliatore del Serenissimo Princi-pe» (pur essendo detto, in genere «capitano»

al servizio del Gonzaga, ma non si specifica in quale arma). La moglie gli porta in dote una casa, però a livello, posta in contrada del Cervo, ossia di Santo Spirito: infatti in seguito asserirà di possedere la cittadinanza mantovana, per ottenere la quale, come si è detto per Guglielmo Duschi, era necessario possedere una abitazione propria.

Nella nuova casa, situata di fronte alla chie-sa di Santo Spirito, il Piazzalonga organizza via via gli spazi per la sua attività, dopo aver avuto da un certo Giovanni Craudi orefice, per fronteggiare le spese, un prestito di ben 250 scudi d’oro.

Scomparsa Vittoria, il 30 settembre 1699 si risposa con Laura Pianca, nipote dell’arci-prete di Roncoferraro. Dal matrimonio na-scono due figli, Giacomo Antonio e Maria

Rosa, alla sua morte, avvenuta come sappiamo il 4 dicembre 1710, ancora mino-renni. Questo rende necessaria, a tutela dei loro diritti, la stesura dell’inventario dei beni di famiglia, mobili e immobili, che viene redatto il 27 gennaio 1777 su richiesta di Carlo, il fratello maggiore, e della loro madre, Laura Pianca.

Da esso e da una serie di atti notarili sappiamo che nel frattempo (1704) Federico era riuscito ad accorpare alla prima casa, che aveva riscattata e acquistata, due altre casette adiacenti, una appartenente alla Società del Santissimo Sacramento di Sant’Egidio: dell’una e dell’altra pagava un livello annuo di 14 e 15 scudi.

7 ASDMn, APA, Sant’Egidio, 1679-1726, n. 53.

8 Ibidem, CV, Matrimoni, 1653-1714.

9 ASMn, AN, not. Pietro Orlandi, 1688-1689, b. 6511 bis, doc. 5 luglio 1689.

Fig. 14 - Mantova, Museo del Palaz-zo ducale, porta intagliata, Federico Piazzalonga (1693).

La lettura dell’inventario ci permette di ‘visitare’, seppure col pensiero, la dimora che Federico aveva approntato per sé e per i suoi famigliari. Stupisce, anche se si tratta di un artista, la quantità di quadri di ogni dimensione, su tela e su carta, alle pareti delle stanze del primo piano: fiori, paesaggi, una natura morta con «cappo-ni, rappe e capuzzi», soggetti sacri, tra cui un «geroglifico della morte», forse una

«Danza macabra», racchiuso in una specie di tabernacolo a colonne e frontone. E anche statue di grandezze diverse in gesso, al naturale o tinte uso bronzo, intagli.

Ma soprattutto il ritratto «alquanto grande» di Federico stesso e quello, in terra-cotta, «del Serenissimo defonto» cioè del duca Ferdinando Carlo, morto nel 1708, forse opera proprio del padrone di casa. E anche «l’effigge» di un bucintoro, certo quello di cui ancora parlavano con una certa ammirazione i marangoni negli anni

’40. L’interesse maggiore è per gli ambienti in cui è più diretta la presenza dell’in-tagliatore, che pure lascia le sue tracce qua e là, ad esempio, in un cassone della stanza da letto, in cui conservava modelli e disegni: i suoi laboratori, attrezzatis-simi, uno accanto al granaio, in una zona tranquilla, e uno al piano terreno, oltre la corte, certo la bottega, con accesso dalla porta di strada aperta ai committenti.

In quest’ultimo, accanto a vari «pezzi» di legno abbozzati, vi sono «due modelli […] a tutta figura alti due braza in circa (1 metro, n.d.a.)» uno con «in testa una corona d’alloro e l’altro una corona […] alla forma d’una regina», che ci danno la sicurezza che egli, al momento della sua scomparsa, era in piena efficienza.

