Hegel esclude che lo sviluppo storico dell’umanità possa essere affidato al caso, sostenendo che il processo riveli la propria razionalità alla luce dell’attività dell’idea222; Nietzsche si situa agli antipodi di questa concezione rivalutando, sia in ambito naturale sia in ambito storico, proprio il concetto di caso. La nozione di caso (che come è emerso nel corso della trattazione interviene ogni qual volta si tratti la questione del divenire) riveste un ruolo puramente anti- teleologico all’interno della produzione nietzschiana: «se sapete che non esistono scopi, sapete anche che non esiste il caso: perché soltanto accanto ad un mondo di scopi la parola «caso» ha un senso»223.
Con “caso” si intende che il risultato ottenuto non è dovuto ad un’intenzione che proprio a quel risultato mirava. Che venga raggiunto proprio un determinato risultato può suscitare la
parvenza che qualcuno lo abbia perseguito consapevolmente come fine: «dovranno allora
capitare getti di dadi, che assomiglino perfettamente al finalismo e alla razionalità di ogni grado»224. Come negli Appunti filosofici su teleologia e finalismo, il fine è un concetto fittizio applicato a posteriori. Nietzsche conserverà quindi l’idea che il concetto di scopo sia un modo per “mascherare” in un secondo tempo quello che è il risultato raggiunto da un dispiegamento di forze, la direzione che esse hanno preso. Secondo la terminologia che si incontra a riguardo nella Gaia scienza è il quantum di energia accumulato ad essere prioritario rispetto al presunto scopo verso cui si muove; la forza deve scaricarsi in quanto tale, non è guidata razionalmente verso un obiettivo225. Non essendoci una ragione, a rimanere è solo una dimensione dominata da un ottuso sprigionarsi di forze:
E se vi piacesse concludere: «C’è forse soltanto un regno, quello dei casi e della stupidità?», bisognerebbe aggiungere: sì, forse c’è soltanto un regno, forse non esistono né volontà, né fini e siamo stati noi ad esserceli immaginati226.
222 Cfr. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 11. 223 FW, III, p. 149.
224 M, II, p. 99.
225 Cfr. FW, V, 288-289. 226 M, II, p. 99.
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In Così parlò Zarathustra si assiste in alcuni passaggi ad una celebrazione lirica del caso che mantiene anche in questo contesto la propria intrinseca polemicità nei confronti dell’idea di scopo.
È davvero benedizione, non blasfemia, quando insegno: «su tutte quante le cose sta il cielo caso, il cielo innocenza, il cielo accidente, il cielo tracotanza».
‘Per caso’ – questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte le cose, io le ho redente dall’asservimento allo scopo227.
Il caso è nemico del ragno crociato che tesse le proprie ragnatele finalistiche ed è associato ad immagini di danza, liberazione, innocenza228:
Essi si impietosiscono dei miei casi e incidenti: ma la mia parola è: «lasciate che il caso venga a me: egli è innocente come un fanciullino»229!
“Caso” è in fondo il sinonimo di un altro concetto nietzschiano, vale a dire quello di innocenza del divenire. Con esso si intende che gli avvenimenti non hanno un significato morale (premio, punizione, progresso dello spirito ecc.), non sono guidati da alcun scopo, si trovano completamente al di là del bene e del male e risultano privi di senso. Nietzsche inizia delineare quest’idea già nello scritto giovanile La filosofia nell’epoca tragica dei greci dove si concentra sulle figure dei filosofi preplatonici.
Qui è innanzitutto istituito un significativo paragone fra Anassimandro e Schopenhauer: in entrambe le filosofie si delinea un quadro per cui da un fondo unico ed originario (qui l’àpeiron, là la Volontà) si distacca un qualche ente finito assumendo forma individuale. L’unità suprema da cui scaturiscono le forme finite, «questo grembo materno di tutte le cose» (come è definito con un’espressione molto simile a quelle utilizzate nella Nascita della tragedia) può essere definito solo in maniera negativa, cioè solo tramite quelle caratteristiche non possedute dalla forme finite:
L’essere originario così denominato s’innalza al di sopra del divenire, e appunto per questo garantisce l’eternità e il libero corso del divenire. Senza dubbio, tale unità suprema contenuta in quell’«indeterminato» - questo grembo materno di tutte le cose – può essere designata dall’uomo solo negativamente, come un qualcosa cui non può venire attribuito alcun
227 ZA, III, Prima che il sole ascenda, p. 193.
228 Al ragno etico-finalistico si fa riferimento in GM, III, p. 106. 229 ZA, III, Sul monte degli olivi, p. 205.
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predicato tratto dal mondo concreto del divenire: essa potrebbe quindi venire considerata sullo stesso piano della «cosa in sé» kantiana230.
