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Rappresentazione e rappresentabilità del movimento

di Linda Bertelli (Pisa)

La fotografia come oggetto teorico e l’inconscio ottico

«La fotografia – scrive la teorica dell’arte Rosalind Krauss – […] diventa un oggetto teorico, altrimenti detto una sorta di griglia o di filtro per mezzo del quale si possono organizzare i dati di un altro campo che si trova, rispetto ad essa, in posizione seconda» 1. Questo studio intende accogliere l’indicazione critica della Krauss e tentare di applicarla a un secondo campo, apparentemente ausiliario, ma in realtà paradigmatico per la comprensione, in un contesto storico determi- nato, dei rapporti tra arte, filosofia e scienza: la rappresentazione del movimento alla fine del xix secolo.

L’immagine fotografica è proposta come spazio in cui va a conclu- dersi una lotta che avviene, in gran parte, altrove; come spazio in cui si ottiene una possibile risposta alle domande: “è possibile rappresentare il movimento?”, “quale rapporto intercorre tra movimento e tempo?”, domande che si pongono all’esterno della pratica fotografica. La fo- tografia, così intesa, abdica al suo ruolo di medium, per diventare il luogo preciso di tali risposte, la vera conditio sine qua non.

In quanto oggetto teorico, la fotografia si incarica di mostrarci una trasformazione generale del concetto di immagine rappresentativa, da una parte, e delle categorie di spazio e tempo (cui è legata la nozione di movimento), dall’altra. Compito di questo lavoro sarà andare ad analizzare, in una fase aurorale della tecnica fotografica, ovvero l’im- piego delle prime istantanee, come queste due parti, questi due fili si intreccino tra loro.

Come anche Krauss riporta 2, la prima e analitica descrizione della fotografia come oggetto teorico è compiuta da Walter Benjamin, in

Piccola storia della fotografia (1931), prima e, in senso pieno, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936).

Con l’avvento della riproduzione meccanica, della riproducibilità tecnica degli oggetti da un lato e delle immagini dall’altro, viene ribal- tato il rapporto precedentemente cristallizzato, univoco, tra un ipote- tico reale, e la rappresentazione di questo reale. La rappresentazione entra in tensione con la realtà fenomenica dell’oggetto, proprio perché, fuori dall’unicità dell’atto artistico, e dentro la possibilità pressoché infinita della riproduzione di un atto, di un gesto, di un’immagine,

questa iper-riproducibilità seriale permette di scomporre, ricompor- re, accelerare, decelerare, ogni processo. Sembra permettere, in altre parole, senza rinunciare alla fedeltà della rappresentazione, ma anzi confermandola ad ogni nuova manipolazione, l’ingigantimento di ogni dettaglio, così come la minimizzazione di ogni considerevole grandez- za, l’atomizzazione del movimento, nonché la sua eventuale ricompo- sizione alla velocità, effettiva o presunta, delle cose. La fotografia, ed in particolare la fotografia istantanea, può e deve essere considerata l’esempio classico di questo processo. L’oggetto perde quel suo ca- rattere di unicità, quell’aura, quell’opacità, che rendevano irripetibili l’atto artistico.

La fotografia libera l’oggetto dalla sua guaina, supera la sua unici- tà esistenziale e predispone l’oggetto stesso verso un meccanismo, un

automatismo riproduttivo. Come scrive Benjamin:

Se è del tutto usuale che un uomo si renda conto, per esempio, dell’andatura della gente, sia pure all’ingrosso, egli di certo non sa nulla del loro contegno nel frammento di secondo in cui si allunga il passo. La fotografia, coi suoi mezzi au- siliari: con il rallentatore, con gli ingrandimenti, glielo mostra. Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo 3.

Ciò che non è presente del movimento nel movimento, la fotografia, così come i fotogrammi cinematografici, lo esplicitano, lo rendono visi- bile, rendono presente all’attimo l’increspatura, la minuzia, il gesto se- minascosto, rendono, appunto, visibile il frammento spazio-temporale «in cui si allunga il passo» 4.

