P arte Prima :
LA FILOSOFIA TRA STORIA E GEOGRAFIA (Il Montefeltro e la filosofia)
Mentre nell’ambito degli studi letterari si è ormai fatta strada l’idea che della letteratura possa e debba farsi non solo la storia ma anche la geografia, non pare che, nel campo degli studi filosofici, questa idea abbia trovato altrettanta accoglienza, anzi sembra quasi che sia considerata in qualche modo inquinante o fuorviante in rapporto alla “purezza” del filosofare. A parte il fatto che tale impo-stazione veicola un concetto di filosofia che andrebbe discusso, è da dire che, in realtà, la dimensione geografica del discorso filosofico è pur sempre presente, e proprio la sua ineliminabilità dovrebbe indurre a prenderla in considerazione in modo più consapevole, fa-cendone un elemento, per quanto contenuto nella sua importanza, che aiuti a capire un pensatore e la sua opera. La cosa, d’altra parte, non costituisce una effettiva novità, dal momento che in una qual-siasi storia della filosofia è rintracciabile il riferimento geografico nella individuazione di scuole e cor renti e nella biografia dei pensa-tori. Solo che - ecco il punto che qui si vuole fare oggetto di rifles-sione - il riferimento viene in genere presentato o come un semplice dato informativo o come una mera caratterizzazione denominati-va; così, per esempio, si parla di “filosofia greca”, di “empirismo inglese”, di “idealismo tedesco”, di “pragmatismo americano”, per non dire delle varie specificazioni nazionali del rinascimento dell’illuminismo, del romanticismo, del positivismo, ovvero delle denominazioni di filosofi: lo Stagirita, il pen satore di Kònisberg, il Roveretano, ecc. Dunque il riferimento geografico appare fin dalle origini della filosofia, a partire dalla cosiddetta “scuola ioni ca”, che si sviluppò nell’Asia Minore (a Mileto e a Efeso), e dalla cosiddetta
“scuola italica”, che si sviluppò nell’Italia meridionale (a Crotone e
ad Elea), e arriva fino ai giorni nostri con la distinzione tra “anali-tici” (o anglosassoni) e “continentali” (o antianalitici) su cui oggi si sta discutendo, anche grazie ad alcune pubblicazioni, che attraverso questa distinzione cercano di individuare le due piste fondamentali nel labirinto della filosofia del Novecento.
Si potrebbe allora dire che quello geografico appare un dato da cui non si prescinde, ma che tuttavia stenta a configurarsi come un elemento su cui cri ticamente riflettere; la cosa è forse giustificabile come resistenza ad una impostazione che potrebbe finire per attri-buirgli un eccessivo valore; ma qui non si vuole enfatizzare o irri-gidire tale indicazione, bensì solo considerarla aspetto di ulteriore conoscenza e che si dovrebbe utilizzare consapevolmente, traendo-ne le conseguenze possibili. Proprio il dibattito in corso riguardo ad “analitici e continentali” può aiutare a comprendere il valore e, insieme, i limiti della indicazione geografica. È infatti vero che la cosiddetta filosofia analitica è oggi dominante nel mondo inglese e americano, ma è anche vero che essa ha trovato proprio nel con-tinente alcune espressioni che ne hanno determinato la fortuna e la successiva diffusione nell’ambiente anglosassone: esponenti del
“circolo di Vienna” e del “circolo di Berlino” hanno infatti espor-tato la filosofia analitica in Inghilterra e negli Stati Uniti; e d’altra parte questo è avvenuto non casualmente: infatti nel mondo anglo-sassone com’è noto, la linea empirista costituisce la tradizione ege-mone: dalla tarda Scolastica medievale all’anti-innatismo del Razio-nalismo moderno, dal Positi vismo ottocentesco al Neopositivismo del primo Novecento; pertanto la svol ta linguistica di Wittgenstein non ha fatto che favorire una precisa linea di tendenza anche geo-graficamente identificabile, seppure, com’è ovvio, non geografica-mente riducibile.
