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La figura estetica in Gilles Deleuze

di Claudio Rozzoni (Milano)

1. Che cosa fa la filosofia

Attraverso il titolo che si è scelto di dare al presente saggio, si sug- gerisce, in modo esplicito, una considerazione rilevante, vale a dire che l’arte pensa. E invero il privilegio del pensiero sembra non spet- tare, nella filosofia di Gilles Deleuze, esclusivamente alla filosofia. Che

cosa significa pensare? Questa è una domanda notoriamente decisiva

all’interno dell’orizzonte teoretico deleuziano 1 e che significativamente diventa l’enjeu cruciale dell’ultimo libro che il filosofo francese scrive con lo psicanalista e amico Félix Guattari, un testo di cui, in queste pagine, si cercherà di misurare l’eredità. Stiamo parlando di Qu’est-ce

que la philosophie? 2.

Che cos’è la filosofia? Questa sembra essere la domanda, per chi,

come si dice, fa della filosofia. Ebbene, che cosa fa la filosofia? La ri- sposta di Deleuze e Guattari è molto precisa: essa crea concetti, la filo- sofia pensa creando concetti. Una risposta che, com’è chiaro, porta in grembo un’ulteriore domanda: che cos’è un concetto? È su quest’ultimo interrogativo – in quanto tappa necessaria al percorso che ci condurrà a interrogarci sul pensiero dell’arte – che si vuole inizialmente porre la nostra attenzione.

Possiamo innanzitutto dire che Che cos’è la filosofia? è il libro at- traverso cui Deleuze, con Guattari, vuole sancire la propria creazione del concetto di concetto. Se il compito della filosofia è quello di «for- mare, di inventare, di fabbricare» 3 – più propriamente, di «creare» 4 – concetti, in quest’opera una delle poste in gioco decisive riguarda la possibilità della creazione del concetto di concetto, un tentativo che sfida il pericolo “classico” di una regressione all’infinito (per es. come dovrei, nel caso fossi tenuto a farlo, definire il concetto di concetto di concetto?). Non solo. L’enjeu di questo testo si rivela nel contempo essere – e ciò risulta significativo per la nostra indagine sul pensiero

dell’arte – quello di «creare» il concetto di filosofia, arte e scienza in

quanto «forme del pensiero» 5: la lettura del volume mostra infatti come in esso risuonino, oltre a quello che compare nel titolo, altri due punti interrogativi: Che cos’è la scienza? Che cos’è l’arte?. Ma procedia- mo per gradi, e soffermiamoci, pertanto, sulla creazione del concetto di concetto da parte di Deleuze e Guattari. Quale concetto di concetto viene creato attraverso questo libro?

Questa creazione affonda le sue radici in un testo di Deleuze del 1969, vale a dire Logica del senso. La creazione del concetto di concetto può essere adeguatamente compresa nelle sue più decisive implicazioni a patto di ripensare, ancora una volta, la nozione di incorporeo che Deleuze sviluppa tramite questo suo precedente lavoro. Il concetto di concetto di Deleuze e Guattari non è creato ex nihilo, e ciò non sor- prende, se si pensa che per i due filosofi «i concetti non sono mai creati dal nulla» 6. Essi «fabbricano» il loro concetto di concetto a partire da almeno tre concetti di «evento [événement]»: quello di Péguy, quello di Blanchot 7, e quello stoico che, dal volume che lo storico della filosofia Émile Bréhier dedica alla Stoa 8, passa in Logica del senso divenendo il «senso incorporeo che insiste alla superficie degli stati di cose» 9.

E appunto la nozione di «incorporeo» ritorna a popolare i territori di Che cos’è la filosofia?. Si tratta, in effetti, di una nozione fonda- mentale. In questo testo, infatti, il concetto – ed è significativamen- te la terminologia di Logica del senso appena richiamata che in tal modo ritorna – è caratterizzato come un «incorporeo» 10 che non si «confond[e] con lo stato di cose in cui si realizza» 11. Proprio in virtù di tale caratterizzazione, il concetto ha la possibilità di essere «imme- diatamente co-presente senza alcuna distanza a tutte le sue componenti o variazioni» 12, è in «stato di sorvolo rispetto» a esse e «le attraversa in continuazione», senza mai arrestarsi: «è un ritornello» 13. Sembra dunque che, per la creazione di concetto di concetto, Deleuze abbia, a propria volta, raggiunto uno «stato di sorvolo» 14 volto a ripercor- rere i suoi concetti precedenti. Del resto, come si legge in Che cos’è

