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“Non è la conciliazione in sé ad essere problematica (la nozione è piuttosto virtuosa), ma sono gli usi che ne fanno le politiche comunitarie a renderla estremamente equivoca. Basta ripensare a questa idea della conciliazione quale ponte tra la politica d’uguaglianza e la politica familiare, ponte costruito dalle imprese, per riproporre le domande che questa prospettiva lascia aperte. Prima domanda: che cosa si concilia? I testi rispondono: la vita professionale e la vita familiare. Ma con ciò non si è ancora detto niente. Infatti, di quale vita professionale si tratta? Retribuita, non retribuita, con che tipo di contratto di lavoro, in quale categoria di settore, di impresa? E di quale vita familiare? Seconda domanda: chi concilia? Le donne, senza alcun dubbio; ma sta di fatto che le donne non conciliano affatto, o non tutte, e non sempre. Proprio per questo sono attratte dal lavoro part-

time, e, nella grande varietà delle opzioni offerte dalla legge e dai contratti in merito ai tempi di lavoro, ricercano gli strumenti di un compromesso, quale alternativa all’uscita dal mercato del lavoro. E gli uomini? L’idea è che essi pure concilino; ma lo vogliono? E vi hanno interesse? L’ipotesi è che, garantito loro un accesso alla conciliazione vi si tuffino e la mettano al servizio delle responsabilità familiari. Niente di più incerto! Se l’accesso sarà formale e neutro, potrà produrre l’effetto contrario: aumentare il numero delle donne che tentano di conciliare, e ancora di più si fanno carico del lavoro domestico, e diminuirne l’attrattiva per gli uomini. Niente, poi, fa pensare che, con l’accedere alla conciliazione, gli uomini metteranno il tempo libero al servizio della famiglia: l’eguaglianza nell’uso del tempo liberato dalla sfera professionale, non si ottiene più spontaneamente di quanto la si ottenga in relazione alle altre modalità temporali”. A. Junter-Loiseau e C. Tobler, La conciliazione tra lavoro domestico e di cura e lavoro retribuito nella legislazione

internazionale, nelle politiche sociali e nel discorso scientifico

4.1 Introduzione

Dopo aver esaminato nelle pagine precedenti l’evoluzione del rapporto fra donne e mercato del lavoro, così come le rappresentazioni sociali e le pratiche discorsive associate al ruolo femminile, il loro effetto sull’elaborazione delle politiche di welfare ed il tema della conciliazione fra lavoro e responsabilità familiari, focalizzeremo ora la nostra analisi su di un ambito più circoscritto: vale a dire l’organizzazione del lavoro. Coerentemente con l’impostazione data sino ad ora al nostro lavoro mostreremo come le relazioni di genere siano un prodotto storico che dà luogo ad assetti istituzionali stabili ed in quest’ottica un ruolo di primaria importanza è giocato dalle realtà produttive. Ancora una volta, dunque, l’intento è quello di cercare di comprendere in che modo l’ordine simbolico di genere trova espressione nel contesto lavorativo, e come un siffatto ordine incida sulla percezione e l’esistenza personale, specialmente in

merito alla questione dell’armonizzazione fra vita e lavoro. “Spostare il punto di osservazione dalle politiche sociali nazionali ai contesti organizzativi, alle aziende e ai luoghi di lavoro, - argomenta Naldini (2006: 83) - consente di far luce sul fatto che la difficile conciliazione tra famiglia e lavoro è anche un problema che dipende dall’attitudine dell’azienda e riguarda dimensioni inerenti le pratiche organizzative, la cultura del lavoro e il clima aziendale”.

In precedenza abbiamo cercato di dar luce alle principali retoriche e convenzioni associate al ruolo femminile, che sostengono l’immutabilità di una distribuzione gravemente diseguale delle principali risorse economiche, quali il tempo ed il lavoro, e, di conseguenza, l’esistenza di percorsi asimmetrici, ulteriormente riproposti e rafforzati dai discorsi e dalle politiche pubbliche. Si tratta di retoriche che trovano oggi una nuova arena di applicazione in merito alla questione, sempre più spesso oggetto di interesse, della conciliazione fra responsabilità lavorative e familiari. Centrale nella nostra analisi diviene allora la metafora della “cittadinanza di genere”, proposta tra gli altri da Gherardi (2003) per indicare “l’insieme di pratiche (i comportamenti, le azioni, i discorsi) attuate da persone che appartengono allo stesso contesto sociale, entro il quale negoziano il significato di norme sociali e giuridiche e lottano per definire le identità collettive e individuali”.