Insomma non si tratta di attribuire alla collocazione geografica un valore determinante, ma di farne un elemento non trascurabile per la identificazione di una personalità o di un orientamento. Al
riguardo vorremmo aggiungere che la tendenza, che c’è dal punto di vista storiografico, ad operare periodizzazioni e ad individuare scuole - tendenza che rischia di fissare in formule più o meno ri-duttivistiche e ripetitive la storia della filosofia - potrebbe essere corretta portando l’attenzione sulle indicazioni di tempo e di luo-go. Il rischio, infatti, è quello di ingabbiare la ricerca filosofica in formule (per esempio: presocratici, preplatonici, ellenisti, ecc.), per cui la varietà di pensa tori e di orientamenti viene, se non perduta, attenuata, a causa delle genera lizzazioni o esclusioni, che distolgo-no dalla complessa ricchezza della storia della filosofia. Proprio per evitare questo occorre guardarsi dall’uso di certe formule stereoti-pate; ebbene, potrebbe bilanciare la preponderanza delle astratte periodizzazioni e degli scolastici incasellamenti il richiamo ad al-tri dati, come le indicazioni tematiche, o quelle cronologiche o, appunto, quelle geografiche. Ovviamente, per quanto riguarda quest’ultime, che qui ci inte ressano, bisognerà evitare di farne una nuova forma di categorizzazione, che in modo non meno astratto o artificioso finirebbe anch’essa per semplificare e quindi impoverire la multiforme vitalità e varietà del pensiero. Pensiamo al riguardo, per riprendere un esempio fatto, alla caratterizzazione geografica dell’empirismo inglese o del pragmatismo americano: è evidente che, per quanto la caratterizzazione geografica sia pertinente riguar-do alla individua zione dell’orientamento, essa non può essere con-siderata come escludente altre collocazioni geografiche. Per fare un ulteriore esempio a noi più vicino, possiamo senz’altro riconoscere la propensione storica (o storicistica) del pensiero italiano rispetto a quello francese o inglese, ma non la possiamo considerare certo né esclusiva dell’Italia né univoca in Italia.
Dunque la congruenza di una caratterizzazione geografica anche nell’am bito della storia del pensiero va vista in termini di ulteriore elemento di cono scenza, che deve pur sempre essere finalizzata solo alla comprensione del l’autore. Potremmo allora dire che il testo
fi-losofico non può fare a meno di essere considerato nel suo contesto culturale, che si caratterizza anche per tutta una serie di peculiarità, tra cui la connotazione geografica non è irrile vante, e tale rilievo va preso in considerazione adeguatamente. Da qui una rilet tura dello sviluppo del pensiero che tenga conto della storicità senza peraltro cedere allo storicismo, e si apra a ogni considerazione che aiuti a individua lizzare la elaborazione di un pensiero, in modo che possa caratterizzarsi anche hic oltre che nunc. Certo le specificazioni spa-ziali e temporali sono pur sempre da vedere in funzione della “filo-soficità” della ricerca condotta da un pensatore. In altri termini, l’e-sigenza di una storia della filosofia per così dire idiografìca e testuale reclama che vengano utilizzati tutti quegli elementi che possono aiutare la individualizzazione e la storicizzazione dell’autore e della sua opera: l’indicazione geografica può favorire utili collegamenti tra la sto ria della filosofia e la storia delle idee e della mentalità, tra la filosofia e l’an tropologia sociale.
A parte ciò, potremmo dire che anche una ragione non filosofica gioca a favore di una geografia della filosofia, il fatto cioè che, se non è il filosofo ad essere illuminato dalla sua terra, è questa che viene illuminata dalla pre senza del pensatore (come, ovviamente, di uno scrittore, di un artista, di uno scienziato, ecc.). E allora ben venga il riferimento al luogo in cui un filosofo è nato e/o ha ope-rato: quand’anche non dovesse servire dal punto di vista specula-tivo, ser virà certamente dal punto di vista culturale, contribuendo a quella memoria storica, di cui un territorio non può fare a meno per chiarire la sua identità; questa, infatti, si caratterizza per una duplice tensione: il radicamento per un verso e la progettualità per l’altro, e quest’ultima è strettamente connessa con quello che la me-moria storica porta alla luce in un processo di coscientizzazione che, mentre permette la trasmissione della cultura, ne rende anche pos-sibile l’ulteriore elaborazione, per cui la tradizione appare nel suo autentico significato: non meramente conservativo (del passato) o
reattivo (al nuovo), bensì attivo e propriamente creativo, per cui la cultura è pur sempre all’inse gna del “già” e del “non ancora”.
In questa prospettiva torna utile ogni elemento che incrementi la cono scenza del passato con particolare riguardo per figure emi-nenti nei vari campi. Così, nel momento in cui una comunità vuole favorire la conoscenza e la promozione del territorio, non può non valorizzare tra l’altro il proprio patrimonio culturale, e in questo ambito non può essere trascurato l’aver dato i natali a pensatori.
Richiamiamo l’attenzione su questo aspetto, perché tale presenza risulta in genere meno segnalata. Diversamente da scrittori e poeti, artisti e musicisti, i filosofi sembrano godere di minore notorietà o essere considerati di minore rappresentatività.