Allo stesso modo per entrambi il distaccarsi dell’ente finito costituisce una colpa: esso la sconta con la morte, la quale rappresenta una punizione per il proprio atto d’arroganza. L’esistenza di individualità plurali assume un significato morale:
L’esistenza di essa [sott. della pluralità] diventa per lui [sott. per Anassimandro] un fenomeno morale: tale esistenza non è giustificata, e trova piuttosto la propria espiazione continua attraverso la morte231.
Per continuare il parallelo fra i due pensatori Nietzsche riporta la dottrina schopenhaueriana secondo cui il criterio per giudicare un uomo consiste nel ricordare che si tratta di un essere che non dovrebbe esistere affatto, e che paga il fio della sua esistenza con molte forme di sofferenza ed infine con la morte.
A Schopenhauer ed Anassimandro è opposto frontalmente Eraclito. Eraclito non legge il divenire, il formarsi e lo sciogliersi di entità singolari in termini morali di colpa e castigo, oppure bene e male ecc. Il divenire non è ritmato da alcuna regola morale, da un ordine cosmico che garantisca una qualche forma di giustizia, bensì si muove al di là di tutte quelle distinzioni e concetti232. Non c’è nulla al di fuori di esso, non ha bisogno di giustificazione, o meglio è sempre giustificato perché non c’è istanza a lui superiore. Non c’è nemmeno spazio per l’essere affianco alla dimensione del divenire. Nietzsche fa dire ad Eraclito: «Non ho contemplato la punizione di ciò che è divenuto, bensì la giustificazione del divenire»233. Il pàthos eracliteo è quell’andare incontro con gioia, ammirazione, accettazione a questo divenire tremendo ed instabile, un «diletto contemplativo» nei confronti di questo gioco del distruggere e del creare234. E la metafora per esprimere una serie di accadimenti che non si inseriscono in un disegno morale e razionale è proprio quella del gioco:
Un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano in un’innocenza eternamente eguale – si ritrovano in questo mondo solo attraverso il giuoco dell’artista e del fanciullo. Come giuocano il fanciullo e l’artista, così il
230 Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci e scritti 1870-1873, cit., p. 159. 231 Op. cit., p. 161.
232 In una sentenza di Al di là del bene e del male si legge: «Non esistono affatto fenomeni morali, ma soltanto
un’interpretazione morale di fenomeni». (JGB, IV, p. 75).
233 Op. cit., pp. 162-163. 234 Op. cit., p. 174.
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fuoco eternamente vivo giuoca, costruisce e distrugge in piena innocenza. Questo è il giuoco che l’Eone giuoca con se stesso235.
È quindi significativo che già qui appaia quell’innocenza del fanciullo che in Così parlò
Zarathustra verrà riferita al caso. La filosofia nell’epoca tragica dei greci pone le basi per quella
caratterizzazione del pensiero di Eraclito che verrà sostanzialmente mantenuta sino agli ultimi scritti del filosofo. Non sembrano esserci rielaborazioni rilevanti di questo tipo di interpretazione tanto che essa giunge sostanzialmente inalterata fino ad Ecce Homo. Nella sezione in cui riflette sul valore e sulle implicazioni del proprio esordio filosofico, ovvero La
nascita della tragedia, Nietzsche accosta Eraclito al concetto di dionisiaco, il quale sarebbe stato
presente, ma in fase ancora “embrionale”, nel testo del 1872. Eraclito è infatti il pensatore tragico il cui pàthos filosofico lo spinge ad accettare il flusso inquietante del divenire tramite il parallelo rifiuto del concetto di “essere”236.