La fattibilità e l’effettività della costruzione di una pratica di cittadinanza di genere appare pertanto strettamente legata all’idea di giustizia nei rapporti fra i sessi propria alle organizzazioni, ossia a quell’insieme di norme giuridiche che, essendo orientate alla promozione delle pari opportunità, si traducono nel contesto dell’organizzazione del lavoro in politiche del personale (più o meno attente alle esigenze dei singoli lavoratori e delle singole lavoratrici) e più in generale nella cultura organizzativa. In questo quadro, il tema della conciliazione assume indubbiamente centralità, visto che l’intero sistema del lavoro e la sua organizzazione contribuiscono a consolidare una tradizionale divisione delle responsabilità fra uomini e donne, facendo apparire il suo mantenimento come naturale e razionale al tempo stesso. Gli elementi coinvolti sono pertanto molteplici ed il problema del work-life balance, anziché essere limitato ai singoli individui, si estende alla più ampia dimensione culturale - pubblica, sociale ed organizzativa -. Si tratta di questioni che saranno riprese nella parte empirica che si rivolgerà proprio verso

scambiate le relazioni di genere, con una specifica attenzione agli stili, alle strategie e alle pratiche conciliative.

4.2 L’ordine simbolico di genere nelle organizzazioni di lavoro: discorsi, rappresentazioni e pratiche condivise

Come abbiamo messo in evidenza nei capitoli precedenti, la categoria di genere, in sintonia con una sensibilità di analisi emersa a partire dagli anni ‘70 (Rubin, 1975; Piccone Stella, Saraceno, 1996), comprende quell’insieme di meccanismi culturali e materiali mediante i quali si costruiscono, giustificano e riproducono differenze di ordine sociale (piuttosto che di ordine biologico-naturale) fra uomini e donne, tale per cui essa viene a rappresentare un prodotto dei processi di “costruzione sociale della realtà”. Una simile categoria funge da fondamento alla peculiare “forma di divisione sociale del lavoro che assegna agli uomini la responsabilità primaria della produzione, del lavoro per il mantenimento del nucleo familiare e alla donna la responsabilità primaria della cura e della riproduzione, e su tale pratica si ancora l’organizzazione del sistema scolastico, di quello socio-assistenziale a sostegno degli anziani, della burocrazia a servizio del cittadino e di altre pratiche sociali che configurano un destinatario con un corpo maschile o femminile e quindi con un’organizzazione del sociale ad esso coerente” (Gherardi, Poggio, 2003b: 6). Su questa stessa pratica si saldano i contesti professionali e le organizzazioni lavorative, tanto da risultare pesantemente sessuati nelle loro regole, consuetudini, prassi ed azioni. In quest’ottica possiamo parlare, riprendendo una locuzione proposta da Gherardi (1998), di “ordine simbolico di genere85”, da intendersi come un sistema di credenze e di aspettative stabili, un

prodotto storico e culturale fondato sulla dicotomizzazione/polarizzazione tra privato (femminile) e pubblico (maschile) che l’accesso delle donne al mercato del lavoro solo in minima parte ha contribuito ad infrangere. Solo minima in parte, perché permangono tuttora rappresentazioni, convenzioni, immagini stereotipate sui ruoli maschili e femminili, fortemente radicate nelle percezioni e nelle aspettative sociali condivise e

85 Così si esprimono Gherardi e Poggio (2003b: 6) in merito a questo concetto: “entro ogni tipo di pratiche

sociali in quanto messe in atto da persone sessuate, si ha la riproduzione di un ordine simbolico di genere che esprime le credenze sociali su quanto è o non è appropriato per persone diversamente sessuate e per le loro relazioni sociali”.

pertanto difficilmente superabili. La stesse regole e procedure di funzionamento delle organizzazioni risultano profondamente contaminate da simili rappresentazioni e

stereotipi di genere86, che vengono in questo modo routinizzate e rafforzate, per essere

poi re-immesse nei molteplici ambiti sociali di vita. Concordando con le considerazioni di Gherardi (1998: 19), secondo la quale “l’ordine simbolico di genere presuppone che le donne siano femminili e gli uomini maschili, che le une siano nel privato, gli altri nel pubblico, che le prime siano occupate nella riproduzione, i secondi nella produzione e così via”, possiamo così affermare che le organizzazioni, in quanto luoghi pubblici di produzione, presentano una forte connotazione maschile.