Anche per reagire a questa tendenza, vogliamo ricordare due fi-losofi in occasione del premio giornalistico nazionale, che è stato indetto dalla Comunità montana dell’Alto e Medio Metauro in collaborazione, tra gli altri, con l’Università di Urbino e il comune di Sant’Angelo in Vado. Dato che il Premio è finalizzato alla co-noscenza e promozione del territorio dell’Alta Valle del Metauro, riteniamo che sia una buona occasione per ricordare, anche in am-bito non filosofico, due personalità di rilievo nel panorama della filosofia italiana contemporanea. Si tratta di Enrico Garulli nato a Peglio nel 1925 e morto a Pesaro nel 1985, e di Italo Mancini, nato a Schieti nel 1920 e morto a Roma nel 1992. Entrambi docenti all’Università di Urbino sono tra i pochi filosofi che, nati nelle Mar-che, nelle Marche hanno operato, e non solo a livello accademico, ma pure culturale, sociale e religioso.
Come abbiamo avuto occasione di mostrare in una ricerca con-dotta per l’Accademia marchigiana di scienze, lettere e arti su “il contributo attuale delle Marche alla cultura nazionale” dal punto di vista filosofico, sono pochi i pensatori nati nelle Marche e ancor meno quelli che non se ne sono allonta nati. Nel caso di Garulli e di Mancini la parentesi svizzera del primo e quella milanese del
secondo non hanno praticamente intaccato il forte radicamento di questi due filosofi alla terra marchigiana, e il loro magistero, che si colloca tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, si è svolto tutto ad Urbino, ed è stato non solo un magistero legato all’insegnamento universitario, ma anche all’impegno in ambito ecclesiale e civile, essendo stati attivi nella chiesa urbinate, Mancini, e nell’ammini-strazione comunale di Urbino, Garulli. Ma limitandoci all’ambito culturale, è da ricordare che entrambi si sono impe gnati anche per la promozione degli studi religiosi e delle iniziative culturali, oltre che nella produzione scientifica di opere filosofiche. In questo cam-po, Garulli ha contribuito a far conoscere la fenomenologia, l’onto-logia, l’episte mol’onto-logia, l’ermeneutica, e Mancini lo spiritualismo, la teologia, il neomarxi smo e l’ermeneutica. E l’uno e l’altro, a diver-so titolo, diver-sono stati due origina li interpreti della filodiver-sofia cristiana contemporanea, e studiosi che hanno approfondito la filosofia della scienza e della cultura (Garulli) e la filosofia della religione e del diritto (Mancini).
Segnalare queste due personalità di studiosi nati nell’urbinate - uno pres so Urbino (a Schieti) e l’altro presso Urbania (a Peglio), ed entrambi docenti nell’ateneo urbinate, può essere interessante anche per il fatto che i due pen satori possono quasi simboleggiare la situazione del Montefeltro, che trova, sì, il suo riferimento più illustre in Urbino, ma che presenta pure non pochi paesi che gli fanno corona. Al riguardo sono esemplari le pagine che Carlo Bo ha dedicato al Montefeltro e nelle quali ad Urbino viene riconosciuto
“il primato e l’unicità della posizione”, ma ricordando che “Urbino non è il solo miracolo del Montefeltro e più in generale del Pesare-se”, perché “tutta la campagna che lo circonda è seminata di queste sorprese, di queste offerte di incontri non calcolati (...). Tutto il Montefeltro costituisce un dominio a sé (...). Non è soltanto un’ec-cezione (cioè Urbino), perché il Montefeltro ha una sua verità, una sua autenticità e, come Urbino che lo rappresenta, è molto di più
di una memoria storica”. Così i paesi che fanno corona a Urbino:
da Urbania, che “ha conservato intatto il suo disegno originario, il suo impianto di residenza estiva dei Duchi di Urbino e la bellezza dei suoi giardini pensili sul Metauro”, a Sant’Angelo in Vado, “più chiuso, più abituato alle segrega zioni invernali”, da Fermignano a Peglio, da Borgo Pace a Mercatello sul Metauro, da Montecalvo in Foglia a Petriano: è un susseguirsi di paesi più o meno piccoli che devono essere visti non solo in se stessi ma soprattutto nel contesto, che dà luogo ad un paesaggio che ha il suo centro in Urbino, ma alla sola Urbino non è riconducibile, o meglio in Urbino trova il suo signifi cato ma è l’Urbino che si colloca nel suo territorio, da cui pertanto non si deve prescindere.
Per ritornare ai nostri due pensatori, potremmo dunque dire che la loro nascita a Peglio (Garulli) e a Schieti (Mancini) e la loro do-cenza a Urbino possono essere assunte a simbolo di questo intreccio che caratterizza il Montefeltro, incentrato su quella “capitale dell’a-nima”, come Bo definisce Urbino, e comprendente tutta una serie di centri minori e minimi, che però nel loro insieme permettono di avere una adeguata idea del territorio, a cui Urbino non è estranea e in cui si colloca in modo certo straordinario. Anche di questo i due pensatori possono essere considerati esemplarmente rappre-sentativi, in quanto - come mi è dato di ricordare, avendo goduto dell’amici zia dell’uno e dell’altro - coniugavano l’elevato orgoglio della docenza a Urbino con un non minore affetto per i due paesi di origine: così Garulli con Peglio e Mancini con Schieti; di entrambi ho sentito loro parlare, e lieti di parlarne quando, come nel mio caso, pur essendo della stessa regione, a un centinaio di chilometri soltanto di distanza, non conoscevo i due paesi, per cui ne chiedevo loro notizie.
