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Forse non è un caso che la burocrazia sia uno degli elementi architettonici preferiti delle odierne narrazioni distopiche. Molto spesso queste si accompagnano a visioni immagi- nifiche che si fermano giusto a un passo dall’apocalisse, dove natura permeata da processi entropici inarrestabili e stato di polizia militare – le due antitesi non dialettizzabili cui facevo cenno nell’introduzione – si rispecchiano l’una nell’altra, delineando i confini dello stato d’emergenza (in tutte le sue possibili accezioni: giuridica, ecologica, ge- opolitica, militare). La burocrazia, al cospetto della fine imminente, assume qui l’aspetto ambiguo del potere che

frena, di ciò che trattiene dall’anomia (sebbene essa sia

in qualche modo complice di questo processo d’immane disgregazione cosmico-sociale). Il katechon paolino, scri- ve Cacciari, “può assumere un carattere autonomo […] rappresentandosi come Stato burocratico-amministrativo o ‘di polizia’”1; e la storia dell’Anticristo, in fin dei conti,

“è fatta di ordini, di leggi, di re”2. Ciò che trattiene, in

fondo, è lo stesso φάρμακον che ha determinato la crisi... Paul Auster, per fare un esempio, ne Il paese delle

ultime cose descrive un luogo – “Castello senza ritorno, la

Terra della tristezza, la Foresta delle parole dimenticate” – in cui burocrazia e anomia si richiamano l’un l’altra, coesistendo in uno stesso spazio di potere. Si tratta di un vuoto di significanza giuridica che trasforma la vita politi- ca, sottoposta alla continua minaccia della violenza strut- turale, in rigido paesaggio naturale, nel quale non può spi- 1 M. Cacciari, Il potere che frena, Milano, Adelphi, 2013, p. 67. 2 Ivi, p. 63.

rare il minimo alito di libertà, di ordine o di progettazione del futuro. Ma un minimo di organizzazione politica, se burocrazia vi dev’essere, è ancora presente.

Il nomos, nella città-scarto di cui si narra, si traduce in nove Zone di censimento; ognuna di queste circoscrizioni è contrassegnata da un autonomo Centro di trasformazione, in cui “cadaveri e merda” vengono riciclati per produrre energia, trasformando così morte e deiezione in abbozzi di vita: nuova vita che alimenta, tuttavia, un regno di soli mo- rituri, di vite di scarto ai margini della società vetrinizzata e del benessere. Il ciclo dell’esistenza si regge qui, evidente- mente, su un’economia di morte: il nomos basileus, in que- sta città asfittica, rivela dunque la sua vera essenza morti- fera, quale cieco destino – ciò che trattiene dalla catastrofe, ma forse solo per rendere più lunga e tormentosa l’agonia. La legge è incarnata dal “grande Tal dei tali” – nessuno sa quale sia il vero nome del leader –, poiché “i governi qui vanno e vengono abbastanza rapidamente ed è spesso difficile tenersi al passo con i cambiamenti”3. Questo carat-

tere ineffabile del capo del governo, nella città spazzatura, ha le sue diramazioni in un apparato burocratico sfingeo e inquietante, che permea di sé ogni aspetto del quotidia- no – situazione in cui riaffiora il meccanismo alienante del processo giudiziario kafkiano (e basti qui rievocare il breve racconto Davanti alla Legge). Scrive Auster: “dopo aver corso avanti e indietro da un ufficio governativo all’altro” per sapere come uscire, come evadere dalla città, “aspet- tando in fila giorno dopo giorno solo per sentirmi dire che la mia richiesta doveva esser depositata in un altro uffi- cio”; dopo tutto ciò, afferma Anna Blume (protagonista femminile della vicenda), “compresi che non era permesso abbandonare questo inferno”; la porta della legge, finché rimane aperta, è ostruita dal guardiano; quando si chiude, non puoi far altro che morire nell’ignoranza e nell’assenza di risposte. In fin dei conti, scrive Auster,

3 P. Auster, Nel paese delle ultime cose (1987), trad. it. di M. Sperandini, Torino, Einaudi, 2003, p. 78.

i fatti non sono reversibili. Solo perché sei in grado di entrare non è detto che sarai in grado di uscire. Le vie d’entrata non diventano vie d’uscita e non c’è niente che garantisca che la soglia varcata un attimo prima sia sempre lì quando ti giri a cercarla. Ecco come van- no le cose in città. Ogni volta che credi di conoscere la risposta, scopri che la domanda non ha senso.4

Per gli abitanti di questa città entropica, l’esperienza del nómos, fattosi legge mitica, assume dunque caratte- ri essenzialmente repulsivi; la legge è pensabile solo nella forma di Ananke, di “forze preistoriche” a causa di cui la polizia – garante dell’ordine – “prima picchia, poi fa domande”5; necessità o fato nella sostanza (direbbe He-

gel), capace di insidiare ogni minimo aspetto della vita umana con il suo sembiante minaccioso e onnipervasivo: “il cielo è governato dal fato, da forze così complesse e oscure che nessuno può spiegarle del tutto”, scrive Au- ster6. In città, ad esempio, “c’è una legge sulla vita [...]

che dice che non si deve mai bussare a una porta a meno che non si sappia cosa c’è dall’altra parte” (atteggiamento prudenziale in cui riecheggia il racconto di Kafka Il colpo

al portone). Un mattatoio umano, appena oltre la soglia,

può sempre essere in agguato7.

La burocrazia, nella narrazione di Auster, è il terreno instabile (ancora abitabile, sebbene solo per pochi istan- ti… ) tra anomia fuori controllo, disgregazione sociale e catastrofe ecologica – la disintegrazione del vivente tout

court. Il suo ruolo catecontico, il trattenere la compagine

del reale dalla fine imminente, è in realtà compromesso con gli estremi che unisce/allontana da sé; quasi proie- zioni contraddittorie della sua essenza instabile, che essa apparentemente scongiura come il diverso, l’opposto, il non assimilabile a sé, ma di cui in fondo si compiace per 4 Ivi, pp. 77-78.

5 Ivi, p. 84. 6 Ivi, p. 26. 7 Ivi, p. 112.

un antico e inconfessabile legame di parentela (nómos, fato, violenza e caos, nel romanzo, entrano in un gioco di fitte risonanze, che dimostra il carattere compromisso- rio della Legge con la catastrofe imminente). Se, quindi, la burocrazia finisse per rendere impossibile l’individua- zione storica di un potere qualunque (il Tal dei Tali di turno), essa spalancherebbe le porte all’apocalisse. Me- glio morire che essere privi di disciplina, ecco la massima del romanzo; la perdita di diritti – ironia della sorte – qui sarebbe totale, riguardando anche quello biologico alla sopravvivenza. Terribile destino, questo: si vive e si muore di burocrazia. E questa trouvaille non è per nulla un’invenzione distopica.

STORIE DI BUROCRAZIA: