• Non ci sono risultati.

IL FILOLOGO E LA CERTEZZA DELLA STORIA

Per comprendere appieno quel peculiare rapporto che esiste tra erme- neutica e critica che abbiamo analizzato nel capitolo precedente, va ora rilevato come Wolf, nell’affermare che la ricerca filologica ci mette in grado di giungere a conoscenze probabili, risulti legato a una consapevo- lezza epistemologica che da tempo accompagnava chi si occupava dello studio dell’antichità. Ciò sia detto, ovviamente, non con lo scopo di nega- re che, anche sotto questo aspetto, Wolf possa esibire le credenziali di un innovatore – al contrario, è merito di Wolf aver esaminato una questione di estrema importanza per la stabilità e la consistenza del sapere filologi- co. Il punto è che, se non si coglie la preminenza attribuita da Wolf al carattere metodico della pratica critica, rischia di restare poco chiaro come mai Wolf abbia potuto pretendere di dare un fondamento epistemologico alla scienza dell’antichità senza porsi quelle domande che, già nella sua epoca, ci si poteva porre circa il carattere problematico dell’assunto secondo cui lo spirito di un autore possa risultare immediatamente acces- sibile allo sguardo di un interprete.

Da quando il solo modello scientifico rilevante era divenuto quello offerto dalla scienze esatte, a chi si occupava di storia del mondo antico spettava l’onere di provare che anche al sapere storico poteva esser ascrit- to uno specifico valore di verità, da ricercarsi nella probabilità – o verosi- miglianza – delle ricostruzioni degli eventi passati. Decisiva fu, com’è noto, la rottura operata da Cartesio. In quell’opera sì giovanile, ma di fon- damentale importanza che sono le Regulae ad directionem ingenii, Cartesio afferma che ci si deve occupare “solo di quegli oggetti alla cui certa e sicura conoscenza appare esser sufficiente la nostra intelligenza”. Questo, più precisamente, è l’enunciato della seconda regola; merita, per l’importanza che ebbe l’assunto cartesiano, riportarne il commento.

Ogni scienza è cognizione certa ed evidente; né chi dubita di molte cose è più dotto di chi non ha mai pensato ad esse, ma nondimeno appare più igno- rante di esso, se di alcune concepisce falsa opinione; e sicuramente è meglio non studiare affatto, che occuparsi di argomenti così difficili che, non essen- do noi capaci di distinguere il vero dal falso, si sia costretti ad ammettere cose dubbiose per certe […]. E così con questa proposizione respingiamo tutte le cognizioni soltanto probabili e giudichiamo che non si deve prestar fede se non a quelle perfettamente note e delle quali non si può dubitare.1

Fedele alle conseguenze che scaturivano dall’enunciazione di questa regola, Cartesio ha profuso tutto il suo genio filosofico e scientifico nella fondazione di quei saperi, come la matematica e la fisica, nell’ambito dei quali diveniva possibile ottenere conoscenze certe e non solamente proba- bili. Il ricorso all’autorità umana e alle opinioni degli uomini definiva per contro la sfera della morale provvisoria; anche il tipo di conoscenze attin- gibili in questa sfera può essere analizzato metodicamente (a ciò servono le regole enunciate nella terza parte del Discours de la Méthode), ma deve essere chiaro che si tratta di conoscenze alle quali non può essere ascritta alcuna verità. In altre parole, per Cartesio non poteva sussistere alcuna via intermedia tra la certezza assoluta e l’ignoranza totale. Inoltre, nel mede- simo contesto storico, e precisamente negli ambienti del libertinismo eru- dito, sorse quella tendenza, che va sotto il nome di pirronismo, secondo cui nell’impossibilità di giungere a conoscenze stabili e assolute nella sfera storico-culturale era da vedere non uno scacco, ma il dato di parten- za per costruire un sapere ecumenico, sanamente relativistico, aperto all’infinita varietà delle manifestazioni dell’umano. Tanto contro l’impo- stazione cartesiana, quanto contro il relativismo dei libertini reagirono ovviamente tutti coloro che, per varie ragioni, erano costretti a investire di un senso positivo le conoscenze che si basavano sull’acquisizione di dati per principio non riportabili entro la sfera del certo. Parte del pensiero filosofico e scientifico dell’età postcartesiana può essere vista, in effetti, come il tentativo di salvare le conoscenze probabili dalla condanna carte- siana in vista dell’edificazione di una forma di sapere storico che potesse essere tanto rigoroso quanto lo erano le scienze naturali.