Questa implementazione dell’ordinario ci fornisce la duplice possi- bilità di approfondire la nostra conoscenza dell’orizzonte all’interno del quale ci muoviamo e di acquisire, all’interno di questo stesso orizzonte, «un margine di libertà enorme e imprevisto» 5. Le immagini fotografiche (e cinematografiche) che portano in sé il segno di questa implementazio- ne non costituiscono, tuttavia, semplicemente una resa più perspicua e precisa di ciò che percepiamo senza la macchina fotografica, ma portano alla luce «formazioni strutturali della materia completamente nuove» 6, così come elementi del movimento prima completamente ignoti.

Configurazioni strutturali, tessuti cellulari, che la tecnica, la medicina sono abi- tuate a considerare – tutto ciò è originariamente più congeniale alla fotografia che non un paesaggio sognante o un ritratto tutto spiritualizzato. Nello stesso tempo però, in questo materiale, la fotografia dischiude gli aspetti fisiognomici di mondi di immagini che abitano il microscopico, avvertibili ma dissimulati abbastanza per trovare un nascondiglio nei sogni ad occhi aperti, e ora, diven- tati grandi e formulabili come sono, capaci di rivelare come la differenza tra tecnica e magia sia una variabile storica 7.

Quest’invisibile reso esplicito dalla fotografia è ciò che Benjamin definisce inconscio ottico: «La natura che parla alla macchina fotografica

è infatti una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa spe- cialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevol- mente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente» 8. A confer- ma che le osservazioni benjamiane sulla fotografia siano assolutamente sovrapponibili, in quanto al loro senso ultimo, a quelle sul cinema, riportiamo il passo de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità

tecnica, sostanzialmente identico a quello di Piccola storia della fotogra- fia, con l’unica sostituzione del termine macchina fotografica con quello

di cinepresa: «Si capisce […] come la natura che parla alla cinepresa sia diversa dalla quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente» 9. Prosegue Benjamin:

Se siamo più o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo […]. Qui interviene la cinepresa coi suoi mezzi ausiliari, col suo scen- dere e salire, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il pro- cesso, col suo ingrandire e ridurre. Dell’ inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto grazie ad essa, come dell’inconscio istintivo grazie alla psicanalisi 10. Ed ecco che laddove vi era il campo dell’immaginario, il campo nascosto dove traevano origine le ispirazioni appena accennate, i sogni ad occhi aperti, o ciò che Freud definiva il fantasticare, che aveva ap- punto la sua origine nell’inconscio, con l’avvento della fotografia tutto questo sembra venir meno, e lascia il passo alla riproducibilità e all’a- natomia, alla dissezione e la microscopia del movimento. La cattura del movimento, del gesto appena accennato, da parte della fotografia, rappresentano per Benjamin lo spostamento da un originale autosus- sistente ad una copia che, di fatto, smonta, e, smontando, riproduce un reale che va oltre il reale stesso. Ovvero laddove vi era il campo dell’immaginario, là la tecnica cerca di ipostatizzare un reale. Questo lavoro cerca di dimostrare come l’opera grafica e fotografica del fi- siologo francese Étienne-Jules Marey (1830-1904) 11 vada totalmente e ostinatamente, in termini benjamiani, nella direzione dell’esibizione dell’inconscio ottico. Il tentativo di catturare il movimento nell’imma- gine si identifica, per Marey, con la divisione seriale di ogni atto e di ogni gesto riprodotti dall’immagine. Il movimento è colto attraverso una dissezione che intende carpire all’attimo la sua dilatazione. Questo apre la strada a ciò che si configura come un positivismo della riprodu- zione dell’immagine, e, allo stesso tempo, un’estetica della dissezione.

La messa in linea del movimento: il metodo grafico

Se è vero che Marey, dall’inizio della sua opera scientifica, fino agli ultimi scatti fotografici e alle cronofotografie del 1904, non cesserà mai di occuparsi del problema del movimento, dal movimento dell’aria al movimento degli oggetti 12, dal movimento muscolare degli animali e

dell’uomo 13, al movimento circolatorio del sangue 14, muteranno tut- tavia in misura sostanziale le metodologie utilizzate. Il mutamento del metodo condurrà necessariamente a un mutamento dell’immagine del movimento, senza che si modifichi, ciò nonostante, l’assunto essenziale di Marey, ovvero che, posta la sempre ulteriore perfettibilità degli stru- menti utilizzati e delle rappresentazioni prodotte, il movimento resta una dimensione rappresentabile, e rappresentabile senza scarti.