Il concetto di innocenza del divenire, sebbene non espresso con questa formulazione, era infatti al centro della metafisica d’artista della Nascita della tragedia. Nel 1886 Nietzsche decide di ampliare il proprio testo giovanile con una nuova introduzione dal titolo Tentativo di
autocritica. Essa intende specificare cosa di quell’opera sia stato superato, abbandonato e
sottolineare le riflessioni che, al contrario, si sarebbero poi rivelate feconde. (Ad essere rinnegati sono il tono mistico-iniziatico che pervade la sua prosa sovraccarica di entusiasmi giovanili, i residui di romanticismo, la mancata elaborazione di una terminologia filosofica propria ed il conseguente utilizzo di formule schopenhaueriane e kantiane che ostacolerebbero la trasmissione di contenuti nuovi).
Al di là di questo, il vecchio scritto viene sostanzialmente recuperato sotto tre punti di vista. Innanzitutto è qui che per la prima volta la scienza viene guardata con l’ottica dell’artista e l’arte con quella della vita237. In secondo luogo, sebbene in maniera velata, poco trasparente, sempre qui già si tentava di indovinare il significato di dionisiaco238. Infine Nietzsche considera indicativo il fatto che non venga spesa nemmeno una parola sul cristianesimo, trattato con un
235 Op. cit., p. 172.
Analogamente si legge in Aurora: «Si è defraudata della sua innocenza tutta la pura casualità dell’accadere con questa esecranda ermeneutica del concetto di castigo» (M, I, p. 16).
236 Cfr. EH, La nascita della tragedia, p. 71. 237 Cfr. GT, Tentativo di autocritica, p. 6. 238 Cfr. GT, Tentativo di autocritica, pp. 6-7.
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silenzio definito cauto e ostile239. Il motivo di questo atteggiamento viene individuato nella presenza del concetto di giustificazione estetica della vita.
Nel capitolo 5 della Nascita delle tragedia, quando viene contestata la concezione estetica di Schopenhauer riguardo alla poesia lirica, Nietzsche sostiene che tutta la natura, esseri umani compresi, siano immagini e proiezioni artistiche di un’unità primigenia e che solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo siano eternamente giustificati240. È questo il nucleo della metafisica d’artista. L’espressione in questione non veicola l’idea che solo una vita dedicata completamente all’arte, alla ricerca artistica sia degna di essere vissuta. È vero che i problemi dei quali qui Nietzsche tratta sono spesso di natura squisitamente estetica e che a dominare in quell’orizzonte è l’artista Wagner, tuttavia la singola formula in questione indica un altro concetto. «Giustificazione estetica della vita» significa semplicemente che tutto l’accadere si riduce a libera produzione di immagini, illusioni effimere che si succedono senza un ulteriore significato. Questo gioco creativo non ha altro senso al di fuori di se stesso, il suo senso sta nel non averne alcuno. Il divenire è già innocente perché non sanzionato da alcuno scopo. È questo ciò che Nietzsche intende esprimere facendo riferimento ad un paradigma concettuale ancora schopenhaueriano.
Come viene chiarito nel Tentativo di autocritica la giustificazione estetica rimanda ad un Dio extramorale che crea ed annienta per il puro piacere di farlo, che agisce al di là del bene e del male.
E in effetti tutto il libro, dietro a ogni accadere, vede soltanto un senso e un senso recondito d’artista, – un «Dio», se si vuole, ma certo solo un Dio-artista assolutamente noncurante e immorale, che nel costruire come nel distruggere, nel bene come nel male, vuole sperimentare un uguale piacere e dispotismo, e che, creando mondi, si libera dall’oppressione della pienezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compresi. Il mondo è in ogni momento la raggiunta liberazione di Dio, come la visione eternamente cangiante, eternamente nuova dell’essere più sofferente, più contrastato, più ricco di contraddizioni, che sa liberarsi solo nell’illusione241.
239 Cfr. GT, Tentativo di autocritica, p. 10. 240 Cfr. GT, V, p. 45.
241 GT, Tentativo di autocritica, p. 9.
Per un modo analogo di spiegare la giustificazione estetica del divenire si veda l’incipit del capitolo Di coloro che
abitano un mondo dietro il mondo in Così parlò Zarathustra: «Un tempo anche Zarathustra gettò la sua illusione al
di là dell’uomo, come tutti coloro che abitano un mondo dietro il mondo. E allora il mondo mi sembrò l’opera di un dio sofferente e torturato.
