• Non ci sono risultati.

a) Assoluta immanenza: la filosofia di Antonio Labriola

a 1. In principio la mediazione: Labriola tra Hegel e Spinoza

Prima di giungere ad un’analisi della relazione tra trascendenza e immanenza negli scritti gentiliani dedicati a Marx, è bene confrontarsi con due autori imprescindibili nello sviluppo del pensiero del filosofo gentiliano: Labriola e Croce. Per quanto riguarda il primo, cercheremo di ripercorrere le tappe essenziali nella fondazione di un’assoluta immanenza, risoluzione della trascendenza nel flusso della storicità.

Come noto, la filosofia di Labriola si origina a partire da un confronto con il pensiero hegeliano, dal quale viene ereditata l’originarietà della mediazione rispetto ad una conoscenza immediata. Nello scritto del 1863 Una risposta alla prolusione di Zeller.

Sul significato ed il problema della teoria della conoscenza, il filosofo di Cassino

difende la filosofia hegeliana da un ipotetico ritorno a Kant, propugnato dallo Zeller, cercando di porre in evidenza le irrinunciabili acquisizioni dell’idealismo assoluto. Cercherò ora di ripercorrere i passaggi fondamentali dello scritto.

Zeller respinge questa unificazione della Logica con l’Ontologia, ed agli argomenti che si mettono innanzi per sostenerla, ossia «che forma e contenuto non possono separarsi, e che le pure forme logiche non hanno validità oggettiva se in esse non si pensano le determinazioni fondamentali dell’essere, che come concetti oggettivi formano l’essenza delle cose», egli risponde «che il pensiero è l’essenza delle cose, perché questa essenza è oggetto del nostro pensare, ma non che sia pensiero in se stessa immediatamente; essa è conosciuta da noi, ma non ha in noi la sua esistenza, e non è prodotta da noi» 152.

Zeller propone una separazione tra forma logica e contenuto; il pensiero non è produttore del reale, bensì ne comprende l’essenzialità, riconoscendola, non creandola. L’atto ordina ciò che pur esiste indipendentemente dall’ordinamento medesimo. Vi è quindi uno scarto tra pensiero e realtà, essendo quest’ultima eccedente lo spirito. Si

152 A. LABRIOLA, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, a cura di L. BASILE e L.

STEARDO, postfazione di B. DE GIOVANNI, Bompiani, Milano 2014, p. 455. Per una contestualizzazione dello scritto all’interno dell’itinerario intellettuale di Labriola cfr. A. ZANARDO, Labriola contro Zeller, 1863, in «Critica marxista», 2-3, 1998, pp. 65-78.

tratta di separare la forma logica dal contenuto determinato, che pur non si risolve nella logicità. È necessario astrarre, dove però ciò da cui si astrae permane come in sé sussistente. In tal modo, viene a scindersi l’unità della logicità con la realtà stessa e la scienza viene a perdere il suo fondamento nel mondo. Del resto, non è possibile fare autentica scienza, se non riflettendo su quel qualcosa di cui il pensiero è condizione strutturale. Non vi è oggettività, e quindi realtà, se non immanentemente a ciò da cui il kantismo vorrebbe fare astrazione. La categoria logica è sempre in relazione ad un qualcosa, che della logicità è esplicazione. Astrarre significa limitare il nesso vitale del tutto, lasciare inaridire ciò che, invece, si attua in una connessione necessaria con l’intero.

Quello che importa non è, dimostrare la possibilità della logica formale, ma ricercare il valore oggettivo della forma logica. Questa ricerca quando è connessa alla teorica della conoscenza deve fornirne d’una teorica del pensiero, che ne autorizzi ad una costruzione sistematica della realtà, e quando si vuol farla storicamente, bisogna vedere come la separazione dalla forma logica dal contenuto, abbia facilitato l’investigazione scientifica, finché questa forma determinandosi successivamente è venuta ad acquistare un nuovo contenuto il contenuto ideale153.

L’astrazione è operazione preliminare, ma non sufficiente alla realizzazione della scientificità, la quale si concretizza nel darsi un contenuto (questa volta ideale), da parte della forma medesima. In tale direzione, la trascendenza (ancora presente in Zeller) tra forma e contenuto si risolve nell’unicità del processo logico e ontologico.