la filosofia?, «un filosofo non smette di rimaneggiare i concetti, di

cambiarli» 15. E non v’è necessità, affinché cambino, che essi vengano ampiamente scombinati: perché il mutamento si realizzi basta «talvolta un dettaglio che si ingrandisca e produca una nuova condensazione, aggiunga o sottragga delle componenti» 16. Il concetto di «incorporeo» di Logica del senso riemerge dunque diventando qualcosa d’altro, me- diante «nuova condensazione», andando a costituire una componente del concetto di concetto di Che cos’è la filosofia?. Il «concetto», per Deleuze e Guattari, diviene pertanto «l’evento come puro senso che percorre immediatamente le componenti» 17, «evento […] immateriale, incorporeo, invivibile: la pura riserva» 18: «solo un concetto è in grado di afferrare l’evento [c’est un concept qui appréhende l’événement]» 19. Il concetto «controeffettua» 20 – è ancora il vocabolario di Logica del

senso 21 che risuona – lo stato di cose: è un movimento che “risale” verso ciò che «in tutto ciò che avviene sfugge alla propria attualizzazio- ne» 22. Sostenere quindi che il compito della filosofia è quello di creare concetti, equivale a dire che la filosofia «non ha altro scopo che diven- tare degna dell’evento» 23. Una volta definito il compito della filosofia, tuttavia, resta ancora da chiarire un aspetto, a dire il vero tutt’altro che indifferente. Deleuze e Guattari affermano infatti che colui che

crea i concetti non è il filosofo, bensì il «personaggio concettuale» 24. È quest’ultimo che crea il concetto «controeffettua[ndo] l’evento» 25. È quest’ultimo che, propriamente, crea il concetto. È il «personaggio concettuale» il “soggetto” – se di soggetto si può ancora parlare – che

fa filosofia. Proveremo, ora, a capire chi sia.

2. Chi crea il concetto?

Deleuze e Guattari offrono un esempio significativo di concetto e delle sue trasformazioni ripensando il cogito in Cartesio (cogito chez

Descartes) 26. Si tratta del primo degli esempi che arricchiscono strut- turalmente Che cos’è la filosofia?, attraverso il quale i due autori pre- sentano la “triade cartesiana”, concetto a tre componenti 27 (io dubito  io penso  io sono), che si compone di tre «isole» 28 molto vicine – «dubitare, essere, pensare» 29 –, un «arcipelago» bagnato dal «piano d’immanenza» 30 , dall’«orizzonte degli eventi» 31, dall’«immagine del pensiero» 32. Abbiamo detto cogito in (chez) Cartesio, ed è necessario sottolineare la preposizione in per evidenziare come non si tratti del

cogito di (de) Cartesio (nel senso dell’appartenenza). Il cogito cartesiano

non è, propriamente parlando, il cogito creato da Cartesio, bensì un concetto creato da un personaggio concettuale, un personaggio che – sia consentita l’espressione – non si dà in “carne e ossa”.

Se portiamo allora l’attenzione sull’esempio II tratto da Che cos’è

la filosofia?, e restando nell’orizzonte teorico sotteso dalla “geostoria

della filosofia” 33 (di una storia della filosofia più attenta al divenire dell’evento che al divenire storico) “tracciata” da Deleuze e Guattari 34, vediamo però che un altro personaggio concettuale si avvicina a que- sto concetto, e, nell’incontrarlo, lo “cambia”. Si passava vicino a quel concetto, eppure, pur concependo il significato logico della formula cartesiana (Cogito ergo sum), si mancava, letteralmente, il problema. A un certo momento, il “personaggio Kant”, dice Deleuze, si accorge di una cosa. È una piccola cosa, e tuttavia si tratta di quel «piccolo dettaglio» in grado di produrre quella «nuova condensazione» di cui si è sopra parlato, una piccola differenza che non subentra senza che si crei un altro concetto, senza che si produca un salto qualitativo, senza che si dia vita a un nuovo problema 35.