A reagire per primi furono i dotti di fede cristiana. In un’epoca in cui la critica biblica cominciava a muovere i suoi primi passi, diveniva indispen- sabile porre la ricerca storiografica sulle fonti cristiane su solide basi epi-

1 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere filosofiche, vol. 1, a cura

stemologiche; in tale contesto, pur essendo in gioco innanzi tutto l’atten- dibilità delle testimonianze sulle quali il credente basava la propria fede, si mise in moto un dibattito, destinato a durare circa un secolo e mezzo, che coinvolse la totalità di quella che, allora, si chiamava erudizione. Possiamo qui ricordare la Logique ou Art de penser di Arnauld, pubblica- ta nel 1622, grazie a cui si ebbe la prima influente formulazione logica ed espistemologica del probabile inteso quale legittima fonte di conoscenza. Con quest’opera viene conferita una nuova legittimità a quelle procedure razionali che servono a gestire l’acquisto della conoscenza in quell’ambi- to intermedio che sta tra le cose che possiamo conoscere mediante la ragione dimostrativa e le cose che non potremo mai conoscere a causa dei limiti che caratterizzano le nostre facoltà. Precisamente in questa sfera intermedia vi è quanto apprendiamo grazie alla testimonianza altrui, che ci guida in quel campo in cui non vale l’esperienza diretta. Salvaguardare la legittimità delle conoscenze acquisibili per tale via significava innanzi tutto – lo ribadiamo – salvaguardare la legittimità della teologia, che in tale prospettiva diveniva sapere storico, intento a studiare quanto ci viene trasmesso dalle Scritture, dai Padri della chiesa e dai concili. Ma dall’ana- lisi dei metodi che devono servire a fondare l’analisi delle testimonianze scaturì un tipo di consapevolezza epistemica che avrebbe dato i suoi frut- ti anche al di fuori dell’apologetica cristiana. Si pensi solo alla nuova for- mulazione dell’autoptica che viene fornita nel capitolo settimo della parte quarta della Logique: “i fatti di cui i sensi possono giudicare facilmente e che sono attestati da un gran numero di persone di diversi tempi, nazioni e interessi, che ne parlano in quanto li hanno direttamente conosciuti e che non possono essere sospettati di aver cospirato insieme per sostenere una menzogna, devono essere considerati così costanti e indubitabili come se li si fossero visti con i propri occhi”.2Da affermazioni come questa emer-

geva, quale logica conseguenza, la necessità di mettere a punto quelle pro- cedure metodiche atte a garantire la prova della validità di una testimo- nianza – prova che appunto deve attestarne la verosimiglianza. In questa prospettiva, salvare la fede nei racconti delle Scritture comportava anche la salvezza della “fede umana”, cioè della credenza in quelle cose che sono attestate da un’autorità umana, le quali però non possono essere accettate senza una discussione preventiva della loro attendibilità.3

2 A. Arnauld – P. Nicole, La Logique ou l’Art de Penser, a cura di L. Marin, Flammarion, Paris 1970, p. 394.

3 Per una ricostruzione delle conseguenze che ebbe, nell’età postcartesiana, la riva- lutazione del verisimile nel campo della conoscenza storica, si veda C. Borghero,

Grazie al desiderio teologico, che spingeva la ragione a cercare giusti- ficazioni della fede capaci di resistere alle sfide dei razionalisti e degli scettici, l’erudizione dell’età barocca nel suo insieme fu spinta così a cer- care nuovi strumenti teorici per porre su nuove basi la propria legittimità. È in questo contesto che si viene a formulare il giudizio sulla verità delle proposizioni riguardanti un evento. Tale giudizio dovrà comportare un esame non solo del fatto in se stesso, ma anche delle circostanze interne (attinenti al fatto stesso) ed esterne (concernenti l’attendibilità dei testimo- ni dell’avvenimento) che lo accompagnano. La critica, intesa sempre più come attività professionale autonoma, servirà così a fornire le armi con- cettuali per togliere l’attività di ricerca nel campo storico da quella sfera in cui l’aveva relegata Cartesio, che altro non era se non la sfera della memoria. Alla critica deve spettare il compito di formulare giudizi, e que- sti sono possibili solo se si dispone di un quadro concettuale ordinato e coerente, capace di giustificare le scelte in base alle quali una testimonian- za viene accolta come verosimile o rifiutata come falsa.

Alla definizione di questo nuovo modello epistemico, però, non hanno contribuito solo il lavoro filosofico e teologico dei giansenisti, o la già menzionata Ars critica di Le Clerc, o, infine, i lavori dei benedettini di Saint-Germain des Près, come il trattato De re diplomatica di Mabillon e la Paleographia graeca di Montfaucon – tutte opere di uomini, cioè, che in fondo erano convinti del fatto che la storia potesse attestare la verità delle loro credenze religiose.4Stimoli fecondi in direzione di un pensiero

capace di valutare il fatto storico nella sua autonomia sono venuti anche dalla filosofia. In un autore come Bayle, curioso collezionista di fatti, appassionato indagatore del contingente, è sì presente una mai discussa fede nella Provvidenza, ma questa fede non gli impedisce di ricercare delle cause naturali per spiegare il corso della storia umana. I fatti storici, seppure infinitamente più complessi e difficilmente definibili delle entità matematiche delle quali si occupa Cartesio, possono infatti essere cono- sciuti con plausibile certezza; oltre a ciò per Bayle non si può andare, ma tanto può e deve bastare allo storico per distinguere il vero dal falso –

La certezza e la storia. Cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Angeli,

Milano 1983.

4 Sul legame tra interessi teologici e attività critica nei maurini, cfr. B. Neveu,

Erudition et religion aux XVIIe et XVIIIe siècles, Michel, Paris 1994, passim, e

A.-B. Renger, Frankreich in wissenschaftsgeschichtlicher Perspektive, in G.W. Most (a cura di), Disciplining Classics – Altetumswissenschaft als Beruf, Vandenhoek&Ruprecht, Göttingen 2002, pp. 1-38.

elencazione di faussetez voleva infatti essere il Dictionnaire di Bayle, ma erano faussetez accertabili e verificabili nella loro esistenza storica. Bayle inoltre seppe trasmettere all’intera epoca in cui operò un potente impulso a quell’autonomia del giudizio critico che da quel momento sarebbe dive- nuta la cifra caratteristica e peculiare della repubblica delle lettere, la quale andava concepita come un luogo in cui tutti gli interlocutori erano posti sullo stesso piano, purché avessero deciso di accedervi non per dif- famare gli altri, ma per cercare sinceramente la verità.5

Non meno importante, infine, fu la distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, che permise di inserire l’analisi tanto della storia naturale quanto della storia tout court entro una cornice epistemologica solida e precisa. Come archivista, bibliotecario e studioso di storia del diritto, Leibniz di fatto praticò per tutta la sua vita la professione dello sto- rico, e sin dagli inizi della sua carriera (si pensi alla Nova Methodus

discendae docendaeque jurisprudentiae, del 1667) non tralasciò mai di

considerare anche la fondazione dell’historica quale parte integrante di quel progetto enciclopedico che avrebbe dovuto condurre a una nuova fondazione del sapere. Certo, una personalità come quella di Leibniz risente ancora del peso di una tradizione secentesca, in cui spiccano i nomi di uno Alsted e di un Komensky, che era tesa a unire la difesa dell’ordine e della certezza del sapere al disegno utopico di dar vita a una nuova età dell’oro attraverso la diffusione di una pansofia in grado di abbracciare un arco di conoscenze che andavano dall’arte combinatoria all’astronomia galileiana.6Tuttavia, con Leibniz emerge con chiarezza che la fede in un

ordine cosmico assoluto e stabile, più che offrire le basi per una rinnova- ta ricerca mistica delle connessioni tra macrocosmo e microcosmo, deve servire da base metafisica per costruire un sistema dei saperi in cui sia possibile ordinare le conoscenze umane con rigore scientifico, e questo tanto nell’ordine della natura quanto nell’ordine della storia.7

5 Su Bayle, qui rimando solo a E. Labrousse, Pierre Bayle. Hétérodoxie et rigori-

sme, Michel, Paris 19962, passim.