Concedo che anche la logica formale abbia un valore pedagogico. Ma se quella possibilità si fissa come necessità, se di quella separazione assoluta della forma dal contenuto se ne fa il perfetto concetto della logica, viene rimossa assolutamente ogni comprensione della realtà154.

Seguendo questo ragionamento, il superamento hegeliano di Kant viene considerato una conquista innegabile della storia della filosofia. Il residuo di trascendenza della filosofia kantiana (il noumeno) è ricondotto all’articolarsi del logos; l’immediato si nega nell’unità come mediazione.

A me pare, che se deve caratterizzarsi d’una maniera generale la teorica della conoscenza prima di Kant, bisogna darle il nome d’immediata. Quando la conoscenza (la realtà cosciente, lo Spirito) non fa che

153 A. LABRIOLA, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, op. cit., p. 456. 154 Ivi, p. 459.

andare, o solo dal particolare all’universale (empirismo – metodo induttivo) o solo dall’universale al particolare (intellettualismo – metodo deduttivo – e quindi l’applicazione delle categorie al contenuto indeterminato dell’intuizione, il principio d’unità e così via) lo Spirito non è che un immediato, lo Spirito non è la vera unità (la mediazione) di sé e dell’altro. L’unità d’essere e pensare, nella filosofia di quel periodo, è sempre parziale, sempre unità nella forma della differenza, unità immediata. Allora il vero merito di Kant è di aver inteso la conoscenza (lo Spirito) come risultato di due elementi, e perché questi elementi sono la conoscenza stessa, il merito di Kant è di avere inteso la conoscenza come risultato di se stessa. Il difetto di Kant è di aver inteso questo nuovo concetto della conoscenza, questo nuovo concetto dello Spirito, solo parzialmente; ma di questo parleremo più sotto155.

Se nella filosofia pre-kantiana la conoscenza è intesa come contatto immediato tra soggetto e oggetto, come il loro essere rispettivamente estrinseci l’uno all’altro, con Kant subentra il principio della mediazione, ma non come assoluta, lasciando invece emergere al proprio interno qualcosa di non veramente mediato, irriducibile al processo sintetico.

In questo modo, la posizione del giovane Labriola è analoga a quella che sarà poi l’opinione di Giovanni Gentile; se il merito di Kant è quello di aver posto un’unità non più semplicemente immediata, il suo limite consiste nel non essere stato radicalmente risoluto. In realtà, non si riconosce, nell’insistere nel superamento hegeliano di Kant, quello che può essere il merito di quest’ultimo: il cogliere, sul fondo del pensare, un qualcosa non risolto pienamente in esso, un’alterità che spinge il pensiero oltre di sé, pur rimanendo in sé. L’alterità è quel sostrato che lo spirito non può non riconoscere, se non elevandosi ad assoluto, e quindi ad atto creatore. Se è impossibile cogliere l’in sé del reale (ed oggettivamente non è possibile coglierlo, poiché per farlo dovrei persistere nel pensare), non per questo l’in sé è riconducibile totalmente al processo di sintesi. Al contrario, la mediazione è tale se lascia emergere al proprio interno quel qualcosa che si fa mediare, e il cui essere non è limitabile alla mediazione medesima. L’impossibilità di cogliere l’in sé di quel fondo oscuro non è impensabilità della sua sussistenza, affermazione della sua nullità; ciò che il pensiero non può com-prendere, ma solo indicare, è il suo stesso limite, è l’incapacità di cogliere l’essenzialità del reale, se non tradendola. Come già si è visto nel corso di questo lavoro, l’incapacità di liberarsi dalla mediazione (poiché ogni sapere è mediato, è unità nella

distinzione) non è però assolutezza della mediazione medesima, non è negazione del reale come non limitabile al processo di sintesi.

