3.4 La politica ecclesiastica
3.4.1 La fiscalità
L’imposizione diretta fu sempre al centro del dibattito politico e ideologico sulle contribuzioni del clero: fino ai primi decenni del ‘400 il problema della fiscalità132 non ebbe particolare rilevanza e non ci furono mai significative opposizioni, infatti nello Stato da Mar c’erano pochi benefici molto ricchi e quelli nella capitale e nel Dogado erano in mano a patrizi e cittadini veneziani, soggetti come tutti i sudditi laici agli imprestiti che servivano a finanziare il debito pubblico. Conquistata la Terraferma, all’incirca una decina di nuove diocesi e abbazie con ingenti patrimoni fondiari entrò a far parte della Repubblica, dando così l’opportunità agli ecclesiastici veneziani di appropriarsi dei benefici più lucrosi così come di quelli minori: dal punto di vista fiscale, l’implicazione fu di estrema rilevanza in quanto i chierici della capitale erano esentati dalla dadia delle lance, facendo quindi aumentare il carico fiscale sugli ecclesiastici sudditi, gravati anche delle quote dei benefici passati ai veneziani. L’unico modo per ridurre lo squilibrio sarebbe stato la diminuzione della porzione della dadia assegnata al clero, ipotesi che non rientrava affatto nelle intenzioni del governo nonostante le proteste pontificie: il Senato, che non voleva perdere entrate fiscali né irritare gli altri contribuenti, riteneva comunque di essere nel giusto poiché stava semplicemente proseguendo la politica dei precedenti signori di Terraferma che avevano sempre riscosso con regolarità contributi dal clero, e inoltre viste le grandi ricchezze133 di cui disponevano i chierici era giusto che essi contribuissero come tutti gli altri sudditi alla difesa dello Stato. Fino alla metà del XV secolo il sistema impositivo basato sul binomio
imprestiti-dadia funzionò in modo regolare, ma le cose cambiarono con l’affacciarsi della
potenza turca sul Mediterraneo e lo sforzo richiesto dalla politica di espansione
131 Solo nel 1552 Giulio III consentirà di segnalare quattro candidati per il patriarcato di Aquileia.
132 G. DEL TORRE, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai, op. cit.; G. DEL TORRE, “La politica
ecclesiastica della Repubblica di Venezia nell’età moderna: la fiscalità”, in H. Kellenbenz e P. Prodi (a cura di), Fisco religione Stato nell’età confessionale, Il Mulino, Bologna 1989, pp. 387-426; E. STUMPO, “Un mito da sfatare? Immunità ed esenzioni fiscali della proprietà ecclesiastica negli stati italiani fra ‘500 e ‘600”, in Studi in onore di Gino Barbieri. Problemi e metodi di Storia ed Economia, Vol. III, IPEM, Pisa 1983, pp. 1419-1466
133 Secondo il nunzio pontificio a Venezia, la rendita annua del clero ammontava a 400.000 ducati nel 1503,
quando le entrate complessive dello Stato erano di circa 1.100.000 ducati, e nel 1538 fu il Senato stesso a segnalare che i benefici con valore superiore a 100 ducati fruttavano ai detentori mezzo milione di ducati all’anno, su un capitale di 6.000.000 di ducati.
124 nell’entroterra, che resero necessario un inasprimento della politica fiscale: nel 1463 Venezia decise di appoggiare il pontefice Pio II nella sua crociata contro i turchi, ottenendo in cambio della sua partecipazione il privilegio di riscuotere direttamente le decime del clero, che fu invece contestato dal suo successore Paolo II. Venezia imponeva regolarmente due decime all’anno, che il clero pagava con estrema lentezza o non pagava affatto, cosicché la Repubblica era costretta all’esazione forzata a cui il pontefice rispondeva con le scomuniche, fino a quando cedette nel 1466, non senza però aver ottenuto come contropartita alcune considerevoli esenzioni. L’ammontare della decima fu stabilito per mezzo di un catastico di tutti i benefici dello Stato basato sulle denunce dei contribuenti e gli esattori, cioè i collettori apostolici e i succollettori diocesani, erano ecclesiastici nominati dal papa e dai vescovi: la nuova imposta andava a sostituire il sistema degli imprestiti e colpiva il clero di tutto lo Stato veneziano, tuttavia la dadia non fu abolita e quindi il carico fiscale della Terraferma aumentò notevolmente. È importante sottolineare che a causa di tali esenzioni134 veniva a crearsi una
discrepanza di non poco conto tra il gettito teorico della decima fissato dal catastico in base alla rendita dei contribuenti e l’ammontare notevolmente inferiore che entrava nelle casse dello Stato: escludendo i più ricchi prelati dai ruoli di imposta, essa gravava sui chierici secolari più poveri, pertanto si incontravano molte difficoltà a esigere i pagamenti; considerando inoltre che il 5% dell’ammontare della decima spettava di diritto al nunzio pontificio e una piccola percentuale a collettori ed esattori, si comprende che le entrate reali erano decisamente inferiori a quelle teoriche. Non è tuttavia possibile determinare con esattezza l’impatto di questi elementi sul gettito, almeno fino agli anni quaranta del Seicento: secondo Del Torre, tra il 1463 e il 1536 l’entrata netta doveva essere tra i 15.000 e i 20.000 ducati contro i 24.281 teorici, e nel 1536 su un totale di 32.130 ducati la Repubblica ne incassava circa il 60% cioè meno di 20.000 ducati; nel triennio 1537-1539 le esenzioni raggiunsero complessivamente il 20% dell’ammontare della decima, e nel 1552 quelle dei cardinali e prelati più importanti riducevano da sole il gettito del 10% circa.
Nel complesso, gli ecclesiastici dimostrarono sempre una certa renitenza nei confronti del pagamento della decima, anche se fino al 1509 Venezia fu senza dubbio più forte rispetto al papato: fra il 1463 e il 1500 il clero pagò cinquantasette decime e probabilmente altre dieci-
134 Erano esenti dalla decima i benefici dei cardinali, dei cavalieri gerosolomitani, dei membri del Sant’Uffizio,
degli auditori di Rota, dei collettori e dei succollettori; a ciò si aggiungevano le congregazioni monacali parzialmente esenti, gli ordini mendicanti che pagavano metà decima, alcuni ospedali e molti prelati, per lo più familiari dei pontefici e dei cardinali che venivano menzionati nei brevi papali.
125 venti fra il 1501 e il 1509, comprese alcune decime straordinarie, ma era soprattutto il modo in cui il governo e gli ambasciatori trattavano con il pontefice a dare l’idea della forza veneziana, che traspariva dal tono delle lettere e dall’atteggiamento dei suoi ambasciatori. La questione diventò problematica con l’ascesa al soglio pontificio di Giulio II, i cui sforzi condussero alla coalizione anti-veneziana che sfociò nel conflitto di Cambrai e costrinse Venezia a negoziare una pace separata con la Sede Apostolica nel febbraio 1510: ciò segnava un radicale cambiamento nei rapporti di forza tra le due potenze, in quanto la Serenissima fu costretta ad ammettere la propria posizione di subordinazione alle monarchie europee, mentre il papato al contrario acquisiva un’autorità sempre maggiore.
Il tema delle decime al clero non fu più affrontato, si mantenne solo la dadia delle lance e nel 1515 si avviò una revisione degli estimi della Terraferma per adattare il prelievo fiscale ai mutamenti nella distribuzione della proprietà fondiaria: solo nel 1523 il pontefice Adriano VI, a causa della minaccia turca, concesse due decime, così come Clemente VII sia nel 1526 che nel 1527135.