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TRASCENDENZA NELL'IMMANENZA. FONDAZIONE DEL DIVENIRE NEL GIOVANE GENTILE E NELLA FILOSOFIA ITALIANA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

TESI DI LAUREA

TRASCENDENZA NELL’IMMANENZA.

FONDAZIONE DEL DIVENIRE NEL GIOVANE GENTILE E

NELLA FILOSOFIA ITALIANA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

CANDIDATO RELATORE

Mirko Dolfi Prof.ssa Simonetta Bassi

CONTRORELATORE Prof. Alfonso Maurizio Iacono

(2)

INDICE

INTRODUZIONE 1

I. CRITICA ALL’INTUITO 8

a Trascendenza e immanenza nell’analisi del Rosmini

a1 La riscoperta del kantismo nel Galluppi

a2 Il sentimento fondamentale nel Rosmini e il superamento dell’intuito 15

b Intuito e atto creatore nel sistema di Gioberti 26

b1 Il dibattito sulla storiografia dell’idealismo

b2 Tra trascendenza e immanenza 30

b3 Intuito e riflessione 35

b4 Il principio della mediazione 41

b5 La polemica tra Rosmini e Gioberti 46

b6 L’accusa di panteismo e l’apertura per un nuovo senso di trascendenza 53

b7 Il concetto di creazione e la relazione tra finito e infinito 57

b8 La sintesi tra soggettività e oggettività e il superamento della disputa tra

Rosmini e Gioberti 66

Appendice

Contro Gentile: gli studi rosminiani di Carabellese 73

II. FONDAZIONE DELLA PRAXIS: IL CONFRONTO CON MARX 78

a Assoluta immanenza: la filosofia di Antonio Labriola

a1 In principio la mediazione: Labriola tra Hegel e Spinoza

a2 Filosofia dell’impuro 85

(3)

a4 Il senso della storicità 101

a5 L’incontro con Marx: scientificità del materialismo storico e negazione

dell’utopismo 106

b Gli esordi di Croce: la storia come conoscenza individuale e destrutturazione del

marxismo 117

b1 La storia ricondotta al principio dell’arte e la separazione tra concetti e fatti

b2 Critica alla filosofia della storia 127

b3 Superamento del materialismo storico: il confronto con Labriola 129

c Spiritualizzazione della prassi e superamento del materialismo storico: Gentile,

Marx e gli esiti futuri dell’attualismo 138

c1 Assolutizzazione del relativo: il materialismo storico come filosofia della storia

c2 La fondazione del divenire assoluto 148

c3 Il materialismo storico come deviazione dell’hegelismo 155

c4 Apertura d un nuovo senso del trascendente e religiosità dell’attualismo 158

c5 Oltre Gentile: tra umanismo e anti-umanismo 161

CONCLUSIONI 164

(4)

INTRODUZIONE

I.

Nel 1994, nel saggio Gentile ritrovato? Note sui più recenti studi gentiliani1, Massimo Ferrari si pone come obiettivo quello di ricostruire il dibattito intorno alla rinascita degli studi attualistici; una volta superata quella che Gennaro Sasso ha felicemente definito la «rimozione di Gentile» e avendo problematizzato l’idea di un provincialismo filosofico, o, addirittura, il luogo comune di una «dittatura dell’idealismo» tra le due guerre2, si trattava (e si tratta) di guardare alla più importante stagione filosofica del Novecento italiano, avendo guadagnato una maggiore distanza critica. Acquisizione di un distacco che si rivela necessario alla comprensione dell’intera vicenda italiana, che dell’attualismo reca in sé un’impronta indelebile; e non si tratta, sia ben chiaro, di un’influenza meramente culturale, e ancor meno puramente politica, ma del sedimentarsi dei principali nodi teoretici affrontati dall’idealismo gentiliano nella coscienza filosofica italiana del dopoguerra.

