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Il lavoro femminile nei diversi modelli di welfare capitalism: il problema della conciliazione nel sistema italiano

“La precedenza universalmente riconosciuta agli uomini si afferma nell’oggettività delle strutture sociali e delle attività produttive e riproduttive, fondate su una divisione sessuale del lavoro di riproduzione e di riproduzione biologica e sociale che riserva all’uomo la parte migliore, come pure negli schemi immanenti a tutti gli habitus: formatisi in condizioni analoghe, quindi oggettivamente in accordo tra loro, tali habitus funzionano come matrici delle percezioni, dei pensieri e delle azioni di tutti i membri della società, come trascendentali storici che, in quanto universalmente condivisi, si impongono a ogni agente come trascendenti”

Bourdieu P., Il dominio maschile

3.1 Introduzione: l’occupazione femminile come fenomeno sociologico complesso

Nel corso dei primi due capitoli sono state ripercorse le principali categorie sociologiche e linee interpretative tratteggiate per l’analisi della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Se nei contributi classici, a parte qualche singolare eccezione, troviamo un esplicito rafforzamento o una tacita giustificazione della rigida divisione sessuale del lavoro, preminente nella prima modernità, la letteratura di matrice femminista ci invita a superare una siffatta visione dicotomica, riconoscendo alla donna un ruolo non solo domestico-familiare ed una posizione, pertanto, non marginale sul mercato, testimoniata fra l’altro dalla ormai massiccia integrazione femminile nella sfera produttiva.

In particolare, sono i dettami della prospettiva sociologica macro-istituzionale ad offrire un’interpretazione della partecipazione della forza lavoro femminile nel mondo del lavoro come “fenomeno sociologico complesso”, su cui vanno ad incidere una molteplicità di fattori tra loro strettamente interconnessi ed interdipendenti, di natura istituzionale, di mercato e di ordine sociale. Il contesto esplicativo risulta pertanto ampio, venendo a comprendere “oltre alla struttura e all’organizzazione del mercato del

lavoro, l’organizzazione della vita privata e domestica, nonché l’effetto delle politiche sociali” (Daly, 1999: 188-189) e più in generale dell’intero ordine simbolico-culturale. L’intreccio tra le tre dimensioni, lavorativa, familiare e politico-istituzionale, assume quindi una forte centralità nell’analizzare questo specifico fenomeno. Non deve dunque stupire se l’istituzione familiare verrà costantemente chiamata in causa nell’analisi del rapporto fra donne e lavoro, dato che, come ci ricorda Wharton (2005: 81), “gender, work, and family are inextricably interwined; changes in work and family give rise to changes in gender relations and changes in in gender relations give rise to changes in family and work”.

Nelle pagine a seguire l’attenzione si concentra sul contesto istituzionale che circonda l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro, al fine di comprenderne eventuali ostacoli o facilitazioni, ambivalenze e complessità. L’idea di fondo è che le norme e le istituzioni sociali non solo vadano ad influire sui calcoli strategici e razionali dei singoli individui, ma anche sulle loro stesse preferenze e comportamenti. Una siffatta prospettiva, recuperando le affermazioni di Sjoberg (2004: 112), “not imply that action cannot be, or is not, purposive, goal-oriented and rational, but rather that what an individual will see as ‘rational action’ is in itself socially constituted […], this perspective sees individuals as deeply embedded in a world of institutions that have the potential to affect their very identities, self-images and orientations toward the world […]. Thus institutions such as those structured through family policies can be understood as normative orders which influence and structure world views – in this context, views regarding the ‘proper’ role of women in society and the degree to which the participation of women in the labour market on equal terms with men is sees as something to be desired”. Ci soffermeremo in quest’ottica su una particolare sfera istituzionale che condiziona il mercato del lavoro e ne è a sua volta condizionato, anche a partire dai rapporti che si vengono a formare con l’istituzione familiare, e cioè sul sistema welfaristico italiano, nell’intento di comprendere le modalità di rappresentazione e valorizzazione dell’immagine femminile, delle sue esigenze e dei suoi diritti, nonché sul più articolato sistema di discorsi, credenze e convenzioni condivise a livello societario in merito alla donna che lavora ed al sempre più sentito problema della conciliazione tra lavoro e vita familiare.