Questa sintesi si presenta nella Teorica della conoscenza dell’Hegel, come geminazione originaria della coscienza in soggetto e oggetto; e nella progressiva esperienza dei due lati, tanto più apparisce l’oggetto e sparisce il soggetto, quanto più si determinano, per finir, quello come assoluta idealità, e questo come conoscere per concetti, ossia pensiero reale. Ma la sintesi originaria è quella che vi ha di veramente nuovo in Kant, e Zeller mettendola da parte, e riducendo tutto il merito di Kant ad aver riconosciuto come duplice l’origine della conoscenza, ricade nel più empirico psicologismo quando vuol determinare il metodo della sua Teorica della conoscenza156.

Labriola riconosce qui il limite centrale dell’interpretazione kantiana di Zeller, ovvero il non essersi avveduto della centralità del processo di mediazione. In quest’ottica, la posizione del filosofo italiana è analoga a quella che, come si è visto, sarà il nodo centrale dell’interpretazione che Gentile darà (già nel Rosmini e Gioberti) della filosofia di Kant, rivoluzionaria nell’intendere il processo gnoseologico non come giustapposizione di termini, bensì come sviluppo della loro unità, intesa come originaria, per poi ricadere però nel dogmatismo della cosa in sé.

La centralità della mediazione, il suo risolvere in sé l’immediatezza, e quindi una modalità di conoscenza intuitiva e polarizzata tra soggetto e oggetto, si manifesta anche nello scritto di Labriola dedicato all’Origine e natura delle passioni secondo l’etica di

Spinoza157; il filosofo di Cassino insiste, in questo breve saggio, sull’infinità della sostanza, la quale fonda il mondo, ponendo in primo luogo se stessa. L’essere dell’esistenza è l’essere di Dio medesimo, inteso non come causa immediata, ma come attività nel proprio costituirsi. In tale direzione, nella filosofia spinoziana la divaricazione tra creatore e creatura si risolve nella processualità del divino, colto come concreto attuarsi, come incondizionato farsi. L’assoluto, ben lungi dall’essere altro dal mondo, è di quest’ultimo la verità strutturale, l’infinità che pone in essere l’esistente, e che vive interamente nella produzione dell’effetto.

La sostanza, come causa immanente delle cose, non trascende o eccede il contenuto delle cose stesse. La potenza della causalità è espressa tutta nell’effetto, e contiene in sé l’essenza di tutti i suoi prodotti. Nella

156 Ivi, p. 469. 157

Per una problematizzazione dell’analisi labriolana di Spinoza cfr. F. MIGNINI, Antonio Labriola lettore di Spinoza, L. PUNZO (a cura di), Antonio Labriola filosofo e politico, pp. 49-73. e P. CRISTOFOLINI, Labriola e Spinoza, in «Paradigmi», II, 5, 1984, pp. 271-280.

causa quindi sono contenute le condizioni primitive della natura dei suoi molteplici effetti, la causa è, in altri termini, una infinità di potenze. Sotto questo riguardo, la causa è realmente causa. Questa molteplicità di potenze sono gli attributi che nel loro complesso adeguano la totalità della sostanza. L’attributo come potenza determinata è la sostanza stessa come determinata una forma particolare. Il concetto quindi dell’attributo non si deduce, ma si ha immediatamente; è un concetto singolo che non può inferirsi da altro158.

A rigore, emerge qui un problema di non facile soluzione: se la potenza di Dio si esplica nella totalità dell’effetto, se ogni residuo di trascendenza si risolve in un’assoluta immanenza, come è possibile rendere ragione dell’esistente stesso? O Dio è ricondotto all’interezza dell’esistente, che allora si manifesta come non compreso, oppure la sostanza è, in un certo modo, eccedente l’effetto, dal quale non è interamente assorbita, ma di cui è ragione intrinseca. In altri termini: la verità del mondo non è identificabile con il mondo come dato, ed una qualche forma di trascendenza si conserva, quantomeno nella non riducibilità dell’atto al fatto. La filosofia di Spinoza, accusata ingiustamente di panteismo, si muove tra l’affermazione di un’assoluta identificazione tra potenza ed effetto, e il riconoscimento della distinzione tra natura naturans e natura naturata, che, se è vera distinzione, non può essere pieno assorbimento del primo termine nel secondo. Di questo è bene tenere conto, riferendosi all’esposizione di Labriola .