Una sintesi tra gli studi più importanti dell’ultimo trentennio ci porta al pieno riconoscimento della riflessione gentiliana come saldamente ancorata nella tradizione nazionale (ben ricostruita e documentata da Garin), ma anche all’inserimento delle tematiche affrontate dal pensatore siciliano in un dibattito che trascende gli angusti confini nazionali, coinvolgendo la radice dell’Occidente intero. Come ha osservato Natoli, la presa di coscienza di Gentile come «filosofo europeo» non significa «essere noto in Europa, bensì appartenere a pieno titolo a quella temperie spirituale che sul piano spirituale si definisce come uscita dalla soggettività e sul piano storico-politico come «crisi di civiltà»3

Secondo Garin, «attraverso Gentile la cultura italiana sperimentò in forme proprie e originali la crisi profonda del pensiero europeo tra Ottocento e Novecento»4; è attraverso l’attualismo che il dibattito filosofico italiano giunge a rigorizzare la coscienza del tramonto della metafisica tradizionale, ma anche dell’insieme dei valori

1

M. FERRARI, Gentile ritrovato? Note sui più recenti studi gentiliani, in «Giornale critico della filosofia italiana», maggio-dicembre 1994, pp. 489-528.

2 Su questo cfr. E. GARIN, Agonia e morte dell’idealismo italiano, in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 3-29.

3 S. NATOLI, Transiti della modernità, in M. I. GAETA (a cura di), Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l’organizzazione della cultura, Marsilio, Venezia 1995, p. 36.

4 E. GARIN, Introduzione a G. GENTILE, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Garzanti, Milano 1991,

(5)

fondamentali che sulla metafisica si fondano. Tutto ciò avviene nel pervenire alla negazione dell’alterità, come pre-supposto rispetto all’articolarsi del pensiero; non vi è Assoluto altro, ma, invece, identificazione dell’Io, nel proprio mediarsi con l’Assoluto stesso.

In questo modo, la filosofia gentiliana è massima radicalizzazione della tradizione metafisica, e insieme la sua estinzione; concordo con Garin, nel vedere nella riflessione del pensatore siciliano la «richiesta di un nuovo cominciamento, che mentre faceva tesoro di tutta la tradizione hegeliana, di destra come di sinistra, anche la rifiutava, per una nuova filosofia dell’esperienza pura che, senza essere positivismo, poteva proclamare che «nessun positivismo fu mai tanto positivo quanto questo idealismo della pura esperienza»5 . Gentile è un punto di non ritorno, è il culmine di ciò che estingue, è alba e tramonto. Su questo ha insistito Del Noce6, nello scorgere nell’attualismo la radicalizzazione di un assoluto immanentismo, già costituitosi nella fase giovanile dall’incontro tra gli studi sul risorgimento italiano e una prassi liberata dai residui materialistici. E sarà quest’incontro a sfociare nell’adesione al fascismo, come momento in continuità rispetto alla rivoluzione risorgimentale. Se il limite di Del Noce è quello di aver insistito sull’esposizione della filosofia gentiliana come un blocco compatto7, esagerando l’importanza di Gioberti e Marx per Gentile (considerati entrambi come momenti essenziali all’interno del processo di superamento dell’hegelismo), il suo pregio consiste nel mettere in evidenza la radicalità del pensiero gentiliano, come risoluzione della trascendenza nell’immanente procedere dello spirito, connotato in senso religioso.

A contribuire in modo imprescindibile alla piena acquisizione di Gentile come pensatore non provinciale è il bel libro di Natoli Giovanni Gentile filosofo europeo8; l’autore sottolinea il trapasso essenziale alla riflessione gentiliana, il suo oscillare tra assolutizzazione del soggetto e il suo dileguare, andando a stabilire con rigore (ma anche accentuandola) una vicinanza tra Gentile e Heidegger. Su questo saggio ci soffermeremo nel corso del nostro lavoro, proprio nel tentativo di stabilire come dall’esaltazione massima della soggettività sia possibile passare al suo superamento,

5 E. GARIN, Introduzione a G. GENTILE, Opere complete, op. ci.t., p. 73.

6 A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, il

Mulino, Bologna 1990.

7 M. FERRARI, Gentile ritrovato?, art. cit., pp. 494-495.

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riconducendola ad un orizzonte più originario. Ad ogni modo, è bene anche evidenziare la lontananza tra le riflessioni heideggeriane e quelle gentiliane, se intendiamo le prime come strettamente legate alla fondazione dell’Evento originario, e articolandosi invece le seconde nell’assolutizzazione della prassi, nella celebrazione del momento auto-creativo dell’autocoscienza9. Ed è questo un punto sul quale non si insisterà mai abbastanza: la coscienza gentiliana non si configura come sfondo trascendentale per l’apparire del mondo, bensì come produzione dello stesso, come acquisizione della libertà assoluta nella dimensione di una prassi incondizionata. È questa, nella sua radicalità, la profonda intuizione del pensatore siciliano: il suo cogliere il reale come

farsi assoluto, come innegabile e insuperabile divenire. Ecco la grandezza, e insieme il

profondo limite, dell’attualismo.

