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In una recente pubblicazione Pulitanò ha dichiarato:

il profilo sanzionatorio è quello cui è meno rivolto l’interesse della dottrina. Ci piace occuparci della teoria del reato, della razionale pesatura dei presupposti della responsabilità sulla bilancia della giustizia. Sull’uso della spada – il punire – prendiamo atto che è decisione politica, e che non disponiamo di criteri assoluti di giustizia. Ci sentiamo a disagio di fronte alla pena detentiva, l’istituto che

9 Alcuni gravi episodi di violenza all’interno del carcere sono richiamati in Manconi (2015), Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, Chiarelettere; per altri rilevanti dati sugli episodi di morte in carcere e sulle loro cause cfr. Morire di carcere: dossier 2000-2017. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, curato dall’associazione Ristretti Orizzonti, consultabile all’indirizzo web http://www.ristretti.it/ (ultimo accesso 2 luglio 2017).

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari incorpora più d’ogni altro, nell’orizzonte della nostra modernità, il profilo punitivo di un diritto che si definisce penale (Pulitanò 2016, p. 5).

Effettivamente la produzione attuale di stampo più strettamente penalistico tende spesso a concentrarsi sulle retoriche, le pratiche, i profili sostanziali e processuali del reato, dalla sua elaborazione in sede legislativa sino alla sua trattazione nelle aule di giustizia, spesso tralasciando le conseguenze sanzionatorie dello stesso. Riteniamo che questa sostanziale disattenzione sia dettata, da una parte, dal considerare la detenzione quale elemento connaturato delle società moderne e, dall’altra, dalla consapevolezza degli esperti del settore sulla sostanziale inefficacia del carcere nel perseguimento delle finalità costituzionalmente previste, nonché su una progressiva evoluzione del diritto penale in chiave spesso giustizialista (Ibidem).

Crediamo tuttavia che l’imbarazzo derivante da tale consapevolezza non possa comunque frenare l’esigenza sempre attuale di riflettere criticamente sulla pena, sulla finalità, istituzionali e non, della detenzione, sulle politiche legislative che ancora la sorreggono e sulle pratiche di coloro che l’amministrano. E ciò con lo scopo primario di comprendere a fondo cosa sia il carcere oggi, che ruolo rivesta, che tipologia di cittadini rinchiuda e quali sofferenze provochi, nella speranza, un giorno, di poterne fare a meno. Come ribadito più volte, in questo primo capitolo abbiamo cercato di analizzare il penitenziario secondo il filtro degli studi organizzativi. È evidente che un tale approccio non possa prescindere dall’analisi dei fini, dichiarati o no, intesi come situazioni desiderabili alle quali qualsiasi organizzazione tende. Quali sono pertanto le finalità del carcere e della detenzione? Quali le realtà auspicabili a cui tende? Sul tema possiamo distinguere tra teorie ideologiche e teorie esplicative (Pavarini 2004).

Le prime, nate nell’alveo della teoria classica del diritto, possono sostanzialmente ricondursi a tre differenti leitmotiv: la retribuzione, la prevenzione generale e la prevenzione speciale. La teoria retributiva si basa sull’idea che si debba punire quia

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari peccatum est. Si tratta di una pena rivolta al passato, che si basa su ragioni etiche prima ancora che giuridiche. Il significato della pena risiede nel compensare, attraverso l’inflizione di un male, il male rappresentato dal fatto commesso. In questa concezione la pena non è caratterizzata da finalità rieducative. Davanti alla commissione di un reato lo Stato ha il dovere e il diritto di rispondere attraverso l’esercizio della potestà punitiva, intesa come risposta ad un’insopprimibile esigenza di giustizia sociale. Nonostante abbia origini molto lontane, l’affermarsi della teoria retributiva è attribuito al Cristianesimo, il quale ha contribuito al diffondersi dell’idea di una responsabilità del delinquente di carattere etico (Canestrari 2007). È evidente che l’approccio retributivo porti con sé il rischio di derive eticizzanti: uno Stato moderno, laico e pluralista, non può porsi come obiettivo la creazione di una giustizia di carattere assoluto.

