Misure di fluorescenza a raggi X: le esigenze delle moderne linee di luce
2.1 La fluorescenza a raggi X
ignoto viene sottoposto ad un fascio di fotoni di energia nota per scoprire la sua composizione.
In questo capitolo verrà spiegato il fenomeno della fluorescenza a raggi X (X-ray fluorescence, XRF), che sta alla base delle tecniche attualmente più usate per l’analisi elementale, per poi passare alle problematiche delle linee di luce che si occupano della spettroscopia di fluorescenza nei sincrotroni delle ultime generazioni attraverso la descrizione di due linee di luce di Elettra, il sincrotrone di Trieste: TwinMic e XAFS. Sarà analizzato lo stato attuale delle due linee per quanto riguarda i rivelatori in uso e verranno presentate le principali limitazioni ad essi legate che hanno spinto alla ricerca dei nuovi SDD descritti in questa tesi.
2.1 La fluorescenza a raggi X
Benché esistano diversi modi per indurre un’emissione di raggi X da parte di un atomo, come ad esempio la tecnica PIXE (Particle Induced X-ray Emission), nella quale il campione viene bombardato con particelle cariche ad alta energia, la tecnica attualmente più usata per l’analisi elementale nei laboratori di ricerca è la fluorescenza a raggi X, nella quale l’emissione viene ottenuta irradiando il campione con una sorgente nota di raggi X.
Nel primo capitolo sono stati presentati i diversi modi nei quali i fotoni interagiscono con la materia; come già accennato nella sezione 1.1, la fluorescenza X può verificarsi a seguito di un assorbimento fotoelettrico. L’effetto fotoelettrico è di gran lunga il processo più probabile per fotoni incidenti di energia sotto alcune decine di keV, energie facilmente raggiungibili dalle sorgenti di luce di terza e quarta generazione e dai cannoni a raggi X usualmente impiegati nei laboratori di ricerca. In realtà, come già specificato nel capitolo precedente, non tutte le transazioni fotoelettriche generano fluorescenza; per elementi a basso numero atomico è anzi più probabile la generazione degli elettroni di Auger. In questa sezione verrà descritta solamente la generazione dei fotoni di fluorescenza
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trascurando la creazione degli elettroni di Auger, non rilevabili dai SDD, oggetto di studio di questa tesi.
Figura 2.1: Confronto delle probabilità di generazione dei fotoni di fluorescenza (grafico blu) rispetto agli elettroni di Auger (grafico rosso) in funzione del numero atomico dell’elemento colpito dalla radiazione incidente.
Per descrivere il fenomeno della fluorescenza è utile fornire un brevissimo ripasso sulla struttura atomica degli elementi con particolare interesse alle shell elettroniche (gusci) nelle quali gli Z elettroni orbitano attorno al nucleo di un determinato elemento. La meccanica quantistica prevede:
• l’ordinamento delle shell in una sequenza definita
• un determinato numero massimo di elettroni per ciascuna shell • un’energia caratteristica di legame per ciascuna shell.
Le shell elettroniche sono caratterizzate dal numero quantico principale n (che assume valori interi positivi crescenti; per gli atomi ad oggi conosciuti si arriva fino al valore 7) che determina sia la distanza media della shell dal nucleo sia il numero massimo degli elettroni in essa contenuti (pari a 2n2). A Barkla dobbiamo infine la loro nomenclatura: K (per la shell caratterizzata da n=1, la più vicina al nucleo), L (n=2), M (n=3) e così
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via fino alla Q. Essendo gli elettroni attratti dal nucleo positivo, le shell più esterne vengono solitamente occupate solo se tutte le shell interne sono completamente popolate da elettroni.
Ogni shell è generalmente composta da più subshells (sottogusci) che hanno tra loro energie di legame leggermente diverse. Nella spettroscopia a raggi X vengono comunemente divise con la seguente nomenclatura: la shell K non ha nessuna subshell, la shell L ha 3 subshell (LI, LII e LIII), la shell M ne ha 5 (MI, MII, MIII, MVI, MV) e così via. Tutti gli elettroni contenuti in una determinata subshell hanno la stessa energia caratteristica.