L’assolutizzazione del divenire (ovvero il concepirlo come realtà ultima) è la specificità della filosofia gentiliana, la ragione fondamentale del suo portare ad esaurimento l’essenza della riflessione occidentale. É a partire da qui, come ha ben osservato Severino, che Gentile può suggerire qualcosa a tutti noi, ovvero l’impossibilità di concepire un qualcosa che sia sottratto all’articolarsi della mediazione universale, riducendo l’eterno al proprio auto-esplicarsi. E così si compie il tramonto della cultura dell’Occidente, il superamento di un Dio che possa emergere come limite e principio regolatore del divenire stesso. Scrive Severino: « è impossibile che il pensiero, inteso come esperienza autentica, giunga a fondare l’esistenza di una realtà immutabile che, esistendo, implicherebbe la negazione dell’innegabile sviluppo del pensiero»10. In realtà, si potrebbe rovesciare il discorso e chiedersi se la negazione di un qualcosa irriducibile al divenire, di un’immediatezza che si medii, non riveli l’impossibilità di fondare il divenire stesso; e su questo cercheremo di insistere nel corso del nostro lavoro,

Una volta stabilito ciò, mostrata l’esigenza fondamentale del pensatore siciliano, si tratta di scorgere se la finalità gentiliana regga ad un’analisi strettamente teoretica. Per comprendere ciò, non è più sufficiente fermarsi ad un inquadramento esteriore del sistema, che rischia di sfociare in un eccesso di schematicità, ma si tratta di addentrarsi

9 B. DE GIOVANNI, Etica e religione in Giovanni Gentile, in M. CILIBERTO (a cura di), Croce e Gentile tra tradizione nazionale e filosofia europea, Editori riuniti, Roma 1993, pp. 209-242.

10 E. SEVERINO, Attualismo e storia dell’Occidente, Introduzione a G. GENTILE, L’attualismo,

Bompiani, Milano 2014, pp. 9-69, p. 20. Per quanto riguarda la fondazione del divenire nell’attualismo gentiliano si veda A. NEGRI, L’inquietudine del divenire. Giovanni Gentile, Le lettere, Firenze 1992. Dello stesso autore cfr. anche ID., Giovanni Gentile. Senso e costruzione dell’attualismo, vol. I, Firenze 1975.

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nei nodi cruciali della riflessione gentiliana, cercando di coglierne la problematicità interna. Gli studi gentiliani di Gennaro Sasso11 si contraddistinguono proprio per questa propensione a scontrarsi con le aporeticità immanenti al sistema di Gentile, mostrandone i limiti strutturali intrinseci, oltre, ovviamente, alle infinite potenzialità. Nel fare ciò, addentrandoci nel sistema, emerge come lo scopo eminente del lavoro gentiliano finisca per sfociare in un fallimento. Questo consiste, come si vedrà, nel capovolgere il configurarsi della mediazione universale nella ripetizione di un’identità, in sé assolutamente statica; in questo modo, l’interpretazione severiniana della filosofia di Gentile come fondazione dell’assoluto divenire si mostra manchevole nel non esplicitare le rilevanti difficoltà interne a questo tentativo.

Nel presentarsi come filosofia del divenire assoluto (in sé non giustificato), la riflessione gentiliana si manifesta nell’essere fondazione di un’assoluta immanenza: ogni esteriorità è tolta nell’articolarsi dello spirito. Eppure, questo punto cruciale rischia di non essere a sufficienza compreso, se non si evidenzia come, nella giustificazione dell’immanente, si radichi l’apertura ad un senso nuovo del trascendente. In sintesi: l’articolarsi dello spirito come eccedente ogni immediatezza (come negazione dei poli astratti soggetto e oggetto) è il suo ri-convertirsi nell’essere trascendente: non più come oggettualità esterna, bensì come irriducibilità dell’atto al fatto. Ed è questa una peculiarità dell’attualismo gentiliano, il suo voler tenere insieme trascendenza e immanenza, Dio e mondo: peculiarità a partire dalla quale possono essere compresi i principali tentativi di superamento dell’attualismo. È proprio il nodo della processualità assoluta, come piena identità di immanenza e trascendenza, di pensiero ed essere, a dover essere problematizzato fino in fondo, spingendosi oltre l’assoluta originarietà dell’Io.