A partire dal 1860, con la decisione di ampliare il suo campo d’in- dagine dalla circolazione sanguigna e il funzionamento cardiaco all’a- nalisi delle diverse tipologie di movimento che interessano i corpi degli esseri viventi, Marey adotterà la tecnica del metodo grafico 15. Tale metodo – che consiste, in estrema sintesi, nella trascrizione in forma di grafico, su carta o su una superficie sensibile, delle molteplici variazioni di un movimento nello spazio in un tempo circoscritto di corpi viventi o di oggetti – deve essere considerato il necessario antecedente del me- todo fotografico, utilizzato in seguito da Marey. L’analisi di questi primi grafici, infatti, apre alle questioni principali del metodo fotografico: la riproduzione del movimento su una superficie bidimensionale; la sua resa attraverso un’immagine fissa; il presupposto che rappresentato e rappresentazione siano legati da una traducibilità perfetta e compiuta, per quanto a senso unico, in virtù del fatto che il rappresentato altro non è che un insieme di forze che possono essere, tramite il metodo e la strumentazione adeguati, trasposte esaustivamente in una forma grafica e che, anzi, tale forma grafica rende conto di aspetti, di elementi di ciò che è rappresentato che sarebbero impossibili da cogliere ad una percezione ordinaria 16. Tra i diversi esperimenti di Marey, l’esem- pio forse più complesso e più completo per mostrare questo ideale di traducibilità è quello condotto, alla fine degli anni ’60 del 1800, sulla resistenza dell’aria sulle ali di diverse specie di uccelli in volo, in seguito al quale Marey raggiunse i suoi più precisi risultati per quanto riguarda la messa in linea del movimento. Poiché analizzare il movimento dell’ala durante il volo – come aveva capito solo poco tempo prima attraverso lo studio del volo degli insetti – era fondamentale per comprendere la relazione reciproca tra aria e ala, Marey iniziò misurando la velocità del colpo d’ala. A tale scopo fissò all’estremità di ognuna delle due ali un piccolo interruttore elettrico, aperto quando il movimento d’a- la era ascendente, chiuso quando era discendente. L’interruttore era, poi, collegato ad un cilindro (spesso di carta) cui era connessa una punta scrivente. In questo modo Marey poteva registrare graficamente la durata del movimento ascendente e discendente dell’ala. Applicò, inoltre, un miografo ai muscoli pettorali dell’animale per trasmettere al cilindro e a una seconda punta scrivente la contrazione e il rilassa- mento di questi. Il tracciato miografico conteneva due curve, di forma diversa l’una dall’altra: tale diversità – dedusse Marey dopo ulteriori esperimenti – derivava dalla natura della resistenza che ogni muscolo

incontrava. Quando sovrappose il tracciato miografico a quello elettri- co, il risultato mostrò che era il movimento discendente dell’ala quello che muoveva l’animale: il muscolo si contraeva non per il peso dell’ala, quanto piuttosto per la resistenza dell’aria 17.

Per quanto i grafici di Marey raggiungessero livelli di complessità sempre maggiore, dovuti alla possibilità di incrociare dati di diversa natura (potenza muscolare durante il volo, movimento dell’ala nello spazio, frequenza dei colpi, variazione del movimento durante le di- verse fasi del volo, cambiamenti di direzione), la rappresentazione di alcuni elementi propri del movimento non poteva che rimanere esclusa dato il funzionamento stesso del metodo grafico: non potevano essere graficamente registrabili movimenti troppo deboli per azionare la pun- ta scrivente o movimenti di oggetti che non avrebbero potuto essere fisicamente collegati al dispositivo di registrazione (il cilindro). Inoltre i grafici, per loro natura, non descrivono le caratteristiche esteriori di ciò che rappresentano, non descrivono la forma dei corpi in movimento, l’aspetto del gesto, dell’andatura.