Tenendo a mente la struttura degli orbitali in un dato atomo possiamo ora procedere con la descrizione del fenomeno della fluorescenza a raggi X:
Quando un fotone del fascio primario (generato da un cannone elettronico o da una sorgente di luce avanzata) interagisce con un atomo del campione analizzato e l’energia del fotone incidente risulta maggiore dell’energia di legame degli elettroni del dato atomo (l’energia di legame è più grande nelle shell interne e diminuisce verso quelle esterne), uno degli elettroni può venire scalzato dall’atomo. Il posto vacante creato dall’elettrone scalzato deve essere “riempito” da un
elettrone proveniente da una shell superiore. Gli elettroni degli orbitali superiori hanno un’energia di legame maggiore rispetto all’elettrone scalzato proveniente da un orbitale con n più basso; per compensare la differenza dell’energia può essere emesso un fotone (flusso secondario) con un energia pari alla differenza delle energie dei due elettroni in gioco. Questa energia è tipica per ogni atomo e permette di distinguere in modo univoco la composizione elementale di un dato campione sottoposto al fascio primario.
Ogni elemento ha più energie caratteristiche, a seconda della subshell dalla quale è stato scalzato l’elettrone e dalla subshell dalla quale proviene l’elettrone che va a riempire la lacuna creata. Secondo la notazione di Siegbahn, la più usata in letteratura, le energie caratteristiche vengono indicate con il nome dell’elemento seguito dalla shell dalla quale è stato scalzato l’elettrone e da una lettera greca che indica la transizione effettuata dall’elettrone che va a coprire la lacuna creata. Ad esempio Al Kα indica l’energia del fotone che si crea quando un elettrone viene scalzato dalla shell K di un atomo di
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alluminio e la lacuna viene riempita da un elettrone della shell direttamente superiore – in questo caso la shell L. Secondo la meccanica quantistica non tutte le transizioni sono possibili (ad esempio dalla subshell LI alla K); nella figura 2.3 sono raffigurate le transizioni consentite tra le prime tre shell K, L e M, nella tabella 2.1 sono invece segnate le energie di emissione caratteristiche di alcuni elementi.
Figura 2.2: Rappresentazione schematica del fenomeno della fluorescenza a raggi X: il fotone incidente scalza un elettrone dalla shell K; la lacuna viene riempita da un’elettrone dall’orbitale LIII (transizione Kα1) e conseguentemente viene generato un fotone con l’energia caratteristica per il dato elemento. Figura tratta da [3].
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Com’è visibile dalla tabella 2.1, nei materiali a basso numero atomico le linee Kα1 e Kα2
(come anche Lα1 e Lα2) sono molto vicine tra loro e vengono considerate solitamente come un’unica linea di fluorescenza Kα.
Le transizioni più probabili sono le transizioni K (quando l’energia dei fotoni incidenti è superiore all’energia di legame degli elettroni nella shell K esse rappresentano circa l’80% delle emissioni [5]); le transizioni L vengono in genere rilevate quando i fotoni incidenti non hanno energia sufficiente a scalzare gli elettroni dalla shell K.
Elemento (Z) Kα1 Kα2 Kβ1 Lα1 Lα2 Lβ1 Li (3) 54,3 B (5) 183,3 F (9) 676,8 Mg (12) 1253,6 1253,6 1302,2 Al (13) 1486,7 1486,27 1557,45 Si (14) 1739,98 1739,38 1835,94 Mn (25) 5898,75 5887,65 6490,45 637,4 637,4 648,8 Fe (26) 6403,84 6390,84 7057,98 705,0 705,0 718,5 Cu (29) 8047,78 8027,83 8905,29 929,7 929,7 949,8
Tabella 2.1: Linee di emissione di alcuni elementi a basso numero atomico espresse in eV [4].
La fluorescenza X, rilevata dai SDD o da altri strumenti, viene classificata per energia e riprodotta in uno spettro (figura 2.4), in base al quale si stabilisce la presenza e la quantità relativa di un dato elemento nella sezione del campione sottoposta al fascio dei fotoni primari. Nello spettro sono solitamente visibili, oltre ai picchi di fluorescenza dei vari elementi, anche il picco elastico (i fotoni primari riflessi sul rivelatore), i picchi dovuti al pile-up (la somma di due o più fotoni giunti in tempi troppo ravvicinati per essere distinti tra loro) e gli escape peaks (i picchi relativi ad ogni elemento ma con un’energia inferiore, dovuta all’eccitazione del materiale nel rivelatore stesso; gli escape peaks nei SDD si trovano all’energia di fluorescenza dei materiali contenuti nel campione analizzato meno 1.74 keV – la fluorescenza del silicio).
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Figura 2.4: Spettro di un campione di tessuto umano acquisito sulla beamline TwinMic; tempo di esposizione 100 s, energia del fascio primario (picco elastico) 1450 eV [6].