3.2 Il sistema famiglia-lavoro e le criticità connesse alla “doppia presenza”

Come è stato messo in evidenza nelle pagine precedenti, nella definizione del rapporto fra donne e mercato del lavoro acquisisce un peso non irrilevante l’impegno femminile profuso in ambito domestico, che si concretizza nel complesso intreccio fra responsabilità familiari e professionali. Molteplici studiosi e soprattutto studiose hanno enfatizzato la necessità di non perdere di vista l’interdipendenza fra le due dimensioni, sebbene spetti allo statunitense Joseph Pleck (1977) l’ideazione del concetto di work- family system. Come abbiamo già anticipato, l’avvento della società industriale ha contribuito alla dicotomizzazione tra le due componenti, concorrendo a tratteggiare una personalità maschile orientata ai valori del successo e della competizione carrieristica, contrapposta a quella femminile naturalmente dedita alla maternità ed alle attività domestiche e di cura. L’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro tuttavia ha reso una simile impostazione inadeguata e fuorviante. Ai giorni nostri, infatti, l’impegno professionale si fa sempre più spesso determinante nella biografia femminile, desiderato, ricercato e praticato in qualità di strumento di autonomia, soddisfazione personale e riconoscimento sociale, ma al contempo fenomeni quali la senilizzazione della popolazione ed il ripensamento degli apparati di welfare, che nel nostro paese presuppongono un ruolo centrale della famiglia come corresponsabile di interventi socio-assistenziali - tanto da spingere la sociologa Saraceno a considerare questa istituzione sociale la “terza gamba del sistema di welfare” -, rendono la funzione riproduttiva, tradizionalmente appannaggio delle donne, non meno rilevante e carica di responsabilità. In essa rientrano infatti una molteplicità di compiti che si estendono al di fuori delle mura domestiche, si pensi ad esempio a quelle attività di stampo più prettamente organizzativo, burocratico e comunicativo-relazionale necessarie per la riproduzione dei membri stessi della famiglia e la creazione/il consolidamento di rapporti tra essi e l’ambiente sociale esterno (Bianchi, 1977), che hanno reso preferibile adottare il concetto di “lavoro familiare” in sostituzione di quello di lavoro domestico. Un simile complesso di attività rappresenta oltre ad un vincolo/ostacolo alla partecipazione femminile al mercato del lavoro, un inevitabile sovraccarico funzionale ed emotivo nell’esperienza delle donne lavoratrici.

Due risultano le principali conseguenze derivanti dalla divisione del lavoro consolidatasi durante l’epoca fordista: da un lato la diffusione nei datori di lavoro della credenza, o meglio del pregiudizio, secondo cui i lavoratori regolari e permanenti sarebbero di sesso maschile, in quanto liberi da impegni domestici e di cura – d’altronde l’adempimento dei loro doveri familiari si limiterebbe alla produzione del reddito -, pertanto disponibili ad orari di lavoro prolungati, e dall’altro lato il rafforzamento della convinzione secondo la quale alle donne spetterebbero le responsabilità domestico- familiari, anche qualora esse siano coinvolte nel lavoro per il mercato (Zanfrini, 2006). La pervasività di tali assunzioni non si limita a contraddistinguere il ciclo storico intensivo ed i modelli di regolazione sociale ad esso legati (Mingione, 1997b), bensì concorre a mantenere difficoltosa e complessa la possibilità di una adeguata armonizzazione del doppio ruolo femminile anche nella nuova architettura sociale. Una armonizzazione che viene oggi sempre più ricercata, visto che la duplicità dei ruoli rientra nelle aspirazioni della maggior parte delle donne. In effetti, sebbene i vincoli derivanti dalle ingenue dicotomie produzione/riproduzione, sfera pubblica/sfera privata abbiano subito un graduale affievolimento, persiste nelle donne “una tensione causata dalla convivenza tra aspettative sociali (connesse ai ruoli di genere), desiderio di procreazione e necessità di carriera” (Ruspini, 1999: 95). D’altronde, il crescente valore attribuito da esse al lavoro per il mercato rappresenta il presupposto per una non semplice transizione da un’identità centrata su un unico perno, quello familiare, ad una fondata sull’intreccio tra le dimensioni lavorativa e domestica. “La combinazione di due lavori, profondamente diversi per organizzazione, tempi, luoghi, qualità, riconoscimento sociale, contenuto simbolico, etc., risulta parte dell’esperienza condivisa da tutte le donne, se pur in modi molto diversi a seconda di identità individuali e contesto sociale” (Picchio, 1992). Le donne si trovano, così, ad aggiustare continuamente il peso relativo di questi due lavori, secondo modalità dinamiche, spesso innovative, che vanno oltre la semplice razionalizzazione di tempi e spazi, comprendendo al contempo modificazioni del contesto familiare e delle regole del mercato. La principale criticità legata all’integrazione femminile nella sfera lavorativa rimane pertanto la doppia presenza, laddove le responsabilità familiari in molti casi assumono un ruolo discriminante l’accesso al sistema produttivo o un carattere