Un sogno mi sembrò allora il mondo e l’invenzione poetica di un dio; il fumo variopinto davanti agli occhi di un essere divinamente insoddisfatto». (ZA, I, p. 29).
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Ciò che conta, in questa che in fondo non è più di una metafora come quella del fanciullo (viene chiamata «un’arbitraria ed oziosa metafisica da artista») è appunto l’attacco sferrato alla giustificazione etica proposta dal cristianesimo:
L’essenziale in essa è che rivela già uno spirito che un giorno, sfidando ogni pericolo, prenderà posizione contro l’interpretazione e il significato morale dell’esistenza242.
Il mondo non ha in serbo per l’uomo alcuna missione. Non c’è alcun dover essere, nessuna ricompensa o castigo per l’agire, nessuno spirito razionale che si realizza tramite l’agire umano. Il fatto stesso di esistere non è né premio né punizione (come ritenevano invece Anassimandro e Schopenhauer). In generale nulla esiste per uno scopo o è diretto ad un qualche fine. Che la formula della giustificazione estetica fosse un modo per esprimere l’innocenza del divenire è confermato da Nietzsche stesso in un frammento del 1885:
Da quanto tempo mi sforzo con me stesso di dimostrare la perfetta innocenza del divenire! E quali strane vie ho già percorso in proposito! Una volta mi sembrò che la giusta soluzione fosse quella che mi fece decretare: “l’esistenza come qualcosa del tipo di un’opera d’arte non è sotto la giurisdizione della normale; è anzi la morale che appartiene al regno dell’apparenza”243.
(L’innocenza del divenire sarà anche al centro dei nodi problematici rappresentati dall’avvento del nichilismo e dalla dottrina dell’eterno ritorno).
Come del resto è emerso anche dal capitolo precedente, la storia umana risulta pienamente calata all’interno di questa visione che delinea un contesto dove è squalificata ogni teleologia e ogni lettura morale degli eventi. La storia non possiede un senso morale, nessuna istanza superiore spinge gli accadimenti in una direzione unitaria che conferisce senso al loro susseguirsi. Anche il mondo della storia è un mondo eracliteo. Dall’altro lato, il fatto stesso di intitolare un’opera Sull’utilità e il danno della storia per la vita, indica che la mancanza di un fine nella storia, il suo ridursi ad un crudo urto reciproco di forze, non conduce affatto Nietzsche al disprezzo della materia244. L’attenzione per questa dimensione innocente ed eraclitea non viene diminuita per il fatto che manchi di un significato superiore, anzi questa consapevolezza è il solo modo per avvicinarsi alle sue dinamiche e trarne considerazioni critiche. Lo studio del passato umano è sempre presente come una imprescindibile pratica di autocomprensione;
242 Ibidem.
243 FP, VII, III, 36 [10], p. 441.
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Nietzsche si interroga in maniera continua sulle modalità corrette con cui avvalersi di questa pratica, gli effetti che essa produce sulla sensibilità contemporanea e sulle implicazioni filosofico-morali che se ne possono ricavare245.
Il primo volume di Umano, troppo umano si apre con delle esplicite dichiarazioni in proposito. I filosofi vengono accusati di concepire l’uomo (o meglio l’Uomo) come una verità eterna, come una misura fissa ed immutabile, e quindi pretendono di conoscerlo semplicemente prendendo in esame i tratti dell’uomo attuale:
La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi; molti addirittura prendono di punto in bianco la più recente configurazione dell’uomo, quale si è venuta delineando sotto l’influsso di determinate religioni, anzi, di determinati avvenimenti politici, come la forma fissa dalla quale si debba partire. Non vogliono capire che l’uomo è divenuto e che anche la facoltà di conoscere è divenuta […]. Nell’uomo attuale il filosofo vede «istinti» e suppone che essi appartengano ai fatti immutabili dell’uomo e possano quindi fornire una chiave per la comprensione del mondo in generale246.
Questo difetto verrà sottolineato una seconda volta nel Crepuscolo degli idoli dove tale mancanza, ovvero quella tendenza a destoricizzare gli oggetti, di considerarli sub specie aeterni verrà definita «egicitticismo»247. Nietzsche conclude affermando:
Tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia248.
