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2.3: Filippo Maria Renazzi, Antecessoris Romani de ordine, seu forma Judiciorum criminalium diatriba, 1777

CAPITOLO IV – IL PERIODICO COME PUNGOLO STRUMENTALE ALL’AZIONE DI

IV. 2.3: Filippo Maria Renazzi, Antecessoris Romani de ordine, seu forma Judiciorum criminalium diatriba, 1777

Il padre era avvocato e professore di diritto a Bologna, ma la famiglia si trasferì a Roma su invito di Jacopo Martello e di Eustachio Manfredi. Qui il padre dette sfoggio del suo talento tanto da entrare a far parte dei procuratori del Palazzo apostolico e ottenere la nomina di sostituto commissario della Camera Apostolica.

Filippo Maria compì tutti gli studi a Roma, al Collegio Ghisleri e poi presso importanti giuristi romani. Nel 1763 fu ammesso nel collegio dei procuratori del Palazzo apostolico.

Frequentò le accademie degli Infecondi e dell’Arcadia, dove ebbe occasione di conoscere importanti intellettuali, stabilendo in particolare rapporti di amicizia con l’abate e giurista fiorentino Giuseppe Bandini. Questi fu la sua porta verso i libri dei moderni giuspubblicisti oltremontani, ancora del tutto sconosciuti a Roma, libri che Renazzi lesse avidamente acquisendo una vasta conoscenza delle più innovative teorie giuridiche.

448 Ivi, p. 255.

449 Ivi, p. 257.

450 Ivi, p. 259.

451 FILIPPO MARIA RENAZZI, Antecessoris Romani de ordine, seu forma Judiciorum criminalium diatriba, Roma, Joannes Generosus Salomoni, 1777.

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Nel gennaio del 1768 vinse il concorso per il posto di lettore sopranumerario di diritto alla Sapienza e l’anno dopo, in seguito al pensionamento del professor Pietro Antonio Danieli, fu nominato titolare della cattedra di istituzioni criminali.

Renazzi, postbeccariano “traghettatore”, come Cremani, verso il nuovo e la modernità452, espose le sue teorie nel vasto trattato Elementa iuris criminalis (Romae 1773-1786), in quattro libri.

Il terzo volume (De judiciis criminalibus) è preceduto da un opuscolo (De ordine seu forma judiciorum criminalium

diatriba, Romae 1777) nel quale Renazzi traccia la storia del processo dall’antichità al presente e interviene

nella accesa disputa intorno all’abolizione del metodo inquisitorio, sostenendone la sostanziale validità e la maggiore efficienza rispetto all’accusatorio. Tale posizione sarà poi ripresa negli Elementa.

Morì il 29 giugno 1808 a Roma, dove fu sepolto nella chiesa di S. Eustachio.

In questa sede non mi dilungherò molto su questo singolo articolo453, poiché è stato l’unico articolo giuridico del Giornale de’ Letterati su cui si sia già interessato uno storico del diritto, rimandando per i dettagli al saggio di Ettore Dezza a riguardo454.

È piuttosto mia intenzione rilevare al lettore, come già sottolineato da Dezza455, l’exursus presente riguardo alla disciplina della contumacia in materia penale. Infatti, dice l’Anonimo, avendo Renazzi nella sua opera «toccato rapidamente quest’importantissimo articolo, che tanto interessa l’umanità», risulta necessario supplire a tale mancanza «colle nostre riflessioni»456.

In caso di contumacia i principi di garanzia presenti nel Corpus Iuris nelle fonti giustinianee sono del tutto inapplicati, e vige «la disposizione d’aversi per confesso il contumace». Tale disposizione non deriva certamente dal gius romano, ma dai successivi «Statuti Italici», dando alla contumacia con una fictio iuris lo stesso valore di una confessione. Vi sono nondimeno due debolezze in questa posizione.

In primo luogo, una finzione non può essere assolutamente posta sullo stesso piano della verità («Ma non avvi forse alcuna differenza fra la finzione e la verità?»), così come «i piedi ... d’un accusato che fugge» non possono assolutamente parlare «egualmente che la bocca d’un reo, avanti il Giudice».