La porta, in noce, misura cm 225×190. In essa gli intagli sono suddivisi in due riquadri di altezze diverse, chiusi in uguali cornici modanate, uno nella parte su-periore, più alto, l’altro in quella inferiore, collegati da una fascia centrale. In quello superiore, entro un compatto serto ovale di foglie, fiori e frutti, stretto da nastri e circondato da rami d’alloro che occupano gli spazi vuoti fino all’incor-niciatura, è raffigurata sulle nuvole la Madonna con in braccio il Bambino, che tende un rosario da baciare a san Domenico, inginocchiato a terra ai suoi piedi.

Sotto le ginocchia del santo, sul bordo di un basso gradino, si legge la scritta:

«FED. PIAZZALONGA 1693» (figura 14). Sullo sfondo è incisa la veduta di una chiesa. In alto, sulle nuvole, si affacciano due cherubini. La fascia centrale reca scolpita nel mezzo una testa di cherubino contornata da ridondanti volute simmetriche di foglie d’acanto e spighe di fiori. Nel riquadro inferiore due grandi putti alati sorreggono uno stemma incorniciato da ricche volute, nel quale è raffi-gurato un cane accovacciato su un libro aperto che reca in bocca una face accesa (attributo di san Domenico). Dietro fa da sfondo un triangolo sul quale spicca una corona, in cui sono infilati a sinistra una palma e a destra un giglio, sormontata da una stella a sei punte: simboli tutti collegati all’ordine domenicano. Esuberanti motivi a fogliami riempiono gli spazi intorno. L’intaglio, condotto a forte risalto nelle parti decorative, si fa più morbido nella composizione figurata del comparto superiore, pur tradendo una componente popolaresca sia nella posa delle figure che nell’indulgere ad un fare sommario nelle aureole e nella veduta.

SUL FASCINO ANTROPO-MECCANICO DELLA BICICLETTA

INTRODUZIONE

Risulta difficile stabilire se, e in che misura, la bicicletta si pos-sa considerare un oggetto scientifico, oltre che tecnologico. Sterminata è infatti la letteratura sui nuovi materiali, i tipi di trasmissione, di cambio, di ammortizzatori e di pneumatici; mentre assai ridotta è quella dedicata alla bicicletta come oggetto fisico e, in particolare al problema meccanico della sua stabilità. Per la verità, ci fu un periodo di interesse negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso che poi lentamente andò spegnendosi. La maggior parte dei manuali di meccanica non si curano del funzionamento della bicicletta o si limitano a dire che la sua stabilità è dovuto all’intervento del ciclista che sterza nella direzione verso la quale sta cadendo per introdur-re una forza centrifuga nella misura necessaria a ripristinaintrodur-re l’equilibrio.

Per contro, gli studi scientifici sulla bicicletta risalgono agli anni in cui varie forme si contendevano il primato tecnologico. Risulta sorprendente trovare fra gli autori più attivi William Rankine, professore di ingegneria a Glasgow, universalmente considerato uno dei padri della moderna ter-modinamica applicata ai motori, che dedicò notevoli sforzi al problema della stabilità della bicicletta. Nel 1869 The Engineer pubblicò una serie di articoli sulla teoria della bicicletta 1 che l’anno successivo vennero rac-colti e pubblicati anche in Francia, nei quali si stabiliva che per recuperare l’equilibrio era necessario sterzare dalla parte verso la quale il velocipede avesse cominciato a cadere:

Per conservare l’equilibrio di un velocipede, è necessario disporre le ruote in modo tale che il punto centrale d’appoggio sia in ogni istante traversato dalla risultante del peso e della forza centrifuga, o almeno che le sue deviazioni siano prontamente corrette. A questo scopo il cavaliere agisce sul manubrio, dando al piano della ruota anteriore una conveniente inclinazione rispetto al piano della ruota posteriore, conferendo, secondo necessità, alla traiettoria del punto centrale d’appoggio una conveniente curvatura, a destra o a sinistra. Se la traiettoria del

1 W.J.M. RANkiNe, On the dynamical principles of the motion of velocipedes, The Engineer, N. 28, 1869, pp. 79, 129, 153, 175.

