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La struttura amministrativa

Nel documento Guerra e finanza a Venezia (1526-1530) (pagine 75-80)

Il governo delle città e dei territori nella Terraferma era affidato a dei rettori eletti dal Maggior Consiglio, il cui incarico aveva una durata di sedici mesi, che potevano però essere prolungati anche fino a venti o trenta in caso di difficoltà logistiche, ritardi o rinunce da parte degli eletti5. Nelle maggiori città – Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo, Cremona –

i rettori erano due: un podestà a cui erano attribuite funzioni principalmente civili e giudiziarie, affiancato da un capitano con funzioni militari e finanziarie; nelle città di media grandezza – Treviso, Belluno, Feltre, Crema – il rettore era unico e assommava in sé tutte le competenze; un caso particolare era quello di Udine, dove risiedeva un solo rettore, col titolo di Luogotenente della Patria del Friuli.

A integrazione dell’attività dei rettori erano presenti in queste grandi e medie città altri patrizi, i camerlenghi, a cui era affidato il governo della Camera fiscale: in quanto ufficio finanziario della città e del suo territorio, era il luogo deputato alla riscossione dei proventi dei dazi e delle imposte destinati allo Stato, successivamente inviati ai diversi uffici

4 G. ORTALLI, op. cit., p. 61

5 Sull’argomento si vedano: G. COZZI e M. KNAPTON, op. cit., pp. 210-220; G. DEL TORRE, Venezia e la

Terraferma dopo la guerra di Cambrai: fiscalità e amministrazione (1515-1530), Franco Angeli, Milano 1986,

pp. 217-234; T. FANFANI, “I Rettori e la politica economica dominante”, in A. Tagliaferri (a cura di), Venezia

e la Terraferma attraverso le relazioni dei Rettori. Atti del convegno, Trieste 23-24 ottobre 1980, Giuffrè,

Milano 1981, pp. 159-166; G. SCARABELLO, “Nelle relazioni dei Rettori veneti in Terraferma, aspetti di una loro attività di mediazione tra Governati delle città suddite e Governo della Dominante”, in A. Tagliaferri (a cura di), Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei Rettori. Atti del convegno, Trieste 23-24 ottobre

1980, Giuffrè, Milano 1981, pp. 485-491; A. TAGLIAFERRI, “Ordinamento amministrativo dello Stato di

Terraferma”, in A. Tagliaferri (a cura di), Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei Rettori. Atti del

76 veneziani, al pagamento dei salari ai rappresentanti della Signoria e alla gente d’arme, al controllo delle spese fatte dai pubblici rappresentanti. Nelle città di minori dimensioni il rettore era qualificato come podestà o provveditore, a seconda che nei suoi compiti prevalesse l’aspetto civile o militare; inoltre, ciascun castello era affidato a un patrizio, che assumeva il titolo di castellano.

In determinate circostanze, i rettori ordinari potevano essere affiancati da altri rettori dotati di poteri straordinari e incaricati di risolvere situazioni delicate, soprattutto nelle sedi militarmente importanti in previsione o in presenza di guerra, oppure da altri rettori o provveditori con poteri superiori e competenze territoriali variabili, in relazione a speciali materie6; qualsiasi carica era comunque subordinata al Provveditore generale in Terraferma, le cui commissioni eccedevano limiti e vincoli a cui erano sottoposti gli altri amministratori.