Un’affermazione di questa nettezza sembra stridere con le specificazioni e le precisazioni sul sapere storico contenute in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, dove non si tacevano gli eventuali pericoli in cui incorre la vita nel rivolgere la propria attenzione sul passato. La presenza di questo tipo di frasi si spiega innanzitutto con la maturazione del distacco da Wagner ed in secondo luogo con un parziale slittamento semantico del termine “storia”, con le conseguenze che esso comporta.
In Ecce homo Nietzsche dichiara che Umano, troppo umano è stato concepito durante il festival wagneriano di Bayreuth per esprimere la massima lontananza nei confronti di
245 Cfr. Piazzesi, Nietzsche, cit., pp. 188-189. 246 MA I, I, p. 16.
247 Cfr. GD, La ragione nella filosofia, p. 55. 248 MA I, I, p. 16.
Nel secondo volume di Umano, troppo umano verrà ribadito che «tutta la filosofia è d’ora in poi commessa alla storia». (MA II, Opinioni e sentenze diverse, p. 15).
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quell’ambiente249. Una volta conclusa l’opera, mentre decide di inviarne una copia proprio a Bayreuth, riceve da Wagner stesso una copia del testo del Parsifal. Questo incrocio di libri viene paragonato da Nietzsche a quello fra due spade250: la rottura si è ormai consumata. L’affiorare della componente cristiana e la commistione del musicista con la meschinità del Reich sono i fattori che contribuiscono in buona parte al distacco251. Nietzsche inizia ad elaborare la filosofia dello spirito libero il quale abbandona la propria casa, gioca con ciò che è più sacro, ribalta le prospettive, ricalibra i pro e i contro. In questo momento di allontanamento Nietzsche lascia cadere il progetto di rifondazione estetica della comunità che aveva il suo perno sul gesuitismo, sull’idea che l’illusione (vitale) fosse consapevolmente da preservare252. Caduto il gesuitismo, le forme critiche di conoscenza possono venir lasciate libere in tutto il loro potenziale distruttivo.
Inoltre, sebbene in qualche raro passaggio la intenda come una generale coscienza del divenire, gli attacchi portati alla storia nella seconda Inattuale erano diretti sostanzialmente alla scienza storica intesa come disciplina accademica e materia “tradizionale” articolata anche in settori minori (storia delle religioni, storia dell’arte, storia della letteratura ecc.); qui con storia si intende in maniera più ampia lo studio su periodi di lunga durata di un oggetto in relazione alla sua evoluzione253. Per questo si avvale anche tanto dei risultati quanto delle indicazioni
delle scienze naturali; essa mira fondamentalmente a ricostruire il modo in cui sono venute formandosi le strutture conoscitive e morali dell’uomo. Filosofare storicamente significa anche essere consapevoli che ciò che appartiene alla sfera estetica, conoscitiva e morale, quindi la sfera che si è soliti considerare esclusiva e propria dell’essere umano è solo una forma più raffinata dell’istinto, dell’egoismo, della volontà di potenza, cioè di quello che ci accomuna al resto della natura. Si tratta di spezzare un dualismo rovesciando l’ideale nel reale, lo spirito
249 Cfr. EH, Umano, troppo umano, p. 81. 250 Cfr. EH, Umano, troppo umano, pp. 85-86.
251 Considerando retrospettivamente il momento in cui in Wagner diviene esplicito l’elemento cristiano, nella
prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano, Nietzsche scrive: «Richard Wagner, in apparenza il più vittorioso, in verità un romantico disperato divenuto marcio, si abbatté improvvisamente, vinto e spezzato, ai piedi della croce cristiana … Nessun Tedesco dunque ha avuto allora per questo raccapricciante spettacolo occhi in fronte, pietà nella sua coscienza? Fui io l’unico che di esso – soffrì?». (MA II, Prefazione, p. 5). Sul romanticismo nichilista di Wagner cfr. ad es. anche FW, V, pp. 302-305.
252 Cfr. Campioni, Individuo e comunità nel giovane Nietzsche, cit., p. 171.
253 Montinari parla di «una accentuazione diversa del problema». (Lettera a D. Cantimori, 19 ago. 1963, citata in
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nella natura, l’anima nel corpo254. In questo compito risiedono le possibilità conoscitive di questa epoca:
Se la genialità, secondo l’osservazione di Schopenhauer, consiste nel ricordare in modo