La riflessione italiana degli ultimi anni, in alcune delle sue punte più alte, ha tentato di mettere in discussione quella centralità della Persona e dell’autocoscienza che è ancora al cuore della riflessione gentiliana. Nel tentare di fondare una filosofia dell’impersonale, Roberto Esposito12, si è posto come finalità quella di radicare

11Per quanto riguarda gli studi di Sasso, si vedano i rigorosi saggi contenuti in G. SASSO, Filosofia e idealismo II. Giovanni Gentile, Biblipolis, Napoli 1995. Si veda inoltre: G. SASSO, Le due Italie di Giovanni gentile. il Mulino, Bologna 1998.

12R. ESPOSITO, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010. Si

veda inoltre ID., Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Biblioteca Einaudi, Torino 2007. Per quanto riguarda la tematica dell’impersonale, cfr. anche L. BAZZIGALUPO (a cura di), Impersonale. In dialogo con Roberto Esposito, Mimesis, Milano-Udine 2008.

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l’affermazione del soggetto in quella che è la materia vitale. Non più priorità della persona, bensì il suo rovesciamento, il suo aprirsi a partire dalla formazione corporea. E il raggiungimento di questa proposta speculativa passa anche da Gentile come momento in cui la Persona emerge come ab-solutus; si tratta, al contrario, di procedere ri-tornando, recuperando quella de-centralizzazione del soggetto che è il fulcro del pensiero di Giordano Bruno: rifondare l’infinità come Vita, come elemento magmatico permanente e irremovibile. Se il merito di Esposito consiste nell’affermazione di un

quid irriducibile al pensiero, il suo limite emerge nel de-finire ciò come Vita, ovvero

come un qualcosa che, a sua volta, richiede di essere spiegato. La priorità della corporeità, dell’impersonale, è spiegabile a partire da quell’apertura in grado di accogliere il corpo stesso, l’evento che è anche evento della vita.

In questa direzione, il pensiero, che nell’ottica gentiliana si configura come intero, si apre all’Essere che lo inonda, pur non risolvendosi in esso. L’essere è così essere-del-pensiero, ovvero il permanere del differenziarsi, l’orizzonte in cui l’autocoscienza emerge, e a partire dal quale essa può operare. In questa prospettiva, si giunge alla ri-affermazione del primato dell’Essere sulla persona, riconoscendo il soggetto come radicato nell’accadere del mondo, che è accadere anche della coscienza13. Tutto ciò, sia ben chiaro, tenendo conto di quelli che sono i principali meriti della stagione attualistica, ovvero l’avvedersi che ogni com-prensione è sempre a partire dalla soggettività. È l’io che conosce, e che può porre la propria non-priorità, riconoscendosi nell’Essere, di cui è parte. Ed ecco che la filosofia gentiliana, una volta mostrata nelle proprie problematiche interne, si supera nella dichiarazione del fallimento dell’assoluto umanismo.

II.

In questo lavoro mi concentrerò, in particolare, sulla fase giovanile della riflessione gentiliana, analizzando la tesi di laurea su Rosmini e Gioberti, e i due saggi raccolti ne La filosofia di Marx. Il discorso gentiliano verrà esaminato in relazione al dibattito in Italia tra Ottocento e Novecento, collocandolo così nel confluire di linee di pensiero differenti. Si tratta di comprendere come il pensiero di Gentile accolga in sè elementi differenti, indirizzati però ad una riaffermazione dell’idealismo, sulla scia di

13

Per quanto riguarda l’affermazione della priorità dell’Essere sul pensiero, si veda V. VITIELLO, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, edizioni Ets, Pisa 2009.

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Spaventa e Jaja. Il superamento dell’alterità, come momento essenziale dell’attualismo, è anche il suo fondamentale principio ermeneutico ed esegetico. Nel comprendere un testo altro, nel ripensarlo, si tratta di lasciare emergere ciò che in esso vi è di profondamente vero (riconducibile, di fatto, all’idealismo), abbandonando i residui dogmatici.