Figura 6: Distribuzione dei reggimenti veneti in Terraferma

Fonte: A. TAGLIAFERRI, op. cit., p. 25

6 I confini, la sanità, la giustizia criminale, nonché le cariche necessarie a sovrintendere l’organizzazione

77 Secondo Marin Sanudo, i rappresentanti della Signoria insediati tra Terraferma e Istria nel 1509 erano circa centocinquanta e considerando anche la presenza del loro ampio seguito – vicario, cancelliere, giudici, commilitoni e impiegati in uffici minori – le popolazioni suddite potevano avere l’immagine di un governante intenzionato a togliere ai cittadini uffici e poteri, per subordinarli a estranei. Tuttavia, l’insediamento capillare di patrizi veneziani nelle città era indispensabile in quanto rispondeva alla duplice esigenza di soddisfare la domanda di uffici e guadagni da parte dei patrizi poveri, consentendo inoltre la penetrazione di prassi e costumi di governo della Repubblica da parte di persone di rango, capaci di infondere prestigio alla propria carica e alla città a cui presiedevano. “L’andare a fare i rettori in Terraferma comportava pertanto una particolare attenzione, su come presentarsi, comportarsi, rappresentare la Serenissima Signoria. […] La superiorità dei rettori veneziani doveva derivare, oltre che dalla dimostrazione di possedere un’esperienza più vasta sia di mondo che di gestione della cosa pubblica, dall’assunzione di atteggiamenti formali e di modi di vita che si intonassero alla dignità, alla ricchezza, alla potenza pacifica del Dominio di cui si era partecipi. Indossare una veste che esprimesse gravità; esser disposti ad ascoltare tutti; intervenire in ogni consiglio che si tenesse nella città. Non indulgere mai, d’altro canto, a dimestichezza eccessiva. Non andare a pranzo con cittadini fuori dal palazzo, non ricevere doni, non accettare di esser eletti membri dei consigli cittadini, o farsi proporre da essi all’attribuzione di benefici ecclesiastici7”.

È soprattutto nella commissione, o mandato, che riceveva il rettore al momento della partenza da Venezia che emerge il ruolo di governo di questa figura: nelle formule era sottolineata la preminenza del momento politico e l’indispensabile valutazione politica che doveva sempre precedere qualsiasi attività esplicata. Oltre alla fondamentale funzione giurisdizionale, i compiti dei rettori comprendevano la partecipazione a tutti i consigli cittadini, la tutela dell’ordine nella città e nel territorio, il controllo dell’andamento delle finanze, l’esecuzione delle opere pubbliche, la supervisione sulle scorte di armi, munizioni e viveri. L’autonomia loro concessa era comunque molto limitata, come dimostrato dalla fitta corrispondenza con i Capi dei Dieci, testimonianza di uno stretto contatto col potere centrale: del resto, il rettore non era un funzionario con particolari conoscenze tecniche o un esperto delle situazioni locali, che si spostava da una città all’altra per rappresentare gli interessi dello Stato, bensì un membro della classe dirigente veneziana con l’incarico di

78 rappresentare localmente l’autorità della Signoria, gestendone l’amministrazione ordinaria e vigilando su fatti e avvenimenti di cui era tenuto a riferire e in merito ai quali decideva il governo veneziano. Tuttavia, ciò non toglie che si trattasse di un incarico di grande responsabilità, fondamentale per l’equilibrio tra centro e periferia, che richiedeva in determinati contesti ambientali e storici persone con grandi capacità di governo, in grado di tenere a bada le classi cittadine, competenti in materia militare e di politica estera.

Fanfani si è interrogato sull’effettiva comprensione da parte dei rettori dei cambiamenti politici e internazionali che posero Venezia di fronte a nuovi problemi e scelte economiche, portando all’apertura della grande potenza marittima verso l’entroterra, e sul loro contributo a orientare questo nuovo corso, o quanto meno a seguirne lo sviluppo: attraverso l’analisi comparata delle relazioni presentate al Senato al termine dell’incarico, ritiene di poter individuare una certa sensibilità da parte dei rappresentanti veneziani per quanto attiene all’organizzazione dell’attività produttiva pubblica e privata. Certamente vi furono alcuni patrizi che svolsero il loro incarico in maniera superficiale, vivendolo come un inconveniente nella propria carriera politica e presentando relazioni semplicemente copiate dai loro predecessori, ma la maggior parte del materiale rispecchia uomini onesti e capaci, attenti ai problemi locali che potevano avere attinenza con il mantenimento del potere e dell’autorità della Serenissima, arrivando anche in alcuni casi a una piena comprensione degli orientamenti politico-economici e di ogni fermento innovativo nella materia militare, giudiziaria o fiscale. Ad esempio, nel Cinquecento non pochi uomini di cultura e sensibilità superiori alla media auspicavano nelle loro relazioni una più equa distribuzione del carico fiscale, non solo per alleggerire il peso gravante sulle categorie più deboli ma anche per consentire una migliore utilizzazione delle forze imprenditoriali e dei capitali disponibili per l’investimento nella Terraferma. “Fabbriche privilegiate appoggiate nella richiesta di privilegio dai rappresentanti centrali, fiere franche, che possano competere con quelle estere confinanti siano a Mantova o a Trieste, a Ferrara o a Milano, provvidenze per gli operatori della seta, relazioni per la richiesta di bonifiche nel Polesine, per il potenziamento dei porti e delle strade, prese di posizioni sui dazi all’esportazione o all’importazione, individuazione e suggerimento di norme per attirare maestranze o per privilegiare la lavorazione di prodotti diversi, rappresentano alcuni tra i tanti elementi esposti dagli osservatori di periferia che