Ma Dio è la condizione positiva di tutte le cose; la sua effettività sta nell’effettuarsi. L’effetto dunque di Dio nel suo complesso è infinito, come la causa che lo produce. Il mondo in conseguenza non è un prodotto accidentale, una derivazione, una creazione di Dio, ma la sua immediata attuazione. Questa è la natura naturata, l’ordine infinito dell’universo che sta alla natura naturans, non come alla sua premessa o al suo correlativo159.

Se la natura naturans si realizza pienamente nella natura naturata, diviene non semplice mantenere una distinzione tra causa ed effetto, finendo il primo termine per identificarsi (e quindi negarsi) nel secondo. Al contrario, si tratta di comprendere come la potenza dell’atto, per poter essere tale, non può essere delimitata alla totalità dell’esistente nei modi finiti e infiniti, se non a costo di eludere la richiesta del Fondamento (poiché l’identificazione tra causa ed effetto equivale alla loro indistinzione). Se la potenza degli infiniti attributi si esplica immediatamente nella

158 A. LABRIOLA, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, op. cit., p. 490. 159 Ivi, p. 493.

totalità, intesa come ordo idearum o ordo rerum, essa non può essere assorbita dall’insieme infinito di ciò che appare, se non a costo di smarrire la consistenza del mondo medesimo, privato del proprio sostrato. In altri termini: se il fondamento si risolvesse interamente nel fondato (in primo luogo nei modi infiniti immediati) finirebbe per togliersi come fondamento, lasciando il mondo non spiegato.

Se il principale merito di Spinoza consiste nel superamento della trascendenza e nella sua risoluzione nell’immanenza (con le difficoltà che questo comporta, come si è visto), ad essere centrale, nella ricostruzione di Labriola, è anche la nozione di spirito.

Quella energia che è propria di tutte le cose e che è contenuta nella loro stessa determinazione di cose particolari, è propria anche dello spirito. Lo spirito è anch’esso un modo particolare di un attributo di Dio, è un modo del pensiero. Lo spirito come modo si sforza di esistere o di esistere senza termine finito, esclude da sé tutto quello che ne disturba, ne minaccia, ne altera l’esistenza, ed in questa energia è vera attualità, vera esistenza. Il conatus dello spirito è in generale la volontà. Lo spirito è idee adeguate, e sì come l’uno che come l’altro è sempre voluntas160.

L’essere dell’uomo è determinazione degli attributi divini. Se il pensiero esprime l’essenza di Dio, in quanto infinito, lo spirito emerge come ciò che ex-siste, manifestandosi come sforzo di autoconservazione, partecipando alla tensione propria di ogni entità. In tale direzione, esso appartiene a Dio, palesando in sé la potenza dell’origine. Siamo ben distanti da quella che sarà la definizione gentiliana di spirito, come equivalente al pensiero, come fondamento trascendentale della realtà intera; esso emerge qui come la struttura del singolo, come la sua medesima esistenza. Esistenza, però, non disgiungibile dalla corporeità, anzi da intendersi proprio come idea di un corpo. Il pensiero di Labriola perviene qui ad un punto di svolta: lo spirito non è pura astrazione, ma carne che vive. L’uomo che esiste si trova calato in una molteplicità di relazioni, affetto dalle passioni, delle quali è necessario formarsi un’idea il più possibile chiara, con la finalità di non vivere sotto il loro dominio. Scrive Labriola:

ma lo spirito umano non sta da sé come modo del pensiero, anzi non esiste realmente che come idea del corpo umano. In quanto è idea del corpo vive in una intima relazione col corpo, le affezioni di quello divengono in esso rappresentazioni, cioè affetti, quello che il corpo patisce, cioè le affezioni passive del corpo, divengono in esso passioni161.