Ebbene, Kant si accorge che «“io penso” […] è una determinazione che implica […] un’esistenza indeterminata», che porta con sé un’om- bra indeterminata: «“io sono”» 36. Che cosa io sono [je suis]? Come e con quale diritto lo posso determinare? Potrebbe sembrare si tratti ancora dello stesso piano eretto dal concetto di Descartes, e tuttavia così non è, si è prodotto un taglio differente. Il piano tracciato dal lavoro di Kant “ritaglia” il problema di Cartesio in maniera diversa, dando vita a un problema inedito. In Kant la domanda “cosa sono?” risuona percorrendo quattro componenti, arcipelago di quattro isole, accordo di quattro note (concorre senza dubbio un côté musicale alla

caratterizzazione del concetto deleuziano. Certe componenti funziona- no in una tonalità, non in un’altra. Oppure alcune componenti hanno una funzione diversa a seconda della tonalità in cui compaiono, così come una stessa nota, in musica, può essere dominante in una tonalità e tonica in un’altra). Innanzitutto Kant risponde alla domanda “cosa sono?” introducendo il tempo, introducendo la nota T. Eppure ciò non è ancora sufficiente. Ricreando questo problema, Kant deve nel medesimo tempo elaborare «un nuovo concetto di tempo» 37, un tempo che ci affetta «come io passivo e fenomenico» 38. Il cogito kantiano, a quattro note, si nutre di nuove componenti: io penso, io esisto, certo, ma esisto in quanto esistenza determinabile da un tempo peculiare, e, in ultimo, «io sono […] determinato come un io passivo che si rappre- senta necessariamente la propria attività pensante come un Altro da cui è affetto. Non è un altro soggetto, è piuttosto il soggetto che diventa un altro…» 39. Forse una «preparazione» della formula di Rimbaud «“Io è un altro? [Je est un autre]”» 40?

Stiamo tuttavia ancora parlando di nomi di filosofi storicamente esistiti: Cartesio, Kant. Eppure avevamo testé detto che il pendant del concetto deleuziano, colui che lo crea, non è, propriamente parlando, un filosofo.

La creazione di concetti comporta sempre l’«invenzione» 41 di un personaggio concettuale. Un personaggio che dovrà essere «ricostruito dal lettore» 42. Questi nondimeno non potrà, a tale scopo, servirsi uni- camente di notizie biografiche riguardanti l’autore (anche nel caso di un personaggio concettuale, e forse soprattutto a tal proposito, la critica di Proust al metodo Sainte-Beuve colpisce nel segno 43). La biografia di Cartesio, se presa in se stessa, nulla ci dice del personaggio concettuale Cartesio. I personaggi concettuali sono piuttosto gli «“eteronimi” del filosofo», il cui nome, a sua volta, “è il semplice pseudonimo dei suoi personaggi» 44. Il personaggio concettuale è una terza persona imper- sonale 45, una «quarta persona singolare», come già si diceva in Logica

del senso 46. Il personaggio concettuale, lo abbiamo appena ricordato, non lo si può vedere, non lo si può toccare: «insiste» 47 nelle vesti di Socrate, nella sua voce, nelle sue «immagini verbali» 48 donateci da Platone. Se «il destino del filosofo è quello di diventare il proprio o i propri personaggi concettuali» 49, si deve nondimeno specificare che si tratta di un destino che va inventato. E se il filosofo saprà inventare il proprio destino, verrà allora il momento in cui il suo “io” sarà ormai un tegumento inutilizzabile. Egli “muterà di pelle”, e inizierà a comprende- re per chi parlava, in nome di cosa, e cosa, in lui, si diceva. I personaggi concettuali non sono personaggi storici, benché i primi si palesino nei visi dei secondi 50. Essi sono la voce del divenire, e il divenire, e questo è un altro aspetto determinante, «non è storico» 51, bensì geografico (nella precisa accezione deleuziana sopra richiamata) 52. Il divenire non ha a che fare con la storia, con il mutamento di stati di cose, con il diventare

di personaggi storici. Si diviene nel «nembo non-storico» 53 dell’evento. È sulla base di quest’ultima posizione che Deleuze e Guattari possono affermare che «non si può ridurre la filosofia alla propria storia, per- ché la filosofia non smette di divincolarsene per creare nuovi concetti che pur ricadendovi non ne derivano» 54. Quando si crea un concetto, quando un concetto (soggetto) si crea, si «afferra [appréhende]» un evento [événement], vale a dire «lo strato vaporoso», di nietzscheana memoria (Deleuze fa riferimento alla seconda Inattuale), «“di ciò che non è storico”» 55. “Colui” che crea il concetto non è semplicemente un Io, “colui” che crea il concetto è il personaggio concettuale. Io è

un altro 56. E se Io è un filosofo, l’altro che parla in suo nome, senza confondersi con esso, è il suo personaggio concettuale.