6 Su questa tradizione di pensiero e sul modo in cui a essa si riallaccia la Nova

Methodus leibniziana, cfr. C. Vasoli, L’enciclopedismo del Seicento, Bibliopolis,

Napoli 1978.

7 Sul posto che l’analisi dei fatti storici occupa nell’opera di Leibniz, resta ancora utile L. Davillé, Leibniz historien. Essai sur l’activité et la méthode historique de

Leibniz, Alcan, Paris 1909 (in part. le pp. 465-546); si veda inoltre W. Conze, Leibniz als Historiker, (Leibniz zu seinem 300. Geburtstag 1646-1946, hrsg. von

Ciò che lentamente venne a configurarsi, nel passaggio dall’età baroc- ca all’età dei Lumi, è insomma la percezione del fatto che l’attività criti- ca poteva acquistare un valore autonomo all’interno di un nuovo ordina- mento enciclopedico. Inserita in quadro epistemologico meno rigido di quello offerto dal sistema cartesiano perché capace di fare i conti con l’in- certezza, e di conferire quindi un valore positivo alla congettura, la criti- ca cominciava a presentarsi sia come una pratica scientifica, capace di produrre conoscenze in virtù del rigore dei propri metodi, sia come un atteggiamento di fondo, adeguato a gestire discorsivamente l’incrocio tra il soggetto della scienza e quella forma specifica di alterità che era costi- tuita dai mondi e dalle epoche della remota antichità, la cui visibilità anda- va costituita attraverso la classificazione e l’interpretazione delle loro reli-

quiae, fossero queste capolavori imperituri della letteratura universale o

semplici lacerti testuali, monete o epigrafi sbiadite. All’interno di questo processo che portò la critica filologica a costituirsi quale parte integrante dell’enciclopedia dei saperi, l’aspetto più rilevante è dato dall’emergere sempre più chiaro di un intreccio tra applicazione di un metodo, volto in

primis alla verifica dell’attendibilità delle testimonianze scritte, e la

costruzione dell’oggetto storico in quanto tale, inteso cioè quale universo complesso e stratificato di significati che ricevono intelligibilità solo alla fine del procedimento metodico messo in atto per convalidarne l’effettiva leggibilità. Esemplare in tal senso fu la disputa che ebbe luogo in seno all’Académie des Belles-Lettres et Inscriptions negli anni venti del Settecento in merito all’attendibilità delle fonti storiche concernenti i primi secoli di Roma.

A scatenare la disputa fu una memoria letta nel 1722 da Levesque de Pouilly, che si proponeva di mettere in discussione quanto tramandato dagli storici romani sui primi secoli della storia dell’Urbe. Lontano da ogni forma di pirronismo, Levesque de Puilly nutriva piena fiducia nella possibilità di distinguere il vero dal falso (o dal meraviglioso) in merito alla narrazione delle origini di Roma. Se gran parte di quanto ci viene nar- rato dagli storici romani sul periodo che va dalla fondazione fino alle guerre contro Pirro è inesatto, ciò lo si deve a cause precise, che possono essere indagate. Queste le principali: gli storici di Roma non erano in grado di ottenere informazioni adeguate sui primi secoli (tanto più che molte delle fonti, eventualmente disponibili, sono andate perdute a causa di guerre e incendi); le fonti a loro disposizione erano spesso contraddit- torie; gli storici romani hanno mescolato alla storia romana fonti attinte da altre tradizioni, con lo scopo di abbellire o di nobilitare il racconto delle proprie origini; infine, non meno rilevante è l’ammissione fatta dagli stes-