E così, nel ripercorrere, all’interno del Rosmini e Gioberti, le tappe della filosofia risorgimentale italiana, Gentile evidenzia ciò che nei due autori vi è di autenticamente vivo, separandolo da ciò che rischia di incarnare un residuale scolasticismo. La dottrina dell’intuito, come opposizione di soggetto e oggetto, viene ricondotta ad un’unità fondamentale, mediazione di ogni im-mediatezza. Nella filosofia rosminiana tale unità si presenta come sentimento fondamentale, mentre nell’elaborazione giobertiana ad emergere è la riflessione ontologica, da intendersi come superamento della riflessione psicologica e dell’intuito medesimo: il soggetto separato dall’oggetto e l’oggetto dal soggetto sono ricondotti alla mediazione dello spirito, al divenire come superamento della trascendenza astratta. Partendo da qui, si cercherà di ricostruire la polemica tra Rosmini e Gioberti, ricompresi in una sintesi superiore, in un’idealità che si fa realtà, e in un reale che, a sua volta, è idealizzato. Tutto ciò conduce Gentile ad una fondazione del divino, non più come astrattamente separato dal mondo, bensì come il proprio auto-prodursi. Si vedrà come, specialmente nella filosofia giobertiana, ad essere centrale sia la tensione tra conservazione della trascendenza in un senso tradizionale e il superamento della distanza tra Assoluto e realtà, vendendo questa a concretizzarsi come il de-terminarsi del divino stesso. Se Gentile insiste nel sottolineare la componente immanentistica, relegando l’altra nella sfera di un dogmatismo residuale, in egual misura si potrebbe ricavare dalla prima l’imprescindibilità di una priorità dell’essere sulla riflessione che viene a riprodurla, un’oggettività del riflettere, non totalmente riconducibile a quest’ultimo. Il problema di Gioberti è quello di rappresentare ancora tale eccedenza nei termini di un’opposizione intuitiva, mentre si tratterebbe di cogliere l’essere come la presenza del pensare stesso, come l’originarietà dell’atto, non come oggetto trascendente di un soggetto, ma come identità irriducibile alla differenziazione tra soggettività e oggettività.

Se la finalità del Rosmini e Gioberti è quello di fondare un nuovo senso del divino, da intendersi come crearsi del reale, nei saggi raccolti ne La filosofia di Marx, Gentile perviene alla fondazione della prassi, come auto-esplicarsi del tutto. Prima di

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esaminare internamente le aporie immanenti alla fondazione gentiliana del divenire come divenire assoluto, verrà analizzato il cammino di Labriola e Croce, nella direzione di una reinterpretazione del pensiero di Marx e della filosofia della storia. Se Labriola si rivolge alla fondazione di un’assoluta immanenza, risolvendo il piano ideale nell’articolarsi delle condizioni fattuali e materiali, il giovane Croce è ancora legato ad una separazione (dal maestro considerata scolastica) tra concetti e fatti, tra universale e individuale, negando la loro risoluzione in una sistematica filosofia della storia (da Labriola invece difesa, se pur non come una visione deduttiva assolutamente aprioristica).

Come si vedrà dettagliatamente, Gentile cercherà di superare sia la posizione labriolana, che quella crociana: da un lato, immettendo i fatti nel divenire dello spirito, dall’altro superando la dicotomia tra concetti e individualità, nella fondazione dell’unitarietà della processualità. A partire da qui, il pensatore siciliano giunge ad una spiritualizzazione della dimensione prassica, rovesciando la prassi materialistica.

Ci concentreremo sulle diverse interpretazioni riguardo alla centralità degli studi su Marx per la formazione del giovane Gentile: se per Del Noce (ma anche per Natoli), attraverso Marx il filosofo siciliano si spinge oltre la tradizione hegeliana, Sasso insiste sulla tesi del marxismo come degenerazione rispetto all’hegelismo, sua deviazione fondamentale. Ed è questa posizione ad apparire maggiormente fondata, riferendosi a quelle che sono le aporie che Gentile coglie all’interno della filosofia: il confondere il relativo con l’assoluto, indicando un divenire della materia (ovvero di ciò che, a rigore, non può divenire).