In linea con questa prospettiva “le fatiche delle donne in relazione al lavoro si situano prevalentemente all’interno della dimensione culturale” (Bombelli, 2004: 80). Molteplici studi hanno infatti enfatizzato il significativo ruolo giocato dagli atti culturali di etichettamento che concorrono ad attribuire al lavoro delle donne uno status sociale inferiore e subordinato rispetto a quello maschile, nonché dal processo di routinizzazione di convinzioni e credenze – sia manifeste che tacite – che sostengono una minore propensione da parte delle donne ad investimenti sul versante occupazionale, a causa del presunto orientamento prioritario verso le responsabilità familiari, e suggeriscono, di conseguenza, una corrispondenza fra le inclinazioni maschili e le posizioni professionali più prestigiose, remunerate ed autorevoli. Più precisamente, in queste dinamiche ritroviamo l’influenza di quegli stereotipi e categorizzazioni di genere che, presenti in tutti i contesti di vita collettiva, comprese le organizzazioni lavorative (su cui ci siamo in parte già soffermati nella pagine precedenti), sul piano pratico agiscono controllando le possibilità di scelta ed orientando le percezioni e gli atteggiamenti dei soggetti che li adottano, indipendentemente dalle informazioni possedute o dalle pregresse esperienze dirette. “Tradotti nell’ambito lavorativo e sul piano della vita organizzativa, gli stereotipi di genere alimentano – precisa Monaci (in Zanfrini, 2006: 181) - visioni che in primo

86 Sul concetto di stereotipo ci siamo già soffermati nel capitolo precedente, in questa sede intendiamo

precisare come essi intervengano su due distinte dimensioni: quella cognitiva che, essendo fondata su credenze in merito ai tratti, le inclinazioni e le abilità peculiari di uomini e donne, associa al comportamento maschile i caratteri dell’autonomia, della competitività, dell’ambizione, della sicurezza di sé e dell’intraprendenza, mentre a quello femminile la capacità empatica, l’emotività, l’abilità nei rapporti

luogo, sulla base della presunta maggiore predisposizione femminile agli impegni familiari, identificano tra i sessi (e a vantaggio della componente maschile) differenze negli investimenti professionali e nell’orientamento alla retribuzione, nell’impegno sul posto di lavoro, nella disponibilità alla mobilità fisica, temporale o di ruolo; a queste si aggiungono poi altre percezioni relative alle caratteristiche innate o comunque apprese nel tipo femminile e che, ad esempio, attribuiscono alle donne una connaturata ‘paura del successo’ […] e minori capacità nell’assunzione e nell’esercizio di ruoli di leadership”.

In queste pagine cercheremo di comprendere quale ordine simbolico di genere caratterizza le organizzazioni lavorative – ossia, riprendendo le parole di Lewis (1997: 19), “the ways in which gender, and particularly gendered family roles are constructed and reproduced within organizations” - e se (ed eventualmente in che modo) tale ordine abbia subito modificazioni a fronte dell’aumentata partecipazione femminile al mercato del lavoro. Un interesse che ci accompagnerà anche nell’analisi empirica, laddove fra le finalità che guideranno il nostro lavoro rientra quella di analizzare il modo in cui all’interno dell’ordine simbolico-culturale di genere di alcune realtà organizzative si colloca la questione della conciliazione e delle politiche di work-life balance. Come alcuni anni fa ha sottolineato anche Saraceno (2002: 10) “occorre analizzare i modi specifici in cui determinate forme di funzionamento di particolari ambiti lavorativi – modelli organizzativi, orari, modelli e calendari delle carriere – non solo favoriscono o viceversa ostacolano il lavoro femminile, dati i vincoli sociali di quest’ultimo, ma anche favoriscono o viceversa ostacolano la cristallizzazione di identità di genere rigide. Se, infatti, la divisione del lavoro nella famiglia e i modelli di socializzazione di genere costituiscono formidabili vincoli alla offerta di lavoro, la domanda di lavoro e le culture del lavoro e di genere specifiche che la informano (incluse le culture dei datori di lavoro) non sono fattori neutrali”.