3. La figura estetica

Sviluppare secondo precise direzioni il discorso sulla creazione del

concetto di concetto in Che cos’è la filosofa? doveva servire, come previ-

sto, a preparare il terreno necessario ad affrontare il discorso sul pen- siero dell’arte, con il quale ora possiamo, dunque, passare a misurarci. Abbiamo all’inizio detto che non solo la filosofia pensa, che non solo la filosofia crea. Anche l’arte e la scienza pensano, e pensano creando. Ma se la filosofia pensa creando concetti, quali creazioni fa nascere il pensiero dell’arte? E quali il pensiero della scienza? Se si può dire che si pensa creando «Idee», «ci si domanderà», allora, sotto quali aspetti le «Idee creatrici che non sono concetti» si differenzino dal «concet- to in quanto Idea filosofica» 57. Solo alcune «Idee» sono concetti, e trattasi di creazioni filosofiche; altre sono percetti e affetti, vale a dire creazioni dell’arte, altre, e giungiamo così a lambire i territori della scienza, prospetti. È chiaro pertanto come in questa prospettiva «l’e- sclusiva della creazione di concetti assicura alla filosofia una funzione», «ma non le conferisce alcuna preminenza né alcun privilegio, visto che ci sono altri modi di pensare e di creare, altri modi di ideazione» 58.

Ma se si sostiene che filosofia, scienza e arte creano, è doveroso precisare fin da subito che lo fanno a una condizione, ossia quella di riconquistare un contatto con il «caos» 59; un caos che va «conqui- stato» affinché queste tre «forme del pensiero» possano ritrovare il contatto con l’«infinito» 60, con le «forze cosmiche» 61. A tal fine è ne- cessario disfare ciò che il corpo organico “tesse” in vista dell’azione, la tela tessuta dall’abitudine. Deleuze e Guattari, per caratterizzare questo tessuto protettivo, ricorrono a un’immagine tratta da Lawrence 62, vale a dire all’immagine di un «ombrello» 63 che gli uomini utilizzerebbero per mettersi al riparo del caos, un ombrello colmo di «opinioni» e di «convenzioni» 64. Riconquistare l’«infinito» significa allora praticare un taglio nel tessuto che rassicura, per respirare «un po’ di caos libero e ventoso» 65. È proprio sulla scorta di tali considerazioni che l’ordine che l’artista andrà a creare nella propria lotta con il “caos ritrovato”

potrà dirsi caosmos (in Logica del senso, fin dalle prime pagine, già si parlava di «caos-cosmos» 66). Il termine caosmos designa pertanto un “ordine tracciato sul caos”, esso nomina un piano riconquistato al caos in quanto “invisibile vivo”, dopo che si è operato un taglio nel “cielo posticcio” dell’opinione: è «affronta[ndo] il caos» che «le tre grandi forme del pensiero» – arte, scienza, filosofia, le «Caoidi» 67 – pensano e creano. Anche l’arte, dunque, l’abbiamo appena visto, pensa; essa pensa per affetti e percetti, e proprio in questo aspetto, come già evi- denziato, differisce dalla filosofia 68 comportando un «altro modo di

ideazione» 69.

Ora, se la creazione di un concetto comporta l’«invenzione» di un personaggio concettuale, i percetti e gli affetti hanno a loro volta per

pendant delle figure estetiche. Se i personaggi concettuali erano potenze

di concetti, le figure estetiche sono «potenze di affetti e di percetti» 70:

Le grandi figure estetiche del pensiero e del romanzo, ma anche della pittura, della scultura e della musica, producono degli effetti che eccedono le affezioni

e percezioni ordinarie, così come i concetti oltrepassano le opinioni correnti 71.

In filosofia – lo si è visto nei primi due paragrafi – è il personaggio concettuale che crea il concetto: Je ne pense pas. Non sono Io a creare i concetti. “Colui” che “concettualizza” è il personaggio concettuale, che fa parte di un divenire che si è definito «non storico», «concet- tuale» 72. Ora, se passiamo a prendere in considerazione il processo creativo dell’arte, vediamo che “colui” che crea non concettualizza più, ma sente, percepisce. Nell’arte qualcosa, che non è una cosa, e che tuttavia possiede una singolarità, sente, percepisce. Non sono Io che percepisco, non sono Io che sento: «l’emozione non dice “io”» 73. Si è poco sopra fatto riferimento all’ombrello delle percezioni ordinarie. Ebbene: il percetto «eccede» la «percezione ordinaria», l’affetto «ec- cede» l’«affezione ordinaria». Cerchiamo di comprendere più a fondo cosa Deleuze voglia dire.

