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I focus group: co-costruzione del sapere e accompagnamento di processi di trasformazione

Durante la partecipazione alle riunioni tra operatrici e operatori di diversi servizi, la continua negoziazione delle azioni da intraprendere mi mostrava che nessun operatore si pone come mero riproduttore di linee guida o applicatore di normative. Tutti sono impegnati, a vari livelli, ad agire pratiche di riappropriazione e di trasformazione (Minelli, 2011, 43).

Allo stesso tempo però il loro “fare” emerge come fortemente vincolato all'interno di “recinti già dati”, da obblighi e mandati dell'istituzione, dalle condizioni lavorative, dalla mancanza di spazi collettivi di riflessione, che nel lavoro quotidiano si traducono in habitus incorporati e in pratiche disabilitanti (capitoli 3, 4 e 5).

Tale tensione tra riproduzione e trasformazione è costitutiva del lavoro di operatrici e operatori, ossia di quel lavoro che si realizza primariamente nella relazione, che ha come centro del processo di produzione l’incontro fra diversi attori in contesti specifici (1.3.3) (Merhy, 2013, 25). In questo senso, il lavoro di cura ed educativo, in quanto “evento” e “azione”, è sempre aperto a processi istituiti di controllo, sfruttamento e oppressione, così come a pratiche di trasformazione, di resistenza, dunque “istituenti” (Franco e Merhy, 2013, 2).

Se vedevo nel lavoro quotidiano di operatrici e operatori un terreno fertile per l'esplorazione di quel potenziale trasformativo costitutivo del campo micropolitico (Deleuze e Guattari, 2014, 272) e dell'azione microsociale (Lourau, 1975), non avevo modo nel contesto del mio campo di ricerca di approfondirlo.

Come osservatrice nell'ambulatorio di Sara o durante gli incontri tra operatori ero fortemente vincolata ai tempi e ai modi di funzionamento dei servizi, che spesso non mi permettevano di chiedere “troppo” sulle ragioni delle scelte e delle azioni che venivano intraprese, sulle interpretazioni dei singoli attori, sui vincoli burocratici e istituzionali, e sugli aspetti che in quei contesti venivano “dati per scontato”.

Sentivo che molto di ciò che accadeva nello spazio di tensione tra riproduzione e trasformazione mi sfuggiva, e che tale spazio non poteva essere indagato “scavalcando” coloro che lo producevano. Il rischio che correvo era infatti duplice: da un lato quello di cadere nel “fascino della resistenza” e attribuire agli operatori forme di consapevolezza che non sono parte della loro esperienza; dall'altro di svalutare le loro pratiche come irriflessive e sbagliate (Abu-Lughod, 1990, 47; Mahmood, 2005, 8).

Ero sempre più convinta infatti che non vi fosse altro modo di “prendere seriamente il punto di vista del nativo” (Viveiros de Castro, 2003, 12) (1.3) se non quello di co-costruire insieme a lui i saperi sulle proprie pratiche e contesti lavorativi.

Come agire allora nell'ambito della mia ricerca? Come potevo chiedere a operatrici e operatori di partecipare a uno spazio di riflessione di cui solo io sentivo il bisogno?

La frustrazione cresceva e, insieme a questa, anche la perdita di senso per la ricerca che stavo svolgendo (1.1).

Nell'autunno del 2014, su suggerimento di un collega sociologo, interessato alle esperienze di rivendicazione all'interno degli spazi lavorativi nell'ambito della salute mentale, e cogliendo da amici e conoscenti educatori un'insoddisfazione diffusa rispetto al senso del proprio lavoro con bambini e ragazzi disabili, ho proposto loro di “aprire” uno spazio di riflessione condivisa.

A partire da settembre 2014, con alcuni educatori58 abbiamo quindi iniziato un percorso di cinque

incontri a cadenza mensile, organizzati in forma di focus group facilitati a turno da uno dei presenti, con l'unica regola che, una volta stabilito il tema di discussione59, si dovesse partire dal racconto di

un episodio o di un'esperienza lavorativa vissuta, per poi sviluppare collettivamente l'analisi nel corso dell'incontro.

In questa seconda fase di lavoro sul campo la mia posizione come ricercatrice è cambiata e insieme a questa anche la metodologia utilizzata. Il mio ruolo infatti non era più quello di ricercatrice- osservatrice ma di ricercatrice-partecipante alla pari degli altri attori presenti. Durante i focus group portavo anche io la mia esperienza sulla base degli episodi e delle riflessioni che venivano dal mio campo di ricerca alla Neuropsichiatria. Non ero io dunque a scegliere i temi da discutere e le domande da porre.