tuttavia a misurare il benessere e l’autorealizzazione delle donne, ma acquisisce un carattere più ampio e generale afferente la qualità della vita dell’intero nucleo familiare e della società nel suo complesso.

L’oneroso sforzo quotidiano provato dalle donne nell’assemblare responsabilità familiari e professionali, strettamente legato alla natura conflittuale propria del “sistema famiglia-lavoro”, trova espressione nella peculiare distribuzione della variabile temporale. Il modello fordista, in effetti, oltre ad una netta separazione fra sfera produttiva e riproduttiva, ha postulato una visione dicotomica del tempo44: il tempo

femminile, speso dentro casa, e il tempo maschile, mercificato fuori delle mura domestiche. Sostanzialmente, l’organizzazione produttiva richiede una presenza prolungata e costante, indipendente dall’appartenenza di genere. In quest’ottica, essa tende a configurarsi come neutra, omologando le risorse umane, intese come asessuate, ed al contempo come neutralizzante, presupponendo una standardizzazione dei modelli e dei comportamenti organizzativi, che risulta funzionale al mantenimento della stabilità ed al governo dell’incertezza.

Le ricerche sui “bilanci del tempo”, che offrono una quantificazione del lavoro svolto dalle donne tanto per il mercato quanto per la famiglia, mettono in luce il forte squilibrio esistente fra il carico di lavoro femminile e maschile. L’indagine ISTAT- Multiscopo (Sabbadini, Palomba, 1994) registra mediamente un impegno degli uomini in età centrali di circa sei ore giornaliere nel lavoro retribuito ed un’ora in quello familiare, mentre quello delle donne consta in cinque ore sul mercato ed altrettante in ambito domestico. Uno squilibrio confermato anche da dati più recenti (Facchini, 2003) che sottolineano come il genere femminile rispetto a quello maschile, a parità di orario di lavoro, spenda mediamente il triplo di tempo nel lavoro familiare. A titolo esemplificativo, una donna che lavora per il mercato mediamente dalle 30 alle 40 ore

44 Il concetto di tempo si contraddistingue per la sua natura complessa ed evanescente: esso racchiude in sé

molteplici significati e dimensioni che si intersecano nel linguaggio comune (Elias, 1984). In primo luogo, una dimensione simbolico-culturale secondo la quale “il tempo si vive”, ossia il contatto e la coesistenza con le altre persone adulte permettono la sedimentazione nella propria individualità di una serie articolata di elementi simbolici e valori sociali differenti nelle diverse culture. “La dimensione del tempo, così come le identità di genere e le altre numerose articolazioni culturali, viene prevalentemente trasmessa in modo implicito, non razionalizzato” (Bombelli, Cuomo, 2003: 3). Secondariamente, una dimensione fisica in quanto, se il tempo di per sé non esiste, la sua misurazione ha assunto una valenza parossistica garantendo la definizione e la collocazione storica dei fenomeni. In terza e quarta istanza troviamo le dimensioni sociale ed individuale: la prima comporta il fatto di riferirsi ad un universo di convivenza che richiede sincronizzazione, mentre la seconda richiama la percezione del tempo quale elemento fondante la stessa identità soggettiva.

settimanali, dedica al lavoro familiare circa 15,9 ore, contro le 4,7 ore di un uomo. Possiamo pertanto affermare che “la dimensione della doppia presenza definisce un fabbisogno temporale al femminile maggiore o perlomeno più sentito che non al maschile” (Bombelli, Cuomo, 2003: 16). D’altronde, la partecipazione degli uomini ai compiti familiari risulta talmente marginale che, paradossalmente, una loro assenza contribuisce a ridurre il carico di lavoro domestico che grava sulle donne piuttosto che aumentarlo.