Il «percetto», propriamente, non si percepisce. Oppure si potrebbe dire, come chiariremo meglio a breve, che il percetto è “ciò che può essere solo percepito” 74. Il percetto non è un aistheton, un sensibile, ma un aistheteon, un «sentiendum», ciò che nella percezione ordinaria «insiste» senza trovare realtà in qualità estese: è l’«essere del sensibile» 75. È un’entità intensiva. L’affetto è qualcosa di troppo forte per essere sentito. L’arte non ci dà la cosa percepita in maniera ordinaria, ma ci restituisce dei «divenire non umani dell’uomo» 76, vale a dire degli affetti, dei «paesaggi non umani della natura» 77, ossia dei percetti. Io non vedo il paesaggio, l’Io non vede il paesaggio, piuttosto «il paesag- gio vede». Io divengo impercettibile, l’Io «diviene con il mondo, […] diviene contemplandolo» 78:

Il romanzo si è spesso elevato al percetto: non la percezione della landa, ma la landa come percetto in Hardy; i percetti oceanici di Melville; i percetti urbani o quelli dello specchio in Virginia Woolf. Il paesaggio vede. In generale, quale grande scrittore non ha saputo creare questi esseri di sensazione che conservano in sé l’ora di una giornata, il grado di calore di un momento […]? Il percetto è il paesaggio di prima dell’uomo, in assenza d’uomo 79.

Nel percetto il paesaggio diviene presente alla mia assenza, ma anche i visi divengono visi presenti alla mia assenza. Quale occhio può vedere queste percezioni non ordinarie? Quale occhio può vedere, per così dire, in assenza? Non è un occhio umano, non è un occhio organico, un occhio che vede in vista dell’azione 80. È invece un occhio che vede degli «il y a…» impersonali. Un «cineocchio, l’occhio non-umano» 81. Un occhio che vede i percetti, vale a dire ciò che “può essere solo vi- sto”, è l’occhio di una figura estetica.

Il percetto è «un enigma» 82, è il paradosso della presenza alla mia assenza. Il mondo prima che nascessi o il mondo dopo che non sarò più, oppure il mondo là dove io non sono, ma, soprattutto, e in questo consiste appunto l’enigma paradossale, il mondo senza il mio Io proprio là dove io lo percepisco. La presenza alla mia assenza. In questo senso il cinema sembra averci donato, forse più di altre arti, nuove possibilità. In modo decisivo, anche in questa direzione, il cinema cambia il nostro rapporto con il reale, la nostra percezione ottica, sonora, affettiva. L’o- biettivo della cinepresa rende possibili affetti e percetti altrimenti “non incontrabili”. L’“ingrandimento” o il “ralenti” resi possibili dall’occhio cinematografico, per esempio, non sono meri modi di modificare un dato reale che sarebbe già disponibile, ma opportunità di creare nuo- ve vie di accesso alla realtà, veri e propri modi di esplorare il tempo, per renderlo visibile (il termine tedesco per “ralenti” – Zeitlupe, “lente d’ingrandimento del tempo” – dice bene, come ricorda Didi-Huberman in un libro che egli dichiara esplicitamente essere di ispirazione deleu- ziana 83, le potenzialità temporali insite in questa tecnica 84).

Il cinema – grazie al suo cineocchio non organico – può così essere pensato come una macchina 85 produttrice di percetti, di affetti. Quan- do l’arte crea, non lo fa in nome dell’io, ma dell’«evento» Europa 51, per citare un’opera cui fa riferimento anche Deleuze, è un film che si compone di percetti e affetti. Un film lungo il quale la protagonista Ire- ne vive un mutamento di visione che investe tutti i suoi sensi e il loro senso. Deleuze, ne L’immagine-tempo, si riferisce specificamente alla visione che s’impossessa di Irene in una fabbrica 86. Allorché ella decide di sostituire per un giorno un’operaia nel suo lavoro, Irene non vede degli operai intorno a sé, ma dei condannati. Le immagini in questo caso non funzionano alla stregua di una metafora in senso classicamente