centro di gravità è una linea retta, quella del punto centrale d’appoggio è anch’essa una retta sullo stesso piano. Allorché la traiettoria del centro di gravità è una cir-conferenza, quella del punto centrale d’appoggio dev’essere un altro cerchio pa-rallelo, di raggio un po’ più grande di quello della traiettoria del centro di gravità.2 Una teoria matematicamente formulata da Timoshenko e Young nel loro classico trattato di Dinamica Superiore,3 confermava la stabilità della bicicletta come dovuta alla manovrabilità dello sterzo e alla velocità di traslazione; ma non era esente da qualche carenza.

È infatti comune esperienza dei ciclisti, che la bicicletta è costi-tuzionalmente stabile e che non cadrebbe neppure a volerlo. Addirittu-ra, anche una bicicletta senza ciclista conserva per un lungo tratto la sua stabilità; fenomeno attribuibile al fatto che il manubrio provvede da solo a sterzare nel modo opportuno. Alcuni studiosi hanno collegato questa proprietà della bicicletta con quella di una ruota che rotola liberamente sul pavimento: anche questa conserva a lungo il suo equilibrio, sterzando nel verso in cui inizia a cadere. Il tema del ruolo di quello che è noto come

‘effetto giroscopico’ sulla stabilità della bicicletta venne preso in esame, seppure di passaggio, persino da Arnold Sommerfeld nel suo celebre trat-tato di meccanica:

La stabilità di questo sistema, a velocità sufficientemente grandi, riposa sul fatto che il ciclista, sia girando il manubrio, sia per mezzo di istintivi movi-menti del corpo, provoca l’insorgere di opportune forze centrifughe. Che l’effetto giroscopico delle ruote sia trascurabile rispetto a questi effetti centrifughi lo si riconosce dalla struttura delle ruote: se infatti si volesse utilizzare l’effetto girosco-pico, per rinforzarlo si tenderebbe a munire le ruote di pesanti pneumatici, anziché costruirle più leggere possibili. Ciò nonostante si può mostrare che anche queste deboli azioni giroscopiche portano il loro contributo alla stabilità del veicolo.4

Ma, più di alcuni ponderosi trattati di meccanica usciti negli anni

’60,5 che si occuparono degli effetti giroscopici in relazione alla stabili-tà della bicicletta, fu decisivo il lavoro sperimentale di David Jones che

2 id., Théorie du vélocipède, Paris, au bureau du Journal Les Mondes et chez Gauthier-Villars 1870.

3 S. timoSheNko, d.h. youNg, Advanced Dynamics, New York, McGraw-Hill 1948, p. 239.

4 A. Sommerfeld, Lezioni di Fisica Teorica, Volume Primo, Meccanica, Firenze, Sansoni Edizioni Scientifiche 1957, p. 165.

5 A. grAy, A treatise on Gyrostatics and Rotational Motion, Dover, New York, 1959, p. 146;

J.p. deN hArtog, Mechanics, Dover, New York, 1961, p. 328.

dimostrò in maniera incontestabile la loro marginalità sulle proprietà di stabilità della bicicletta.6

Tuttavia, una revisione della letteratura scientifica in materia non rientra tra i fini di questo lavoro; che vuole essere piuttosto un’esposizione in termini di meccanica elementare dei problemi posti dal sistema biciclet-ta-ciclista. Perché la prima cosa da osservare è che la bicicletta è costruita intorno al corpo umano e quindi partecipa delle proprietà delle protesi. Le sue dimensioni, la forma, i meccanismi, sono in funzione delle dimensioni e prestazioni umane, per cui non ha senso uno studio della bicicletta come sistema meccanico a sé.7

Peculiare della letteratura in materia di stabilità della bicicletta è il fatto che i modelli adottati vengono descritti mediante equazioni differen-ziali (del secondo ordine) non suscettibili di interpretazioni meccaniche elementari.8

Il motivo di fondo risiede nel fatto che il sistema di riferimento adottato è quello in moto con la bicicletta stessa. Nessuno studioso, a co-noscenza dell’autore, ha avuto l’idea di guardare al sistema biciclo-ciclista proiettato sul piano perpendicolare al moto. In questo sistema, il problema della stabilità della bicicletta, diventa simile a quello della stabilità di un palo verticale, mantenuta grazie a piccoli spostamenti della sua base, im-magine del punto di contatto fra ruota posteriore e pavimento.