160 Ivi, p. 496. 161 Ibidem.

Il passo è non privo di problemi, in un’ottica esegetica: l’affermazione della necessaria correlazione tra spirito e corpo non tiene sufficientemente conto dell’irriducibilità, nella prospettiva spinoziana, dei modi di un attributo a quelli di un altro. Scrive Filippo Mignini:

lo spirito – ossia la spinoziana mente – sta da sé come modo del pensiero nell’attributo del pensiero, non ricevendo alcuna realtà di esistenza dall’esistenza attuale di un corpo, che sta da sé, come modo dell’estensione, nell’attributo dell’estensione. Lo star da sé di mente e corpo significa semplicemente che ciascun modo trova nel rispettivo attributo la causa necessaria e sufficiente della sua reale esistenza. Infatti, tra l’attributo del pensiero e quello dell’estensione, si dà una differenza reale, non v’è nulla in comune e nulla in comune può esservi tra i loro modi. Dunque, poiché il non ente non può essere causa dell’ente, nessun modo di un attributo può essere causa del modo di un altro attributo, né di alcuna sua affezione 162.

Porre lo spirito come esistente solo in riferimento alla corporeità significa farlo dipendere da quest’ultima, misconoscendo l’indipendenza dell’attributo del pensiero dall’estensione. L’unità sostanziale tra mente e corpo ci conduce all’affermazione della loro identità nella sostanza, ma in egual misura si palesa come rifiuto della loro relazione; in realtà, infatti, la mens non vive nel contatto con la dimensione fisica, e ancor meno dipende da questa, ma si presenta come in sé stante, cioè dipendente unicamente dalla propria natura. Il filosofo di Cassino attribuisce qui al pensatore olandese una prospettiva teorica che sarà in realtà la sua, ovvero quella stretta connessione tra dimensione psichica e sostrato naturale, che invece non viene affatto posta da Spinoza.

In questa centralità delle passioni, emergente dall’Etica di Spinoza, Labriola intende riportare l’uomo alla dimensione conflittuale che gli è costitutiva, come ente che vive e patisce, nello sforzo di liberazione da uno stato di pura passività. In questa insistenza sul concetto di corporeità, il filosofo italiano si cala in quella piena risoluzione nell’immanenza e nelle impurità della storia, che sarà il cuore del pensiero successivo.

a2 Filosofia dell’impuro

Lo scritto La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele è finalizzato a rappresentare il filosofo greco come calato nella storicità, nella volontà di un ricerca etica non riducibile ad astratta teoresi.

Rassegnandosi alla voce della coscienza, e scovrendo così il valore vero dell’uomo nell’intimità dell’animo, egli non cercava di compiere un atto di astrazione teoretica, né andava all’esigenza di una perfezione assoluta. Il suo bisogno di consapevolezza non lo menò mai alla negazione delle forme concrete della vita etica, e la quiete interna dell’animo, che in lui risultava dalle abitudini temperate e dal continuo esame di sé medesimo, fu ricca degli impulsi pratici più vivi ed efficaci163.

L’eticità di Socrate è radicata non in una distaccata attività contemplativa, bensì nella complessità del reale, nelle impurità della vita associata. Non vi è perfezione assoluta da raggiungere, ma un anelito a perfezionarsi, nel costruire e ricostruire la propria esistenza: filosofia dell’uomo, non come schema ideale o spirito disincarnato, ma come esigenza di moralità in un universo che non contempla ideali trascendenti, ma solo la necessità di trasformarsi attraverso le fatiche dell’esistenza.

Il suo discorso cadea sopra oggetti disparatissimi; e quali l’occasione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea disporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronunziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne più tardi, le relazioni morali nell’astratta universalità della massima, o formulare nettamente una esigenza logica […] In Socrate l’esigenza del sapere esatto e formalmente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza, e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un lavoro che si compie per la necessaria coefficienza dei varii elementi etici della coltura e della tradizione, e non può presentarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza164.

L’energia di Socrate non consiste nella fondazione di un formalismo logico, ma in quel bisogno umano di moralità, non potendo fare astrazione dal contesto nel quale l’individualità si trova immersa. Il pensiero di Labriola sviluppa qui le linee fondamentali già presenti nello scritto dedicato a Spinoza, dove lo spirito veniva colto

163 A. LABRIOLA, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, op. cit., p. 555. 164 Ivi, pp. 573-574.

come ancorato alla corporeità, alla dimensione della carne, nella risoluzione di ogni residuo di trascendenza nell’immanente auto-esplicarsi dell’individualità. Troviamo qui

Documenti correlati