Nella teoria della prevenzione generale la pena è concepita come strumento volto ad evitare che vengano commessi ulteriori reati. In tal senso non è rivolta al soggetto punito, ma all’intera collettività che, davanti alla punizione altrui, dovrebbe desistere dal violare le norme poste dall’ordinamento. Gli autori del filone della teoria della prevenzione generale negativa sostengono che la pena abbia una funzione deterrente. L’inflizione di una pena afflittiva e certa agisce in maniera suggestiva sui membri della società, spingendoli a non delinquere esclusivamente per paura che venga loro inflitto un medesimo trattamento.

Questa ricostruzione ammette che la certezza e la drasticità del diritto penale siano strumenti utili a garantire il rispetto dei precetti posti dall’ordinamento. Se si accettasse questa tesi, dovrebbe anche accogliersi l’idea che, eliminata qualsiasi forma di confronto, la società si baserebbe, almeno per quanto riguarda i rapporti del cittadino con le norme di carattere penale, esclusivamente sulla paura di una punizione.

Al contrario i sostenitori della teoria della prevenzione generale positiva ritengono che, attraverso la punizione del delinquente, la cui azione è considerata ingiusta,

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari illegittima e in quanto tale sanzionata, i membri della società finiscano per interiorizzare una serie di paradigmi etici, culturali e normativi che li allontanano dal crimine. In tal modo l’autore del reato diviene uno strumento per la realizzazione di fini che prescindono completamente dalla sua persona. Questa teoria non presuppone solo che esista un ampio numero di valori altamente condivisi o perlomeno condivisibili, ma anche che il sistema penale sia in grado di tenerli in vita e perfino di crearli.

Infine la teoria della prevenzione speciale si focalizza sull’autore del reato. Anche qui la pena è uno strumento con cui perseguire uno specifico obiettivo, ma tale obiettivo è costruito esclusivamente sul soggetto detenuto. Si punisce affinché il delinquente recepisca la drasticità e la certezza della reazione dell’ordinamento e si astenga dal commettere ulteriori delitti. La prevenzione speciale può configurarsi in tre distinti approcci. Si può privilegiare l’aspetto neutralizzante della pena, quello intimidatorio e infine si può perseguire la risocializzazione del detenuto10 (Ibidem).

Come sopra evidenziato, gli approcci di stampo più spiccatamente giuridico si caratterizzano per un tentativo di giustificazione assiologica della pena. Al contrario, le riflessioni di stampo sociologico si concentrano maggiormente sulla finalità che di fatto sono perseguite attraverso la pena e sugli effetti concreti che derivano da una sua applicazione (Anastasia 2012).

David Garland, nel suo Punishment and Modern Society (1990), nel compiere una rassegna delle principali teorie elaborate nell’ambito della sociologia della pena, ne evidenzia sostanzialmente quattro, tre consolidate e una in corso di elaborazione: la tradizione durkheimiana che si concentra sulle radici morali e socio-psicologiche della

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La neutralizzazione è finalizzata a relegare il soggetto detenuto in una condizione di incapacità materiale e giuridica. Le mura invalicabili della struttura carceraria e la certezza della pena fanno sì che il soggetto sia materialmente impossibilitato ad assumere ulteriori comportamenti devianti. Secondo l’approccio che privilegia la funzione intimidatoria, la pena applicata ed eseguita è idonea a coartare psicologicamente colui che la subisce, in modo talmente pregnante e drammatico dal distoglierlo dal perseguire la carriera criminale. Infine secondo la prospettiva della risocializzazione, il detenuto è considerato portatore di deficit culturali, economici e sociali che lo hanno condotto a commettere il crimine. Attraverso il carcere si offre una seconda possibilità di esistenza mediante l'elaborazione di uno specifico paradigma trattamentale e assistenziale. Questa seconda chance, se recepita, dovrebbe agevolare il detenuto in un progressivo reinserimento nella società.