Emblematicamente richiamiamo l’immagine della quotidianità femminile proposta da Tempia (1993: 31): “un terreno di ricerca di continuità e congruenze temporali fra tempi sociali spesso dissonanti”, dove si intrecciano i tempi della famiglia, i tempi di lavoro, ma anche i tempi dei servizi per l’infanzia e la salute, i tempi per la formazione e lo svago. In effetti, “se per ciascun individuo muoversi fra i vari ambiti della vita quotidiana, dal privato al lavoro, richiede doti organizzative e capacità di scelta per conciliare le proprie disponibilità ed esigenze con le dimensioni temporali delle attività da svolgere, per le donne ciò assume un rilievo particolare per le sue molteplici implicazioni. Passare dal tempo per la famiglia a quello per il mercato, al tempo per sé, per lo studio e per lo svago, significa attraversare ruoli diversi e quindi ricomporre ordini temporali differenti” (Ibidem). Più precisamente, questo ha un significato più profondo del semplice oscillare o alternare molteplici ruoli e mansioni e richiede uno sforzo ed un investimento non solo fattuale, ma anche psichico ed emotivo.

D’altronde, il tempo finalizzato alla sfera della riproduzione e quello volto alla produzione per il mercato presentano caratteristiche differenti. Il primo appare, infatti, come scarsamente prevedibile e programmabile, proprio in virtù del fatto che su di esso convergono le istanze di più soggetti con richieste fortemente differenziate, spesso fra loro concorrenziali, difficilmente compatibili e dilazionabili. Nonché, esso si presenta come incomprimibile al di sotto di certe soglie, anche a causa del prevalere di un modello culturale che enfatizza l’importanza dell’investimento temporale nei confronti dei figli e delle attività di cura, da parte soprattutto delle donne, come rimarcheremo in maniera più precisa nelle pagine a seguire. Si tratta di aspetti su cui non può non avere implicazioni la rigidità dell’orario di lavoro, che rappresenta ancora oggi uno dei principali vincoli all’organizzazione del tempo personale, tanto da essere indicato come

“non solo la durata e la forma del tempo vincolato dal lavoro, ma anche quella dell’altro tempo che è normalmente dedicato alla vita privata, alle attività e alle relazioni familiari e al tempo libero” (Tempia, 1993: 39). Nella definizione dell’identità e del ruolo femminili assume, dunque, una estrema rilevanza il movimento fra le discontinuità temporali che la donna si trova a sperimentare relativamente alle due sfere, famiglia e mercato del lavoro, ognuna delle quali richiede una notevole intensità di investimento. Una condizione ulteriormente penalizzata dalla scarsa sincronizzazione dei tempi sociali, che rende sempre più complicata e difficile la parte del lavoro familiare relativa alle interazioni con i servizi di varia natura. Ne deriva pertanto una cronica sensazione di mancanza di tempo che, pur accomunando le componenti femminile e maschile, assume tuttavia un significato differente, se non opposto. Lo testimonia uno studio condotto da Hochschild (1997) che registra come per le donne con figli, il rientro in famiglia la sera segni l’inizio di un secondo turno di lavoro, spesso contraddistinto da un ritmo incalzante e quindi percepito con oppressione, mentre per l’uomo il tempo trascorso a casa con i bambini, di norma molto risicato, in virtù dell’idea stereotipata di una assoluta dedizione maschile all’impegno lavorativo, assume un carattere liberatorio. La tematica temporale rappresenta, tuttavia, solo uno dei problemi connessi alla doppia presenza. Pensiamo a titolo esemplificativo alle richieste, estremamente gravose in termini non solo di orari ma anche di investimento di energie mentali ed emotive, provenienti dalle realtà produttive, le quali mostrano difficoltà, quando non vera e propria resistenza, al cambiamento, specialmente al cambiamento culturale. In effetti, se nell’ultimo periodo si sono moltiplicate iniziative e sperimentazioni volte ad approntare contesti organizzativi e lavorativi amichevoli, esse non sembrano sufficienti a mettere in discussione culture aziendali ancora profondamente maschili, che richiedono a quanti auspicano un miglioramento qualitativo della propria attività ed una eventuale progressione di carriera di “comportarsi come gli uomini, tenendo separata la vita privata dalla vita professionale e dando alla seconda assoluta priorità rispetto alla prima” (Luciano, 1993: 111). Ma il problema del duplice ruolo non assilla solo le mogli-madri lavoratrici, bensì anche le donne che un lavoro non l’hanno, per mancata alternativa o rinuncia personale, che, come dimostra una ricerca condotta nel contesto lombardo, si esprimono in forma di “denuncia di una società che penalizza le ‘mamme’ e ne svaluta la professionalità, di richiesta di orari flessibili e ridotti, di rifiuto di un lavoro percepito

come ‘incompatibile’, a torto o a ragione coi propri doveri familiari, di auspicio affinché siano assunte scelte aziendali ed elaborate politiche più attente alle lavoratrici madri” (Zanfrini, Zucchetti, 2003: 78-79). Si tratta pertanto di una questione particolarmente ostica che trova traduzione politica nelle misure a sostegno della conciliazione, che saranno maggiormente approfondite nel proseguo dell’elaborato.

