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Sguardi da dentro

IV. III “Detenuti nessuno”: tossicodipendenti e stranier

IV.III.I La tossicodipendenza in carcere

I tossicodipendenti rappresentano circa il 25% del totale della popolazione detenuta. Si tratta di una percentuale che risulta sostanzialmente stabile nel corso degli ultimi cinque anni. In questa categoria sono ricompresi tanto i detenuti con problemi droga- correlati, quanto quelli con una diagnosi di dipendenza (Scargiglia, Oleandri 2017). All’interno del penitenziario si fa fronte a questa problematicità attraverso l’inserimento e la costante presenza di un’equipe del Ser.T., composta principalmente da psicologi e psichiatri53. Proprio i servizi per le tossicodipendenze hanno in qualche modo anticipato lo spirito della Riforma, considerato che già qualche anno prima rispetto alla sanità nel suo complesso avevano cambiato amministrazione. Ad oggi il trattamento delle tossicodipendenze in carcere è totalmente delegato ai Ser.T. e ad un esteso panorama di imprese sociali che operano al loro fianco (Verde 2011).

Nei confronti dei dipendenti io credo che i Ser.T. operino bene. In alcuni istituti sono presenti addirittura degli appositi reparti gestiti come se fossero delle vere e proprie comunità terapeutiche dentro il carcere (uomo, direttore sanitario, istituto della Lombardia, novembre 2016).

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La prevalenza della componente psichiatrica e psicologica all’interno dell’equipe del Ser.T. riteniamo che sia dettata, tra gli altri fattori, dall’alta incidenza del fenomeno della doppia diagnosi. Al detenuto tossicodipendente, oltre allo stato tossicomane, viene riconosciuto un disturbo di carattere psichiatrico. Questo fenomeno riguarda il 40% della popolazione tossicodipendente (Astarita 2007). Si tratta di un fenomeno complesso, che porta a dubitare dei limiti della diagnosi psichiatrica. Più specificatamente, premesso che, nella maggior parte dei casi, la persona tossicodipendente ha problemi di tipo psicologico che in qualche modo hanno condotto alla tossicodipendenza, occorre domandarsi se questo disturbo possa comunque essere classificato nei disturbi di carattere psichiatrico. Se ciò avviene, la risposta farmacologica è utile, oppure bisogna ammettere che il carcere produce un disagio che, sommato alla tossicodipendenza, non può essere “trattato” all'interno dell’istituto? Il tossicodipendente con l'ingresso in carcere può vedere aumentato il proprio disagio, senza che ciò necessariamente comporti una diagnosi di tipo psichiatrico, idonea a legittimare dei trattamenti farmacologici fortemente aggressivi.

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari Le parole dell’intervistato dimostrano come la delega riconosciuta dall’apparato penitenziario ai servizi territoriali sia davvero ampia e comprenda la gestione di appositi reparti espressamente destinati ai tossicodipendenti, sui quali tuttavia il controllo derivante dalla loro collocazione all’interno del carcere rimane saldamente ancorato nelle mani dell’amministrazione penitenziaria (Verde 2011).

In merito all’operato del Servizio per le Tossicodipendenze riteniamo invece di serbare alcune riserve. In effetti, nonostante la Riforma della sanità penitenziaria imponga particolari cautele, tanto a livello diagnostico, quanto preventivo e curativo nei confronti di tale tipologia di detenuti, l’equipe del Ser.T. – come evidenziato nell’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone (2017) – continua ad agire principalmente attraverso la somministrazione di farmaci antagonisti, nello specifico attraverso la terapia metadonica a scalare oppure attraverso una “terapia secca” che, senza ricorrere alla somministrazioni di alcuna sostanza, consiste nel far evolvere il decorso della crisi in modo naturale (Scargiglia, Oleandri 2017). In effetti l’attività di disintossicazione, già difficile all’esterno delle carceri, sconta all’interno degli istituti una serie di criticità connesse al sovraffollamento, alla carenza o fatiscenza delle strutture e al basso numero di personale quali educatori e psicologi, tutti fattori che non consentono di attivare tutti gli interventi necessari.

Nei confronti dei tossicodipendenti non viene fatta nessuna prevenzione. Si cerca solo di disintossicare… quasi tutti poi nel tempo scalano la terapia metadonica (uomo, infermiere, istituto della Sardegna, marzo 2017).

Come precisato nel precedente paragrafo, inoltre, alcuni intervistati sostengono che i tossicodipendenti siano quelli che con maggiore frequenza richiedono la somministrazione di psicofarmaci e antidolorifici, probabilmente per placare le dolorose crisi d’astinenza. Il più delle volte ottengono una risposta positiva alla loro richiesta.

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari Questa specificità del trattamento, sostanzialmente snodata su mere coperture farmacologiche, ci induce a ritenere che la tossicodipendenza venga ancora principalmente trattata all’interno del contesto carcerario.

Una conferma di tale assetto emerge dall’analisi dei dati sulla concessione di misure alternative nei confronti di questa tipologia dei detenuti. La sospensione dell’esecuzione (art. 90 TU stupefacenti) e l’affidamento in prova in casi particolari (art. 94 TU stupefacenti), le due principali misure alternative elaborate ad hoc per le persone tossicodipendenti e alcoldipendenti, già di per sé problematiche e altamente discrezionali nella loro formulazione, risultano concesse con sempre minore frequenza (Scarciglia, Oleandri 2017). Certo non si dubita della buona volontà del singolo operatore. Quel che si rileva in questi casi è un rapporto spesso problematico con la magistratura di sorveglianza, abbinato ad una sempre crescente crisi e scarsità di risorse dei servizi territoriali. Proprio queste criticità inducono alcuni (Verde 2011) a sostenere che oramai si sia creata una visibile differenziazione tra una massa di tossicodipendenti sostanzialmente abbandonati, soprattutto gli stranieri, e una élite di utenti selezionati in base al criterio della potenziale riuscita dei protocolli terapeutici decarcerizzanti. Questo assetto, seppur con specifico riferimento ai detenuti stranieri, ci è stato confermato anche in precedenti interviste (Cherchi 2014). In quell’occasione vi era infatti chi riteneva che:

il Sert, per quanto si vanti del suo operato, non ha ancora attuato interventi specifici nei confronti dei migranti tossicodipendenti. Certo la legge non consente di mandarli in comunità, ma si poteva pensare a qualcos’altro. Insomma si potevano programmare degli interventi con le risorse che abbiamo. Invece queste risorse sono direzionate agli italiani, che in genere sono “iperistituzionalizzati” e conosciuti dai servizi (donna, coordinatrice infermieristica, istituto dell’Emilia- Romagna, giugno 2013).

Carlotta Cherchi – Carcere e Salute – Tesi di Dottorato in Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Sassari Agli operatori del Ser.T. pertanto è stata riconosciuta una delega davvero estesa, il cui obiettivo primario era ipotizzare percorsi extramurari nei confronti dei tossicodipendenti. Tuttavia tutto ciò ad oggi si colloca in un quadro di progressiva riduzione degli investimenti e inasprimento delle politiche legislative in materia di stupefacenti, che conducono a opinabili processi di differenziazione tra detenuti e, più in generale, al rischio che le difficoltà operative inducano in questo personale un rapido processo di istituzionalizzazione, neutralizzando la carica innovativa del loro ingresso in carcere (Verde 2011).