ORIGINI DELLE DIFFICOLTà NELLA COMPRENSIONE DELLA MECCANICA DELLA BICICLETTA

Pare che Aristotele avesse già, venti secoli prima di Newton, un’i-dea – seppur nebulosa – di quello che è noto come ‘terzo principio’. Scri-ve infatti, lo Stagirita, nel suo trattato sulla locomozione degli animali:

gli animali che si muovono compiono i cambiamenti di posizione spingendo contro i corpi che hanno sotto di loro; e così, se questi ultimi scivolano via troppo rapidamente da non consentire a quello che comincia a muoversi di premere contro di lui, o se non offre alcuna resistenza a quello che comincia

6 D. E.H. JoNeS, The stability of the bicycle, in Physics Today, 23 (4), 1970, ripubblicato in The Physics of Sports, Edited by A. Armenti Jr., AIP Press, 1992, pp. 169-175.

7 H. LiN, Fundamentals of zoological scaling, in Am. J. Phys. 50 (1), Jan.1982.

8 J. Lowell, h.d. mckell, The stability of bicycles, Am. J. Phys. 50, 1106-1112, 1982, ripub-blicato in The Physics of sports, Springer-Verlag New York, Edited by A. Armenti Jr 1992; r.S. ShArp, On the Stability and Control of the Bicycle, in Appl. Mech. Rev 61(6), Oct. 2008, pp. 1-24.

a muoversi, l’animale non può muoversi per nulla.9

Oggi, nel descrivere il moto degli animali, utilizzeremmo il termine

“forza”, che non compare nel brano di Aristotele; ma il significato rimane comunque quello sintetizzato dal newtoniano ‘Principio di Azione e Re-azione’: per esercitare una forza su se stesso, l’animale deve esercitarne una eguale e contraria su un altro corpo.

Si direbbe una proposizione meccanica elementare e diffusa; ma la cosa non viene confermata dall’interpretazione che ha nella fisica inge-nua, che è sempre, irrimediabilmente, antropocentrica. Nel caso del moto della bicicletta, la visione universalmente prevalente è quella secondo la quale il veicolo si muove sotto la spinta del ciclista stesso – cosa che ha una qualche motivazione – ma a nessuno viene da pensare che il moto sia dovuto alla forza esercitata dall’asfalto. Un errore di interpretazione giu-stificato dal fatto che, in direzione longitudinale, le ruote della bicicletta svolgono due funzioni apparentemente antitetiche. In quella direzione, le ruote hanno il ruolo di eliminare (quasi) completamente l’attrito radente e, nello stesso tempo, di conservarlo il più alto possibile. Il sistema dello pneumatico (camera d’aria e copertone) è realizzato in maniera tale che l’attrito radente fra la sua superficie e l’asfalto sia il più alto possibile e, nello stesso tempo, l’insieme dei perni e dei cuscinetti è tale da ridur-lo praticamente a zero in condizioni ordinarie, ovvero quando la ruota si muove di puro rotolamento. L’attrito radente si manifesta ed è intenso, solo quando la velocità periferica della ruota ha un valore diverso dalla velocità della bicicletta rispetto all’asfalto, ovvero solo nelle fasi di acce-lerazione longitudinale.