3.3 I regimi di welfare capitalism in una prospettiva di genere

In quella che è stata definita come “epoca d’oro del capitalismo del benessere” o “dell’industrialismo sviluppato” (Esping-Andersen, 1990; 2000) ha visto prendere forma una rigida divisione del lavoro tra uomini e donne, secondo la quale i primi assumerebbero il ruolo di procacciatore di reddito e risorse (good provider), mentre le seconde acquisirebbero le responsabilità di cura e gestione della casa (care giver). E’ sulla base di questo modello, fortemente gender-biased, che sono stati costruiti i moderni sistemi di welfare affermatisi nel dopoguerra – nella triplice variante di liberale, conservatore e socialdemocratico -. In maniera estremamente sintetica, richiamiamo alla mente che, mentre la politica sociale liberale è contraddistinta da un approccio minimalista fondato sulla massima efficienza ed orientata alla riduzione dei compiti dello stato, mediante l’individualizzazione dei rischi45 e la promozione di soluzioni di

mercato, quella propria del modello socialdemocratico si impegna a sottoscrivere i principi dell’eguaglianza e dell’universalismo, garantendo un’ampia protezione dai rischi e generosi trasferimenti di reddito a beneficio di tutti gli individui. Scostandosi da entrambi, il regime conservatore trova la propria essenza in una “combinazione di differenziazioni per status e familismo”, tende cioè a preservare i differenziali di classe ed incoraggiare rigidi modelli familiari tradizionali, riproducendo così le ineguaglianze socio-economiche esistenti.

La classificazione dei regimi di welfare così proposta da Esping-Andersen (1990, 2000) ha subito un successivo ampliamento per mettere in risalto le specificità dei paesi sud europei (Bettio, Villa, 1993; Ferrera, 1996; Jurado Guerrero, Naldini, 1996; Trifiletti, 1999), aspetto su cui ci soffermeremo in maniera più dettagliata nei paragrafi

successivi, ed un ulteriore sviluppo in riferimento alla dimensione di genere ad opera dei suggerimenti provenienti dal fitto tessuto di critiche di origine femminista accumulatesi nel corso dell’ultimo decennio del ventesimo secolo (Lewis, 1992; Orloff, 1993, 1996; O’Connor, 1996; Sainsbury, 1994). Critiche che si sono prevalentemente incentrate sull’omissione delle relazioni di genere46, facendone uno degli assi esplicativi

e distintivi nello studio dei vari modelli di welfare state che, in caso contrario, rischiano di riprodurre quello che Bourdieu (1998) definisce come “dominio maschile47”. Più

precisamente, la tipologia dei “tre mondi” pare eccessivamente concentrata sul rapporto fra stato-mercato e prevalentemente costruita sulla posizione del lavoratore di sesso maschile. Mentre, come sinteticamente ci ricorda Orloff (1993: 303): “1. the state- market relations is extended to consider the ways countries organize the provision of welfare through families as well as through states and markets; it is then termed the state-market-family relations dimension; 2. the stratification dimension is expanded to consider the effects of social provision by the state on gender relations, especially the treatment of paid and unpaid labor; 3. the social citizenship rights/decommodification dimension in critized for implicit assumptions about the sexual division of caring and domestic labor and for ignoring the differential effects on men and women of benefits that decommodify labor”.

Una siffatta impostazione presuppone pertanto l’analisi dell’interazione e dei mutui condizionamenti fra le tre sfere socio-istituzionali, welfare state, mercato del lavoro e famiglia, nella consapevolezza che quest’ultima, sebbene sottovalutata o completamente esclusa dall’iniziale analisi dei modelli di welfare48, rappresenta l’istituzione in cui

46 Come ci ricorda Orloff (1993: 304), “the recognition of the gendered characters of the welfare state and

social politics, and of the agency of women, are important correctives to the “mainstream” literature on the