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari pena e sulla sua capacità di generare solidarietà sociale; gli studi marxisti che evidenziano il ruolo della pena nei processi di regolazione sociale ed economica basati sui rapporti di classe; le opere di Michel Foucault che mettono in luce come le sanzioni disciplinari debbano essere interpretate come strumenti di potere e sapere all’interno di più ampie strategie di dominio e subordinazione; ed infine la teoria di Nobert Elias, sviluppata poi da Peter Spierenburg, secondo cui la pena deve essere interpretata all’interno del contesto sociale e culturale in cui si manifesta (Garland 1990, p.51).

È con Durkheim dunque che si assiste al primo tentativo dichiarato di interpretare la pena in base alla funzione che riveste all’interno della società. Lo scopo della sua opera principale, La divisione del lavoro sociale, è spiegare come si origina la solidarietà sociale, come si strutturano la vita collettiva e la coesione tra i consociati (Treves 2002). In questo quadro la divisione del lavoro introdotta dai nuovi sistemi di produzione diviene la manifestazione del passaggio da una solidarietà meccanica, caratterizzata da una comunanza di pensiero e di vita, ad una solidarietà organica, maggiormente evoluta e basata su una progressiva differenziazione funzionale dei componenti della società. In questo passaggio anche il diritto, le cui sanzioni servono a ripristinare le condizioni di solidarietà infrante dalla devianza, subisce un’importante evoluzione: ecco allora che si passa dal diritto penale al diritto civile e amministrativo e dunque dalla sanzione repressiva alla sanzione restitutiva. Per quanto le riflessioni di Durkheim rivestano ancora forte attualità, soprattutto per quanto riguarda la concezione della sanzione quale strumento per rispondere alle esigenze della collettività, siano esse di coesione, o di mero consenso, è evidente che il passaggio da lui ipotizzato non può essere lineare e che, nonostante la trasformazione degli strumenti sanzionatori, il diritto meramente repressivo ha ancora una sua elevata incidenza (Anastasia 2012).

Con Rusche e Kirchheimer (1978) si introduce l’esigenza di uno studio autonomo della pena e delle sue forme, svincolato tanto dall’esigenza durkheimiana di interpretare

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari le forme di coesione sociale, quanto dallo studio sociologico della criminalità. È proprio in tal senso che Anastasia (2012) ritiene che l’opera di questi due autori fondi la sociologia della pena e, considerato il metodo storiografico adottato, costituisca la prima opera di un ricco filone di ricostruzione storica della penalità. Ricorrendo alla categoria marxiana dei rapporti di produzione, Rusche e Kirchheimer tentano di spostare l’attenzione dalle cause generative di atti devianti all’interpretazione della funzione che la pena riveste all’interno degli assetti di potere determinati dal capitalismo. Scrivono i due autori:

la pena non è né una semplice conseguenza del delitto, né il lato nascosto di esso, né un mero strumento determinato dallo scopo che si propone. Non neghiamo certo che la pena abbia fini specifici, ma neghiamo che possa essere compresa solo sulla base di questi; analogamente, si può osservare che nessuno si sognerebbe di scrivere la storia delle istituzioni militari o di un esercito determinato, prescindendo dallo scopo immutabile di questi apparati (Rusche, Kirchheimer 1978, p. 14).

Sostengono pertanto che la pena in quanto tale non esista, ma che esistano piuttosto concrete forme punitive e specifiche prassi penali. L’evoluzione e la trasformazione di tali forme e prassi necessitano di essere contestualizzate nella dimensione storica in cui si manifestano, poiché ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai suoi rapporti di produzione. Questa impostazione consente ai due autori di ripercorrere le varie forme di penalità a seconda dei sistemi economici e sociali che si sono susseguiti dal Medioevo in poi, per giungere ad affermare che la pena pecuniaria risponde alle esigenze tipiche del capitalismo.

È con Foucault che la pena rientra in una più ampia analisi delle strategie del potere e dell’impatto dello stesso sugli individui che ne sono soggetti. In Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975) Foucault si concentra, anche lui in un’ampia valorizzazione dell’evoluzione storica della penalità, sulle pratiche istituzionali di

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari controllo e di disciplina degli individui. In tal senso ritiene che, tra il Settecento e l’Ottocento, sia progressivamente scomparsa la spettacolarizzazione dei supplizi, in cui il corpo era il bersaglio principale della repressione penale, per lasciar spazio a un sistema più velato di costrizioni, privazioni, obblighi e divieti, capace di esercitare un controllo altrettanto pervasivo sulla personalità degli individui.