In secondo luogo, esiste una «notabilissima differenza» tra la confessio ficta del contumace e la vera confessione dell’imputato presente, e tale differenza è chiaramente dimostrata dagli stessi canoni dell’arte giuridica, «allorché ci inculcano doversi strettamente interpretare le leggi, e gli statuti sopra i contumaci, non solo come penali, ma come correttori ancora del Gius comune»457.

452 ADRIANO CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. Le fonti e il pensiero giuridico, 2, Milano, Giuffrè, 2005, p. 221.

453 Giornale de’ Letterati, Filippo Maria Renazzi, Antecessoris Romani de jure criminali libri duo, T37, 1779-1780 (ma in realtà 1780), Articolo II, pp. 69-93.

454 ETTORE DEZZA, Il Granduca, i Filosofi e il Codice degli Irochesi: Il principio contumax pro confesso habetur e la riforma leopoldina, in Italian Review of Legal History, 3 (2017), n. 13, pag. 1-79.

455 Ivi, 4-6.

456 Giornale de’ Letterati, Filippo Maria Renazzi, op. cit., p.156

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La conclusione dell’Anonimo è l’auspicio da parte di un Sovrano di una riforma della disciplina vigente, che è «uno di quegli articoli che bene esposto agli occhi de’ Regnanti potrebbe forse impegnarli ad un serio esame, per quindi moderare l’asprezza di tali Statuti458».

La vicenda rende pure chiaro come anche questo sia stato un articolo pubblicato per preannunciare posizioni riformistiche che già circolavano nel circolo del governo e vedere la reazione dell’opinione pubblica, esattamente come nei casi degli articoli su Cremani e su Sonnenfels.

Infatti, Pietro Leopoldo redasse nel 1783 una bozza di quelli che dovevano essere i principali elementi della Leopoldina, suddivisa nella sua parte centrale in 34 Massime sulla procedura penale e 70 Vedute sui reati e le pene. La Massima 34 è dedicata alla disciplina della contumacia:

«34. I Rei fuggiti per paura, e contumaci alla giustizia dovranno citarsi pubblicamente 5 volte in varj giorni, e non comparendo, dichiararsi per decreto decaduti da qualunque diritto, e privilegio di non poter cioè più né succede-re, né agire per nessuna causa né civilmente, né criminalmente avanti nessun Tribunale, continuandoli poi il processo, e condannandolo in contumacia, facendo difendere il Reo assente dall’Avvocato dei Poveri, senza però confiscazione dei Beni459».

Questa massima subì alcune modificazioni durante la stesura del nuovo testo normativo, ma comunque il suo nucleo rimase sempre uguale. Lo si vede chiaramente esaminando gli articoli della Leopoldina riguardo la contumacia. Infatti, in merito allo storico principio contumax pro confesso habetur, l’articolo XXXVIII della Leopoldina ne costituisce la fine:

«Riproviamo il sistema della passata Legislazione, per cui la contumacia del Reo, e la di lui latitazione, o assentazione dallo Stato si considerava come una confessione, mentre riconoschiamo quanto sia ingiusto e fallace, e quanto facilmente il timore di un Processo e della Carcere possa indurre alla contumacia, ed alla fuga anco gli Innocenti.

Vogliamo che in avvenire, qualora il Reo non sia comparso alle citazioni, la sua contumacia si abbia non più che per un semplice indizio da potersi congiungere con le altre prove, che si fossero acquistate della di lui Reità, e così farne uso dal Giudice nel sentenziare non altrimenti che di un indizio, il quale militasse contro un reo presente.

Il Processo si farà contro il Reo assente nelle forme solite, senza diversità di prove, come contro qualunque Reo presente460».

458 Ivi, p. 158.

459 Il testo è riportato integralmente in DANIELE ZULIANI, La riforma penale di Pietro Leopoldo, I, Milano, Giuffrè, 1995, pp. 99-126.

460 Il testo è riportato integralmente in DANIELE ZULIANI, La riforma penale di Pietro Leopoldo, II, Testo critico e indice lessicale della Legge toscana del 30 novembre 1786, Milano, Giuffè, 1995.

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