si storici romani circa l’incertezza del loro racconto. A ciò si aggiungono altre due considerazioni, una di natura psicologica, l’altra attinente in maniera diretta la questione dell’attendibilità delle fonti. Per Levesque de Pouilly, la tendenza degli storici romani a infarcire di storie incredibili il racconto delle origini è dovuta al fatto che gli umani, non potendo dispor- re di un racconto attendibile circa le fasi più antiche della propria storia, inventano fatti inesistenti pur di veder soddisfatto il desiderio di attingere a un’origine pura, capace di fondare il senso della realtà presente. Ma anche se gli storici di Roma avessero potuto disporre di fonti relativamen- te antiche, vicine, in ordine di tempo, ai fatti narrati, queste fonti altro non sarebbero state che trascrizioni di una tradizione prima trasmessa solo per via orale. Ora, per Levesque questo fatto da solo sarebbe sufficiente per rendere sospetta la narrazione delle origini: la tradizione orale, infatti, non potrebbe conservare né la cronologia degli avvenimenti, né i dettagli più rilevanti concernenti il loro svolgimento.

Le reazioni ai dubbi così espressi furono durissime. Di prendere le dife- se della tradizione si incaricò un altro membro dell’Académie, l’abate Claude Sallier, autore di due dissertazioni, lette a distanza di un anno l’una dall’altra, nelle quali veniva mostrata l’attendibilità della tradizione alla quale aveva attinto un Livio. Le ipotesi del de Pouilly, alla luce delle tesi di Sallier, altro non sarebbero che una manifestazione di pirronismo stori- co, mescolato a un uso delle fonti indebito e disinvolto. Per difendersi dal- l’accusa di pirronismo, Levesque de Pouilly si vide costretto a formulare non solo una chiara condanna dello scetticismo applicato alla storia, il quale ci condannerebbe a una ignoranza assoluta, ma anche a precisare il senso della sua indagine, che aveva lo scopo di rinforzare la nostra fidu- cia nella capacità di pervenire a un accertamento dei fatti storici il più pos- sibile esatto e completo.8La disputa tra i due ebbe il merito di indurre a

un approfondimento della questione Louis de Beaufort, che nel 1738 pub- blicò la sua Dissertation sur l’incertitude des cinq premieres siècles de

l’histoire romaine, opera nella quale si manifestava non solo una piena

identità di vedute con l’impostazione di Levesque de Pouilly, ma si face- va poggiare l’analisi dei dati su una solida consapevolezza metodologica, ormai affermatasi in seno all’intera corporazione degli eruditi.9Al di là dei

8 Su ciò, cfr. M. Raskolnikoff, Histoire romaine et critique historique dans

l’Europe des Lumières, cit., pp. 99-161.

9 Cfr. L. de Beaufort, Dissertazione sull’incertezza de’ primi cinque secoli della

storia romana, introduzione di B. Hemmerdinger, Jovene, Napoli 1990 (si tratta

risultati storici effettivamente raggiunti da coloro che presero parte alla disputa, un lavoro come quello di Louis de Beaufort poteva ben dirsi il segno dell’avvenuta autonomizzazione del metodo storico settecentesco.10

E senza questa autoaffermazione della critica difficilmente si spieghereb- bero non solo i risultati raggiunti poco dopo da un Gibbon sul terreno della concreta analisi storica,11 ma anche gli stessi risultati ottenuti da Wolf

nella costruzione di una scienza dell’antichità basata sul valore euristico della critica filologica.

Ma prima di tornare a Wolf, vista l’importanza centrale che ebbe la dis- puta sull’incertezza delle origini di Roma (e a conclusione di questo breve

excursus sul modo in cui la critica seppe affermare il valore probabile

delle conoscenze da essa rese possibili), vale la pena soffermarsi su una memoria letta da Fréret all’ Académie in merito alle questioni metodolo- giche che la disputa tra Levesque de Pouilly e l’abate Sallier comportava. Se la conclusione della disputa, come si è detto, si ebbe con la pubblica- zione della Dissertation di Louis de Beaufort, è nel testo di Fréret che si trovano quelle indicazioni di metodo di cui si servirà, più tardi, Beaufort stesso per giungere a una precisa definizione di ciò che deve caratterizza- re la verità storica. Lo scritto di Fréret in questione è la memoria intitola- ta Réflexions sur l’étude des anciennes histoires, et sur le degré de certi-

tude de leurs preuves, letta il 17 marzo del 1724.12Fréret si mostra innan-