Se il piede del ciclista esercita una forza sul pedale, la forza longitudinale che la superficie dell’asfalto esercita sul punto della ruota a contatto vale

dove p indica la lunghezza della pedivella, R il raggio della ruota ed M la moltiplica che caratterizza il sistema corona-pignone. Affinché la ruota non slitti, è necessario che tale forza sia inferiore alla forza massima di attrito radente, ovvero che

9 AriStotele, Περι ζooν κινεσεοσ, Progression of animals, traduzione di E.S. Forster, Cam-bridge, Harvard University 1945, p. 489.

dove indica il coefficiente d’attrito, m la massa gravante sulla ruota po-steriore e g l’accelerazione di gravità. Si tratta di una condizione quasi sempre soddisfatta, per le dimensioni di pedivelle e ruote, per la confor-mazione e il materiale dei copertoni, e infine per gli asfalti in uso, che garantiscono il moto di puro rotolamento della ruota.

MECCANICA DEL MONOCICLO E SUE DIFFERENZE RISPETTO A QUELLA DELLA BICI-CLETTA

La condizione di sospensione del sistema ciclista-bicicletta non è di equilibrio, come sta a dimostrare la traccia eventualmente lasciata dalla ruota, sempre, caratterizzata da curve più o meno accentuate e da un inin-terrotto moto del manubrio. È infatti esperienza comune che una bicicletta alla quale si sia bloccato il manubrio, è incavalcabile. Un’osservazione che stabilisce uno stretto rapporto fra la curvabilità della traiettoria della bicicletta e la sua cavalcabilità.

Fig. 1 - Immagine schematica di un monociclo

Può essere utile partire dalla meccanica del monociclo allo scopo di individuare le ragioni della sua cavalcabilità.

Il monociclo è uno strumento che consente di muoversi in una sola direzione, con totale simmetria fra un ‘avanti’ e un ‘indietro’. Tre princi-pali caratteristiche lo distinguono dalla bicicletta: il minor diametro della ruota, l’assenza di una moltiplica e la presa diretta.10

Le prime due caratteristiche discendono dal fatto che nel monociclo l’equilibrio (uno pseudo-equilibrio) non dipende dalla velocità; mentre è strettamente dipendente dalla possibilità di compiere spostamenti in

avan-10 r.S. ShArp, On the stability and control of unicycles, in Proceedings of the Royal Society London, 2010, A 466, pp.1849-1869.

ti e indietro. Il fatto che in questo congegno il raggio della ruota sia di poco superiore alla lunghezza della pedivella rivela che la forza applicata al pedale è poco minore di quella esercitata dal pavimento. Consente quin-di repentini spostamenti del punto quin-di contatto fra ruota e pavimento. Sia la ruota del monociclo che quelle della bicicletta sono ad alto coefficiente d’attrito statico col pavimento, tale da consentire solamente moti di puro rotolamento, con la differenza che il monociclo ha un solo grado di libertà sul pavimento; mentre la bicicletta può (anzi deve) compiere spostamenti trasversali proprio grazie all’elevato attrito che lo impediscono.

Lo pseudo-equilibrio di un monociclista è simile a quello che si crea quando si tiene in (pseudo)equilibrio sul palmo della mano un’asta o un manico di scopa. Si tratta, in realtà, di una successione ininterrotta di cadute incipienti, continuamente compensate agendo sulla base dell’asta.

Per correggere una caduta incipiente basta infatti imprimere un’accele-razione al punto di appoggio nello stesso verso in cui ha inizio la caduta.

Fig. 2 - Recupero dell’equilibrio di un’asta nel caso di caduta incipiente

Possiamo anche dire che è possibile mantenere in equilibrio un ma-nico di scopa inclinato, purché imprimiamo al suo appoggio un’accelera-zione opportuna, cioè tale che

dove a indica l’accelerazione orizzontale, g quella di gravità e lo scosta-mento dalla verticale.

Se l’accelerazione del piede del bastone è maggiore di il bastone si raddrizza; se minore, il bastone cade. Questo spiega come mai riesca abbastanza facile mantenere in piedi un bastone su una mano.

Per correggere una caduta incipiente, basta imprimere al piede del bastone un’accelerazione nello stesso verso della caduta, di valore supe-riore a

Poniamo che il bastone sia inizialmente spostato rispetto alla

Poniamo che il bastone sia inizialmente spostato rispetto alla

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