A parte ciò, mi limiterei a ricordare quanto Italo Mancini ha avuto occasione di scrivere in riferimento alla questione che qui ab-biamo voluto proporre, cioè quella del legame del filosofo con la sua
terra: per un verso Mancini rileva il valore del collegamento, e per altro verso ne indica il limite. Così si è espresso riguardo al primo punto: “un altro tratto della mia personalità mi è stato dato dal pa-ese in cui sono nato: si tratta di una piccola frazione del comune di Urbino che ha nome Schieti. Era un paese di ‘casanti’, ossia di gente venuta dai campi, che mise su casa in proprio e cercava il lavoro nelle miniere, e quindi nell’emigrazione e nelle attività a ridosso dei campi, strappando dalla gleba un po’ di grano, un po’ d’uva, un po’ di foraggio, di fieno, di lupinella, che servisse a svernare, a attraversare i lunghi inverni, perché d’estate, come gli uccelli, ci si arrangiava nei campi. Un paese, quello di Schieti, di tradizioni anarchiche, socialiste e, dopo il ’17, comuniste, che fu sempre un osso duro per il fascismo, restio ad ogni forma di proselitismo fa-scista e che, nonostan te i vari segretari federali che imponevano la divisa, che peraltro nessuno portava, e imponevano la tessera, pena il pane, e imponevano altre cose di fronte alle quali la gente era sempre ribelle, pronta a rintanarsi o ad essere rintanata nel carcere all’arrivo di qualche personalità di governo nel luogo, con quello che si chiama il fermo di polizia; il paese, dicevo, mi ha dato il senso di una maggiore dignità nella sinistra”.
Si tratta di una affermazione cui non è difficile riconoscere im-portanza proprio alla luce dell’opera manciniana, e che lo stesso Mancini ha sottoli neato, quando ha confessato che “nelle ore per-dute, nei ritagli di tempo, magari in viaggio su un treno, sto buttan-do giù delle pagine autobiografiche, ma che in qualche mobuttan-do vo-gliono essere la storia delle lotte, delle figure, del modo di vivere del mio paese di Schieti, dagli anni Trenta sino agli sconcerti e alle di-struzioni che per noi, a ridosso della linea gotica, furono durissime durante l’ultimo, grande conflitto. Dovrebbe emergere un contesto e anche un orizzonte concreto, entro cui trovino significato e approfon
dimento anche le indagini apparentemente più astratte del mio ormai trentennale filosofare e del mio lavorare nel campo della cultura”. Ecco
-ma meriterebbero d’es sere citate altre pagine anche narrativamente pregevoli degli appunti autobio grafici di Mancini- messa bene in evidenza, pur in estrema sintesi, quella dimensione “geofìlosofica”
cui si accennava fin dall’inizio.
Certo - e siamo alla seconda affermazione da tenere sempre col-legata alla precedente - come lo stesso Mancini ebbe a dire: “che si filosofi a Urbino o a Parigi ha poca importanza, importante è come si filosofa”. Eppure rimane vero che, ferma restando l’importanza di filosofare bene, questo si traduce diversamente e risente anche del fatto di svolgersi a Parigi o a Urbino. È ancora Mancini a offrirci elementi in questa direzione, quando, invitato a individuare l’ethos profondo del suo paese, ha indicato l’onore del lavoro e la passione politica: tanto l’uno quanto l’altra hanno trovato in Mancini la loro traduzione negli studi filosofici. Al riguardo, ma non è questa la sede, perché richiederebbe un discorso ben più ampio di quello che qui possiamo fare, tornerebbe utile leggere ciò che Mancini ha scritto sul modo strano che al suo paese c’era di valutare la gente, per cui “mala stima si aveva di qualcu no quando era una ‘legèra’
(...). Legèra era il solo e bruciante marchio di fuoco messo sulla fronte, sulle spalle, su tutto di chi non lavorava, tirava poco o tirava per niente”. Anche Mancini, il filosofo Mancini, nato a Schieti, ha sentito “l’onore del lavoro”, e, insieme con questo onore, “la passione politica”, attraverso cui si costruisce una vita e un pensiero degni dell’uomo, e che trovano nella “balla della spiga” il simbolo che Mancini ricavava pro prio dal suo paese.