Le organizzazioni ed i contesti di lavoro concorrono dunque a quel processo di definizione e costruzione sociale del genere, laddove la stessa cultura organizzativa87

87 Se il concetto di cultura viene impiegato per spiegare il comportamento di una persona, indicare le azioni

ritenute giuste ed ammissibili, nonché legittimare elogi o sanzioni; in ambito organizzativo esso richiama una categoria mediante la quale descrivere un’impresa. Più precisamente, il concetto di cultura organizzativa, riprendendo una definizione postulata da Strati (1993: XI), indica l’insieme di “simbologie, credenze e modelli di azione appresi, prodotti e ricreati dalla gente che dedica energia e lavoro alla vita dell’organizzazione. E’ espressa nella progettazione dell’organizzazione e delle attività lavorative, negli artefatti e servizi,

presuppone significati, retoriche, rituali, routines88 e pratiche sociali che modellano la

soggettività degli individui in essa coinvolti e “che sostengono l’esistenza di percorsi asimmetrici rispetto al genere” (Gherardi, Poggio, 2003a: 2). Tali molteplici elementi culturali pervadono le organizzazioni in ogni singolo momento della loro esistenza, dalle modalità di comunicazione a quelle di gestione del tempo e delle persone in esse inserite. “La cultura – scrive Zingarelli (2003: 58) – è il punto di cerniera tra variabili formali/razionali e variabili sociali/relazionali delle organizzazioni e definisce poi la coerenza, l’equilibrio, il confronto o lo scontro delle une con le altre. Sia per l’organizzazione che per gli individui [essa] determina i valori che guidano le decisioni e ne permeano la realizzazione operativa, in modo spesso inconsapevole per gli stessi decisori”.

In questa sede cercheremo di mettere in evidenza quelle che sono le principali retoriche su cui si sono fondati e tuttora si fondano gli squilibri di genere in ambito organizzativo. Nel farlo richiamiamo innanzitutto le parole di Lewis (1997: 19) che enfatizza la estrema visibilità del ruolo familiare femminile (specialmente quello di madre) all’interno del contesto di lavoro, contesto in cui “the dominant social constructions of the ideal mother and the ideal worker are mutually exclusive”. Opposta risulta invece la situazione maschile, laddove “men’s family roles are much less visible in organizations than their breadwinner roles”. Considerazioni che non stupiscono se pensiamo alla rappresentazioni ed alle pratiche discorsive proprie della più vasta cultura societaria, maggiormente esplicitate nei capitoli precedenti, che ne rafforzano il ruolo di good provider. In questa direzione si orienta fra l’altro anche l’immagine con cui viene socialmente definito e descritto un padre che decide di assumersi prioritariamente la cura dei propri figli e lasciare il lavoro in secondo piano, il

nell’architettura degli spazi e nelle tecnologie adottate, nei cerimoniali degli incontri e delle riunioni, nella strutturazione temporale dei corsi di azione organizzativa, nelle condizioni e qualità della vita lavorativa, nelle ideologie del lavoro e nella filosofia aziendale, nel gergo, nello stile di vita e nel modo di mostrarsi ai suoi membri”. Essa tende pertanto ad esprimersi mediante varie tipologie di simboli: le rappresentazioni mentali e astratte (come il linguaggio), i comportamenti (cerimonie e riti collettivi) e gli artefatti materiali (la forma degli edifici e gli strumenti dell’attività quotidiana). Sistemi simbolici che vengono appresi e riprodotti nelle interazioni sociali contribuendo a rimarcare le differenze sessuali, tanto da poter affermare che la stessa cultura organizzativa abbia una esplicita connotazione di genere.

88 Il termine routines, precisano Levitt e March (1988: 320), “include le forme, le regole, le procedure, le

convenzioni le strategie e le tecnologie attorno alle quali le organizzazioni sono costruite e attraverso le quali operano. Esso include anche le strutture delle opinioni, i modelli, i paradigmi, i codici, le culture e le conoscenze che rafforzano, elaborano e contraddicono le routines formali. Le routines sono indipendenti

cosiddetto “mammo”, una pratica discorsiva che sembra enfatizzare la dicotomica distinzione fra responsabilità maschili e femminili, in quanto declinando al maschile la denominazione di mamma non fa che rimarcare la natura femminile degli impegni di cura ed assistenza.

Procediamo pertanto nella nostra individuazione delle principali dimensioni in cui trovano espressione le asimmetrie di genere entro le organizzazioni, dimensioni centrali fra l’altro anche nell’ambito del dibattito sulla conciliazione tra vita privata e vita professionale che risulta il fulcro della nostra analisi. “Si tratta – ci ricordano Gherardi e Poggio (2003a: 8-9) - delle problematiche del ‘tempo’ e della ‘maternità’, che appaiono come fattori fortemente intrecciati all’interno delle culture organizzative. Il prevalere di una ‘cultura della presenza’, della ‘visibilità’ e della ‘mancanza di delega’ in organizzazioni che Marina Piazza definisce ‘avide di tempo’ (Piazza, 1999) sembra infatti accentuare la tradizionale dicotomia tra produzione e riproduzione, lavoro e famiglia e soprattutto la non cittadinanza della maternità all’interno delle organizzazioni”. Per queste ultime in effetti un evento significativo come la maternità assume una natura problematica89 comportando un aggravio in termini di costi e di

riorganizzazione interna, derivante dalla fruizione, da parte della neomamma, di periodi di congedo, dalle ripetute assenze e dalle frequenti richieste di permesso. Una forma di “schizofrenia culturale” sembra pertanto avvolgere il tema della maternità, laddove troviamo “da un lato il paese cattolico per eccellenza che assegna alla famiglia un valore molto alto, dall’altro prassi organizzative90 che tendono a penalizzare le donne che

affrontano questa scelta” (Bombelli, 2003: 74). Di conseguenza, esso finisce per divenire una sorta di fantasma che incombe sul successo lavorativo e sulle prospettive di carriera femminili (a titolo esemplificativo, il solo sospetto che una donna possa decidere di sposarsi ed ampliare il proprio nucleo familiare può essere sufficiente per ridurre le sue chance di promozione), mentre il corrispettivo maschile, ossia la paternità,

89 Non mancano neppure casi di lettere di dimissione fatte firmare al momento dell’assunzione in forma di

ricatto.

90 Al fine di superare una siffatta impostazione, prosegue l’autrice (Bombelli, 2003: 74), “è importante quindi

che l’utilizzo delle agevolazioni temporali legate alla maternità non sia subito dall’organizzazione come prezzo ineluttabile da pagare, ma come uno dei possibili ambiti di do ut des tra le aziende e le persone, superando stereotipi purtroppo ben consolidati”. In realtà, proprio la nostra legislazione a sostegno della maternità, che si configura fra le migliori al mondo, funge da giustificazione all’atteggiamento aziendale, da “argomentazione cardine invocata a suffragio di una ‘diversità’ femminile che impone poi alle aziende di fare delle scelte implicite di esclusione delle donne dai percorsi di carriera” (Idem: 73).

non sembra avere alcuna implicazione di sorta, confermando fra l’altro l’immagine diffusa di una presenza di puro affiancamento, che corrisponde ad un semplice aiuto anziché una concreta condivisione delle responsabilità di cura (Piazza, 2000). Sostanzialmente, dunque, “per una donna la maternità – paradigma della ‘discontinuità temporale’ rispetto al lavoro – è ancora il vero spartiacque nella storia dello sviluppo professionale e delle conseguenti piccole e grandi decisioni della propria quotidianità lavorativa” (Bombelli, Cuomo, 2003: 208).

Strettamente legata a questo importante evento biografico e familiare appare la dimensione temporale: in effetti, sino a quando la disponibilità ad una presenza sul luogo di lavoro prolungata91 (o straordinaria) rispetto ai limiti temporali previsti

contrattualmente (quando non senza limiti) fungerà da indicatore dell’attaccamento al lavoro e del successo professionale, seppure non sempre si tratti di ore di lavoro effettivo, chi non è disposto a dedicare alla professione la maggior parte del suo tempo, avendo esigenze ed incombenze di altra natura, si troverà in una condizione discriminata. Una simile dilatazione della presenza sul lavoro viene percepita come sacrificio compiuto in nome dell’azienda, tale da essere oggetto di ricompensa in termini di carriera, prestigio e status: ecco allora che la variabile temporale viene ad assumere la funzione di rilevatore dell’investimento e dell’impegno personale profuso entro la propria organizzazione di lavoro, risultando pertanto un meccanismo di classificazione e riconoscimento di meritevolezza. Tuttavia, occorre sottolineare come, proprio in virtù di una siffatta cultura organizzativa (la cultura della presenza) e dell’asimmetrica distribuzione che ancora oggi contraddistingue il lavoro domestico- familiare, il tempo non appare affatto neutrale al genere. Al contrario, possiamo affermare che la norma del tempo di lavoro presenta una natura profondamente maschile. Il modello temporale convenzionale risulta in quest’ottica il tempo pieno, le classiche otto ore del lavoratore maschio adulto realizzate senza interruzioni o intoppi, eventualmente dilatate attraverso lo straordinario, laddove una simile disponibilità è percepita come una caratteristica premiata e premiante per quanto concerne l’affidamento di incarichi e responsabilità. E’ chiaro dunque che, seppure i ruoli lavorativi siano connotati in termini di genere, le convenzioni e le pratiche organizzative

sono costruite sull’ideale di un ipotetico soggetto neutro, asessuato, ma implicitamente concepito come maschile.