Il 14 dicembre 1878, sul numero 289 della rivista La Nature furono pubblicate cinque serie fotografiche 18, a opera dell’anglo-americano Eadweard James Muybridge (1830-1904), che illustravano la locomo- zione del cavallo e il cui metodo rappresentativo avrebbe potuto col- mare le lacune connaturate al metodo grafico 19.

L’istante e il movimento: il metodo fotografico

Pochi giorni dopo la pubblicazione delle immagini di Muybridge, il 18 dicembre 1878, Marey scrive una lettera a Tissandier, poi pubblicata sul numero 291 de La Nature nella quale chiede, con toni entusiastici per la resa di quelle immagini, di essere messo in contatto con l’autore delle fotografie:

Vorrei pregarlo – scrive – di portare il suo contributo alla soluzione di certi problemi di fisiologia così difficili da risolvere attraverso altri metodi. Così, per la questione del volo degli uccelli, io ho sognato una specie di fucile fotografico in grado di cogliere l’uccello in un atto, o meglio ancora in una serie di atti che fissino le fasi successive del movimento delle ali. […] È chiaro che per il Sig. Muybridge si tratta di un esperimento facile da compiere. E poi che meravi- gliosi zootropi potrà offrirci; tutti gli animali immaginabili vi si vedranno con le loro vere andature; sarà la zoologia animata. Quanto agli artisti, per loro è una rivoluzione, poiché si forniscono loro le effettive azioni del movimento, quelle posizioni del corpo in equilibrio instabile che un modello non può dare 20. Quando, dopo alcuni anni di tentativi e perfezionamenti, il fuci-

le fotografico sognato era stato progettato e costruito da Marey (per

applicarlo al movimento del volo), egli ne pubblicò la descrizione su

La Nature:

che fotografa dodici volte per secondo l’oggetto scelto; ogni immagine richiede, come tempo di posa, soltanto 1/720 di secondo. Il cannone di questo fucile è un tubo che contiene un obiettivo fotografico. Dietro, solidamente montato sul calcio, si trova una larga culatta cilindrica che contiene un ingranaggio ad oro- logeria il cui tamburo rimane all’esterno. Quando si preme il grilletto del fucile, l’ingranaggio si mette in moto e imprime i movimenti necessari alle diverse parti dello strumento. Un asse centrale, che compie dodici giri al secondo, comanda tutte le parti dell’apparecchio. La prima è un disco di metallo opaco e perforato da una stretta finestrella. Questo disco costituisce l’otturatore e lascia penetrare la luce proveniente dalla lente dell’obiettivo soltanto dodici volte al secondo, e ciascuna volta per 1/720 di secondo. Dietro questo primo disco se ne trova un secondo, che ruota indipendentemente dal primo sul medesimo albero. Questo secondo disco, sul retro del quale viene applicato il vetro sensibile di forma circolare o ottagonale, ha dodici finestre. Il disco finestrato deve ruotare in modo intermittente, in modo da fermarsi dodici volte al secondo di fronte al fascio di luce che colpisce lo strumento. Una camma posta sull’albero produce questa rotazione a scatti, imprimendo un va-e-vieni regolare ad un’asta con un perno che afferra ad ogni oscillazione uno dei denti che circondano a corona il disco fenestrato. Un otturatore speciale ferma definitivamente l’accesso della luce quando le dodici immagini sono state ottenute 21.

I progressi rispetto al metodo grafico sono evidenti: eliminare ogni forma di trasmettitore artificiale (che, nel metodo grafico, collegava l’oggetto da rappresentare con lo strumento di rappresentazione), eli- minare ogni intermediazione tra il soggetto in movimento e la superfi- cie atta a catturare la sua traccia 22. Nonostante il proposito di Marey fosse chiaramente, anche per quanto riguarda il metodo grafico, quello di ridurre quanto più possibile il carattere convenzionale del segno ottenuto, tanto da collegare fisicamente soggetto e oggetto della rappre- sentazione, esso mantiene un livello alto di simbolicità e, considerata nel suo complesso, la rappresentazione resta un codice che necessita di una conoscenza pregressa da parte dell’osservatore per essere spiegato. L’immagine di per sé, pur mostrando, ha bisogno dell’apporto della didascalia per essere compresa. La possibilità di rappresentare la con- tinuità del movimento (chiaramente visibile dalle linee continue come segni adottati dal metodo grafico) è garantita proprio, esattamente, dalla simbolicità e dalla convenzionalità dei grafici ottenuti.