Infine è sulla base delle riflessioni di Nobert Elias, sviluppate da Peter Spierenburg, che Garland individua una quarta teoria. Spierenburg ritiene che le forme punitive si trasformino e si adeguino al contesto culturale in cui si manifestano, per cui non possono che riflettere la sensibilità degli individui e la cultura collettiva in cui si inseriscono e da cui sono in fin dei conti prodotte ed elaborate (Anastasia 2012). Sostanzialmente rilegge il mitigarsi delle forme della penalità quale prodotto del progressivo affermarsi della società delle buone maniere. Garland tenta di superare questa impostazione, ponendo in rilievo il fenomeno inverso, ossia la possibilità che la pena, intesa al pari di altre in quanto istituzione sociale, sia in grado di influenzare e determinare i modelli di significato di tutti coloro che abitano il contesto in cui si manifesta.

Gli apporti sinora menzionati dimostrano che, tanto nell’ambito del diritto, quanto nell’ambito della sociologia della penalità, non vi sia in alcun modo convergenza di vedute sulla funzione della pena, compresa quella detentiva. Quel che possiamo evidenziare per tentare di districare la matassa è che le retoriche istituzionali, sancite nell’art. 27 della Costituzione e nelle pronunce giurisprudenziali emesse al riguardo, hanno accolto la rieducazione quale funzione prevalente nel legittimare qualsiasi forma di restrizione della libertà. Tuttavia, gli alti tassi di recidiva, abbinati ad una scarsa valorizzazione delle occasioni di reinserimento dei detenuti, anche in termini di risorse investite, dimostrano ampiamente come l’utopia rieducativa sia del tutto sfumata per lasciar spazio ad una massiccia dose di afflittività e sofferenza comminata.

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari In questo quadro gli studi organizzativi ci agevolano nel fornirci gli strumenti per distinguere tra fini reali, alla cui realizzazione sono diretti gli sforzi del personale e l’investimento delle risorse, e fini dichiarati da coloro che sono autorizzati alla costruzione di una certa retorica ma rispetto ai quali mancano concreti investimenti. Per comprendere concretamente l’atteggiarsi dei fini del penitenziario nelle pratiche quotidiane sarà quindi necessario non solo cercare di comprendere attraverso i singoli individui il senso della loro azione all’interno dell’organizzazione-carcere, ma anche cercare di comprendere come sia organizzato concretamente il lavoro e soprattutto come vengono distribuite le risorse umane e finanziarie (Etzioni 1967).

Etzioni ci aiuta a comprendere meglio le sue riflessioni sul fine organizzativo servendosi dell’esempio dei manicomi. Sostiene in tal senso che, qualora i vertici di una struttura psichiatrica dichiarino che il fine della stessa è la cura dei pazienti, ma l’esame dell’organigramma rivela che vi sono solo quattro medici per cinquemila pazienti, mentre il restante personale non ha una formazione sanitaria, e soprattutto i pazienti sono ricoverati da più di dieci anni, non si può che dedurre che il fine reale del manicomio sia esclusivamente evitare che persone potenzialmente pericolose restino in circolazione.

La stessa ricostruzione può essere applicata al contesto carcerario attuale: nella maggior parte degli istituti di pena nostrani è riscontrabile una carenza di organico tra il personale afferente all’area trattamentale, è spesso assente la figura del mediatore culturale per i detenuti migranti e continua ad essere predominante una prospettiva carcero-centrica. Come chiarito da Ronco (2017), i dati sull’esecuzione penale in Italia degli ultimi vent’anni tendono a confermare l’ipotesi del net widening: i numeri complessivi delle persone detenute e delle persone sottoposte a misure alternative procedono su binari paralleli. Al crescere delle misure alternative corrisponde un aumento della popolazione detenuta, confermando che la funzione deflattiva delle

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari misure alternative e, aggiungiamo noi, l’ipotesi di percorsi extramurari che si manifestino come occasione di reinserimento sociale, rimangono spesso illusori (Ibidem).

Per comprendere nel dettaglio i fini dell’organizzazione-carcere, Etzioni (1967) evidenzia la necessità di concentrarsi anche sull’influenza dei fattori ambientali e sulla cornice di valori condivisi dalla società. In tal senso, sempre riferendosi a strutture contenitive, ipotizza che una prigione, volendo investire maggiormente sulla riabilitazione, con molta probabilità incontrerebbe la disapprovazione della comunità in cui si trova tanto da dover abbandonare lo scopo iniziale. Sul punto ci sentiamo di evidenziare che è sicuramente innegabile che il contesto locale in cui un istituto penitenziario è inserito abbia una rilevante influenza sull’andamento dell’istituto stesso, anche in termini di occasioni di incontro tra cittadini liberi e cittadini detenuti. Tuttavia, riflettendo su larga scala, riteniamo che sia altrettanto riscontrabile il fenomeno inverso, ossia che le istituzioni chiamate ad elaborare il diritto penale, e a maggior ragione quelle deputate ad applicarlo, siano esse stesse in grado di orientare, spesso in termini giustizialisti, i gradi di minore o maggiore apertura dei contesti locali nei confronti del mondo carcerario, di cui raramente si conosce il reale funzionamento (Garland 1990).

Le prassi dei membri dell’organizzazione, le tensioni e gli equilibri che si creano tra gli stessi, oltre a svelare i fini realmente perseguiti, danno spesso atto di una loro costante trasformazione, distorsione e, non ultimo, sostituzione. Il fenomeno è stato studiato per la prima volta dal sociologo Robert Michels (Etzioni 1967). Esso si verifica quando l’organizzazione sostituisce i suoi fini legittimi con altri fini, diversi da quelli per cui è stata creata, per i quali non avrebbe dovuto essere impiegata nessuna risorsa e per i quali non è ufficialmente chiamata ad agire. Nella forma più lieve tale fenomeno si concretizza con la trasformazione del fine in mezzo e del mezzo in fine: ciò avviene

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari quando gruppi o individui interni all’organizzazione si servono del fine della stessa quale mezzo per continuare ad accrescere il loro potere.

La sostituzione dei fini è stato analizzata anche da Merton (1966). Quest’ultimo ha evidenziato come tale fenomeno non riguardi esclusivamente i vertici dell’organizzazione, ma si verifichi con una certa frequenza anche nei ranghi organizzativi. Merton sostiene inoltre che questa distorsione, per quanto verificabile anche nelle associazioni di minori dimensioni, quali partiti politici e sindacati, sia tipica delle grandi organizzazioni burocratiche, i cui membri, una volta inseriti, tenderanno a modificare la loro personalità e a rinchiudersi in un rigido rispetto di norme e regolamenti, la cui applicazione non sempre risponde al fine effettivo dell’ente.

Particolarmente interessante è la forma di sostituzione studiata da Selznick. L’autore sostiene che:

far funzionare un’organizzazione è un’attività necessaria e specializzata, tale da porre dei problemi che nulla hanno a che fare con i fini “originari” o dichiarati dell’organizzazione stessa, e che, anzi, spesso sono del tutto opposti a questi. Il comportamento di routine del gruppo è tutto dedicato a problemi specifici e fini parziali che hanno importanza sotto un profilo interno. D’altra parte, dal momento che queste attività consumano la maggior parte del tempo dei membri delle organizzazioni, esse divengono, dal punto di vista del comportamento effettivo di essi, i veri fini dell’organizzazione, sostituendosi a quelli proclamati tali (Selznick 1957, p. 64).

Questa impostazione, particolarmente acuita negli uffici pubblici, può essere applicata anche al contesto carcerario. In tal senso appare chiaro che se la maggior parte degli sforzi degli operatori impiegati a vario titolo nel penitenziario sono quotidianamente orientati nel mantenere alte le esigenze di sicurezza e in generale l’ordine della prigione, il fine del comportamento effettivo per questi non potrà che identificarsi nel custodire e

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari recludere, in tal modo legittimando – ovvero provocando o acuendo – il rilevante livello