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IL ROMANZO DEL NOVECENTO E L’ESPERIENZA DI CALVINO

II.3. La fine dell’età dell’innocenza

Dalla seconda metà del Novecento in poi, la narrativa italiana pone la sua attenzione

sul delicato rapporto tra infanzia e mondo degli adulti, in particolare sul passaggio dall’una all’altra fase. In pieno clima neorealista, i romanzi indirizzati a un pubblico adulto si appropriano delle caratteristiche del romanzo di formazione – desiderio di crescita,

maturazione e affermazione della propria personalità – opponendo allo spaesamento dello

sviluppo il ricordo nostalgico dell’infanzia perduta:

L’idoleggiamento nostalgico della infantia felix, ingenua e baldanzosa, cerca sì di imporsi nell’animo di chi la reimmagina da adulto, scrivendone. Ma l’incanto prende vita solo per contrapporgli il disorientamento penoso suscitato dalle prime difficoltà del farsi grandi, senza esservi stati preparati. Le due grandi tappe dell’età di passaggio, la scoperta dei rapporti di sesso e di quelli economici, acquistano un’aura di struggimento drammatico, come preludio alla fatica senza fine dell’età matura.17

17

La scoperta del sesso come iniziazione alla vita adulta è una tematica che compare

nel romanzo Agostino (1943) di Alberto Moravia. Il giovane protagonista ha tredici anni, è

orfano del padre e vive con la madre un rapporto affettuoso e spensierato. Durante una

vacanza estiva entra in scena un giovane uomo che scuote l’equilibrio familiare e induce

Agostino a vedere con occhi diversi la propria madre, ancora giovane, attraente e carica di

sensualità. Inoltre, le attenzioni omosessuali di un bagnino e la scoperta dell’esistenza delle

case di tolleranza segnano la fine dell’innocenza di Agostino, lasciandolo in bilico tra il mondo dell’infanzia, al quale non può più fare ritorno, e il mondo degli adulti, ancora inaccessibile, nella frustrante e alienante adolescenza: spinto dalla curiosità e dagli istinti,

non riesce ad accedere nella casa di tolleranza perché troppo giovane e anche la sua

richiesta alla madre di essere trattato da uomo rimane inascoltata.

Un altro orfano, stavolta della madre, è il protagonista quattordicenne de L’isola di

Arturo (1957) di Elsa Morante. Arturo trascorre una sorta di fanciullezza edenica, in cui

«lo spazio e il tempo dell’Isola sono rappresentati come spazio primordiale. Il fanciullo ci vive in uno stato robinsoniano e selvaggio: trasandato, sporco e senza far uso del

denaro».18 Il passaggio all’età adulta avviene tramite una doppia iniziazione sessuale: sul piano fisico, Arturo scopre il sesso grazie alla vedova Assuntina, ma sono le rivelazioni e

la presa di coscienza dell’omosessualità del padre che segnano definitivamente il passaggio all’età adulta e l’allontanamento volontario dall’isola di Procida, simbolo dell’infanzia ormai perduta.

Il romanzo ha come sottotitolo Memorie di un fanciullo e si presenta nella forma di

un romanzo autobiografico: Arturo-adulto racconta in prima persona i ricordi della sua

18 E. Z

INATO, Zeno, Gonzalo, Berto, Pin, Arturo, Useppe e tutti gli altri. L’infanzia rappresentata nella letteratura italiana del Novecento, cit., p. 13.

giovinezza, è dotato di «superiorità cognitiva rispetto al se stesso fanciullo» e perciò può

«intervenire anticipando ciò che è ignoto al protagonista».19

Restando sul piano delle tecniche narrative, si affermano nel panorama italiano i

romanzi che eliminano del tutto il fattore del ricordo e offrono al lettore una narrazione in

prima o in terza persona dal punto di vista del giovane protagonista:

A caratterizzare questa narrativa è l’adozione di un punto di vista interno al mondo dei ragazzi, che volge a sottolinearne la separatezza da quello degli adulti: una autonomia generazionale destinata a sfociare in un rifiuto pregiudiziale della civiltà costruita dai padri e dalle madri.20

La separazione tra questi due mondi risulta proporzionalmente maggiore al diminuire dell’età del protagonista, che diventa narratore omodiegetico: il lettore dipenderà quindi dalle conoscenze ed esperienze del bambino, che spesso non comprenderà del tutto le

dinamiche del mondo degli adulti e sarà costretto a interpretarlo secondo la propria chiave

di lettura, per lo più spiazzante o fantasiosa.

È questo il caso di due romanzi, su cui mi soffermerò più avanti, Il sentiero dei nidi

di ragno di Italo Calvino e Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, diversi per tematiche e

contesto storico, ma entrambi validi esempi di come le brutture e i “giochi dei grandi” entrano prepotentemente nel mondo dei bambini, inquinandone l’infanzia e ponendo fine precocemente all’età dell’innocenza. Questa dell’infanzia corrotta è una tematica molto

sentita nel panorama letterario italiano di fine Novecento:

Ma davvero tutt’altra diviene la situazione quando il protagonista si lascia sedurre dalle voci degli adulti che lo incitano a contravvenire le leggi primarie della

19 Ibidem. 20

convivenza civile: a delinquere insomma. Dal romanzo di formazione passiamo a quello di emarginazione: il ragazzo si colloca nei territori dell’asocialità e si conforma ai criteri comportamentali del disordine costituito. […] E al paradosso della educazione diseducativa viene conferito maggior risalto abbassando il livello d’età dei soggetti in causa: il gruppo di ragazzini e ragazzine depravati della Simona Vinci di

Dei bambini non si sa niente (1997) o il piccolo camorrista killer di Certi bambini

(2001) di Diego De Silva sono coetanei di Pinocchio o della piccola vedetta lombarda, ma i destinatari delle loro fosche imprese sono lettori adulti.21

Paradossalmente, l’infanzia diventa più ‘adulta’ e i piccoli protagonisti vivono esperienze sempre più estreme, arrivando addirittura a compiere l’omicidio. L’antitetico

rapporto tra i bambini e il male (sia fare il male sia subirlo) viene affrontato nei più diversi

generi letterari e alla luce di differenti tematiche. Prima fra tutti, la guerra.