Invece, l’immagine ottenuta dal fucile fotografico, ovvero l’istan-

tanea 23, di per sé riducendo al minimo il grado di simbolicità e mo- strando ciò che mostra quasi senza dover ricorrere ad ulteriore sup- porti (quali la didascalia), in questo suo avvicinarsi al tempo vissuto non può che perdere la continuità lineare della rappresentazione del movimento del metodo grafico. Tanto più la singola immagine è in grado di dar conto del tempo 24 (riducendo la durata dell’esposizione), tanto meno risulta la rappresentazione della linearità continua di un movimento. Per quanto riguarda l’utilizzo del fucile fotografico, ab- biamo un’esatta esemplificazione visiva di quest’ultima affermazione: sulla superficie di vetro sensibile si alternano immagini istantanee e

spazi neri; dal momento che scopo di Marey era quello di misurare la traiettoria dell’oggetto mobile, egli doveva ritagliare le singole imma- gini (scartando gli spazi neri), sovrapporle e, infine, incollarle su un supporto disponendole lungo un asse orizzontale. La rappresentazione del movimento necessitava, cioè, di un atto di sintesi (in questo caso di montaggio 25). Soltanto in questo modo, infatti, era possibile rendere la dimensione spaziale del movimento e integrare la percezione della traiettoria, della distanza percorsa in un tempo determinato.

L’unica possibilità di ovviare all’impresa del montaggio sarebbe stata quella di fare in modo che la macchina scattasse un numero maggiore di istantanee al secondo, almeno in numero sufficiente per rendere evi- dente la traiettoria, per mostrare le immagini intermedie (il cui posto era occupato dalle porzioni di lastra non impresse, che risultavano poi nere allo sviluppo). Ma quando Marey provò ad aumentare la velocità degli scatti, la lastra del fucile fotografico vibrava e le immagini risul- tavano talmente sfocate da essere illeggibili 26.

L’idea fu dunque quella di cambiare il soggetto da rappresentare e di modificare la macchina adattandola al nuovo soggetto: Marey, dunque, rinunciò al volo e prese in considerazione l’andatura umana, meno com- plessa e più lenta. Costruì, dunque, una nuova macchina 27 che esponeva alla luce un singolo frammento di lastra fotografica ad ogni scatto, in modo che ogni segmento impressionato corrispondesse ad una diversa fase del movimento del soggetto. Come scrive Marta Braun:

Marey aveva creato un sistema di esposizione multipla su un’unica lastra, e il risultato fu sconvolgente: il movimento appariva diviso e congelato in una serie di ciò che potenzialmente era un infinito numero di fasi distribuite sulla super- ficie della stessa lastra […]. Gli esperimenti che portarono a questa soluzione mostrano i tentativi di Marey di incorporare le coordinate spaziali e temporali dei grafici nelle immagini fotografiche 28.

Le immagini ottenute da Marey sembrano, dunque, dare inizio a quel processo che condusse alla frantumazione di quella unità di luo- go e di tempo che caratterizzava, a partire dalla tecnica prospettica rinascimentale, la teatralità delle rappresentazioni per immagini. Da questo punto di vista, non facevano eccezione neppure le istantanee (o i quadri impressionisti). Quello che intende compiere Marey attraverso questa nuova forma rappresentativa è immettere il tempo nell’immagi-

ne e non rappresentare il tempo dell’immagine.

Modificando il nome che aveva assegnato alle immagini ottenute tramite il metodo grafico – cronografie – Marey chiamò queste ultime, prima fotocronografie e, poi, a partire dal 1889, cronofotografie, nome che poi hanno mantenuto.

Ma, questa immagine, questa ipotesi di cattura del reale prima e del tempo poi, esauriscono il problema della presentificazione del mo- vimento? Come afferma Georges Didi-Huberman:

[Marey] considerava certamente nelle sue immagini soltanto quello per cui le aveva prodotte: immagini strumentali di una scienza positiva, sperimentale, le-