Questa differente modalità di procedere, in forma collettiva e partecipata, ha direzionato la ricerca su temi che nella prima fase di lavoro sul campo avevo esplorato solo in maniera tangenziale, quali per esempio i modelli di presa in carico e intervento, le condizioni lavorative e contrattuali, le dinamiche di potere che caratterizzano la relazione tra operatrici e operatori, e l'impatto che questi hanno nella produzione di contesti disabilitanti (capitolo 5).

58 Il numero è variato da cinque a otto educatori/rici presenti a ogni incontro, principalmente dipendenti di cooperative sociali, che lavorano nel campo della disabilità a scuola, nei servizi domiciliari e nelle comunità. Hanno partecipato anche un'insegnante di sostegno della scuola materna e un educatore dei servizi educativi comunali di quartiere. 59 I temi di discussione sono emersi a partire dal primo incontro durante il quale ciascuno/a si è presentato/a e ha

esposto quali secondo lui/lei fossero le maggiori difficoltà nello svolgimento del proprio lavoro educativo con bambini/ragazzi disabili all'interno del contesto istituzionale di riferimento (scuola, comunità, società...). Alla fine di ogni incontro veniva poi individuato il tema/i temi di cui discutere la volta successiva. Ogni incontro è stato registrato e da me trascritto e, di volta in volta, inviato ai partecipanti. I temi discussi sono stati: le forme di organizzazione del lavoro educativo all'interno delle cooperative e dei servizi (lavoro in equipe, ruoli, compiti e mandati), la funzione della diagnosi neuropsichiatrica nel lavoro educativo, le condizioni lavorative e contrattuali, le possibilità di cambiamento (in che modo è possibile non riprodurre nel proprio lavoro pratiche dis-abilitanti).

Questo percorso è proseguito fino a febbraio 2015, quando con i partecipanti abbiamo deciso di sospenderlo. Sentivamo la necessità di “confluire” in un processo di riflessione e azione più ampio, di portata cittadina, che in quel periodo aveva preso avvio e che continua tuttora.60

In quel momento situo anche la conclusione della mia ricerca sul campo in relazione alle finalità poste dal dottorato di ricerca.

Gli esiti che questa seconda fase di ricerca ha prodotto sono ancora da verificare e si necessiterebbe di un ulteriore momento di valutazione e confronto collettivo. Un indicatore positivo si potrebbe forse individuare nel fatto che la maggior parte dei partecipanti ai focus group, me compresa, sono tuttora attivi in questo campo di riflessione e azione, attraverso la partecipazione a momenti di confronto collettivi, a reti di relazioni e contesti di mobilitazione che nei momenti di focus group hanno trovato appiglio e linfa.

Un'ultima precisazione necessita di essere fatta. In sede di scrittura ho scelto di non separare le due fasi di ricerca, quella individuale presso il servizio di NPIA e quella che mi ha vista coinvolta insieme agli educatori e alle educatrici nei focus group. Questo principalmente perché tenere distinte le due fasi avrebbe comportato una ripetizione dei contenuti affrontati. Come infatti emergerà nelle prossime pagine e nei capitoli che seguono, le questioni e le riflessioni emerse rispetto alle pratiche di (ri)produzione della disabilità infantile nel lavoro quotidiano di operatrici e operatori, sono in gran parte affini. Ciò che differenzia queste due fasi di lavoro sul campo riguarda primariamente le possibilità di trasformazione che la ricerca accademica, se viene intesa come accompagnamento di processi, può attivare e sostenere.

60 Faccio riferimento alla Rete Educatrici ed Educatori Bologna, nata a febbraio 2015 in seguito alla mobilitazione di un gruppo di educatori che ha interrotto il consiglio comunale per protestare contro l'esito di una gara di appalto (si consulti l'articolo pubblicato il 9 Febbraio 2015 su Repubblica http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/02/09/news/la_rabbia_degli_educatori_in_consiglio_basta_tagli-

106901991/ ). A questo indirizzo si può trovare il sito internet in forma di blog: http://educatoribolognainrete.blogspot.it/.

Dall'incontro di diversi soggetti individuali e collettivi a luglio 2015 è nato poi il Coordinamento delle

Lavoratrici e dei Lavoratori del Sociale, una realtà composta di educatrici ed educatori delle cooperative sociali e

comunali, assistenti sociali, mastre e maestri delle scuole dell’infanzia, operatrici e operatori dell’accoglienza e altri, con l’intento di promuovere una riflessione trasversale ai diversi servizi sul funzionamento del welfare cittadino.

Capitolo III

DALLA NEUROPSICHIATRIA …