79 trovano spesso ascolto, specie quando si tratti di indicazioni di piccoli passi e di gradualità nel mutamento di prassi economica consolidata8”.

I rettori potevano quindi diventare una sorta di anello di congiunzione tra centro e periferia, in grado di recepire le istanze politiche ed economiche emergenti nell’ambiente di Terraferma: anche Scarabello osserva, infatti, che una parte non trascurabile del contenuto delle relazioni ha per oggetto una sorta di rappresentazione al governo veneziano di situazioni contraddittorie riscontrate nella realtà socio-economica delle province suddite, nonché nell’azione amministrativa della Dominante stessa, e spesso esse servivano come supporto a proposte di interventi per il loro superamento e contenimento. Ad esempio, i rettori di Brescia si opponevano alla legge che accentrava a Venezia il commercio di alcuni manufatti di ferro, segnalando che ciò causava il progressivo abbandono del commercio, il crollo della produzione, disoccupazione ed emigrazione delle maestranze, con conseguente riduzione del gettito globale dei dazi e danno economico per il territorio e per le casse centrali veneziane. Altrettanto, i rettori denunciavano che le carenze nel meccanismo degli estimi creavano abusi da parte dei ricchi e potenti locali, i quali erano evasori di fatto e diventavano sempre più ricchi, mentre i poveri erano gravati da molte tasse. In varie epoche, molti rettori segnalarono le carenze nell’amministrazione della giustizia e la sua strumentalizzazione da parte dei potenti, che disponevano dei mezzi per intimidire e scoraggiare i loro antagonisti o manipolare la giustizia stessa.

Lo studioso vede quindi nell’azione del rettore all’interno della vita cittadina alcuni aspetti che fanno pensare alla figura del mediatore: “mediatore tra esigenze espresse dalla realtà locale e attivazione da ottenere presso la Dominante perché venga data una risposta amministrativa adeguata a tali esigenze. […] Che tipo di mediatore, comunque? Un mediatore certo fondamentalmente parziale in favore degli interessi della Dominante, ma tuttavia spesso in grado di manovrare politicamente anche a proposito di tali interessi cercando di correlarli alla visione più ravvicinata che egli ha dei termini concreti dei problemi locali. Funzioni di mediatore ancora, ma questa volta all’interno delle realtà locali, paiono connotare la figura dei rettori quando essi agiscono – o chiedono che il governo veneziano agisca – per comporre o ammorbidire i contrasti di interesse tra i vari gruppi sociali delle città suddite, tra città e territori rurali, tra comunità e comunità, tra componenti

80 interne alle comunità stesse, ecc.9”. Tuttavia, il lavoro politico di mediazione portato avanti a fronte delle numerose contraddizioni delle realtà locali era costretto al fallimento a causa dell’incapacità e impossibilità del governo centrale di dare attuazione concreta alle riforme e agli aggiustamenti dell’azione amministrativa: l’unica strada percorribile, a fronte di questa debolezza, risultava quindi il compromesso tra la necessità di mantenere strutture statuali sedimentate nel passato, punto di forza per la continuazione dello Stato, e la consapevolezza di strutture amministrative, economiche e sociali che dovevano essere modificate e superate. Ecco allora, però, che la figura del rettore iniziava a scadere verso quella del negoziatore, se non addirittura in quella dell’osservatore che assisteva impotente al logorarsi delle situazioni.

Nel documento Guerra e finanza a Venezia (1526-1530) (pagine 75-80)

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