Ad ogni modo, ciò che emerge dagli studi giovanili del giovane Gentile è la fondazione del divenire come assoluto, il configurarsi come negazione di ogni immediatezza: e nell’essere identico al pensiero, essendo anzi l’Io, nel proprio articolarsi, il pensiero gentiliano si concretizza come la massima esaltazione della Persona, come legittimazione della priorità dell’autocoscienza sul mondo intero. Concluderemo così il nostro lavoro con un breve confronto tra Gentile e Lettera

sull’umanismo di Heidegger, indicando la possibilità di ricondurre lo spirito ad un

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CAPITOLO I CRITICA ALL’INTUITO

a) Trascendenza e immanenza nell’analisi del Rosmini

a 1 La riscoperta del kantismo nel Galluppi

La trattazione de il Rosmini e Gioberti si colloca all’interno del processo, già ben avviato, di consolidamento degli studi idealistici. Consolidamento che viene a coincidere con il decadimento progressivo delle correnti positiviste e delle inevitabili implicazioni materialistiche. Il recupero della tradizione kantiana ed hegeliana in Italia scaturisce dalla volontà di riaffermare la realtà e libertà della spiritualità, di contro ad una riduzione del mondo e dei processi gnoseologici a puro meccanismo. È su questo fertile terreno che viene a germogliare la filosofia di Gentile, il quale si affaccia su sistemi ancora da esplorare nella loro pienezza, ma includenti in sé quello che è il fulcro del pensiero attualista: il risolversi della realtà nello spirito. Non spirito opposto alla materia, come una visione ingenuamente platonica potrebbe indurci a pensare, bensì spirito che riduce a sé ogni opposizione, ponendosi nella propria radicale intrascendibilità e quindi immanenza, soggetto che sorge non opponendosi ad un’astratta oggettualità, ma soggetto che è quella stessa oggettualità. Insegnamento fondamentale e irrinunciabile dell’idealismo è, agli occhi di Gentile, l’affermazione della non-trascendenza dell’essere rispetto al pensare. Il pensiero è la negazione dell’alterità di ciò che è, è il riconoscere l’opposto come l’identico. Superare la coscienza, ponendo un’immaginaria realtà oltre di essa, è autocontraddirsi, poiché non è concepibile alcun oltre che non sia già immanente allo spirito.

L’intero è il pensare stesso, non oltrepassato da alcunché, essendo quello stesso oltrepassare. La vera realtà (to ontos on in un linguaggio platonico, Wirklicheit in quello hegeliano) è l’intellegibilità, coincidente con ciò che propriamente è: non aletheia trascendente rispetto alla mera doxa, bensì verità che riconosce la nullità di ciò che è posto come altro da essa. Tale è l’essenza della dottrina idealista, già ben presente al giovane Gentile, allievo diretto di Jaja e indiretto di Spaventa. Ed è a partire da questo punto di vista, che pretende per sé l’universalità (negandosi quindi come punto di vista), che il Nostro analizza criticamente i sistemi dei suoi predecessori ottocenteschi,

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scovandone i limiti e anche i pregi strutturali.

Grande merito nella riscoperta del kantismo lo ha il Galluppi; egli, ponendosi come antagonista del pensatore tedesco, finisce per esserne il fautore della riscoperta nella penisola. Vi è differenza tra la percezione che un pensatore ha del proprio sistema, e la verità razionale dello stesso; assunto questo che si rivelerà fondamentale per poter comprendere l’interpretazione gentiliana di Rosmini. Scrive Gentile a proposito di Galluppi:

(egli), mentre rifiuta la sintesi a priori di Kant, subisce così profondamente l’influsso del lungo insistente studio che ne fa, e del tenace ripensamento della dottrina criticata, che accetta pur lui la sua sintesi a priori e si distacca per tal modo definitivamente dal sensismo14.

Già Spaventa aveva insistito sul kantismo immanente al pensiero di Galluppi. Scriveva l’autore nel 1862:

(Galluppi) è kantista; è kantista quasi senza saperlo, quasi suo malgrado, per una forza superiore alla sua volontà. Egli dice: sensibilità interna (la coscienza) e sensibilità esterna; e su questa doppia base che, come base, è una sola, edifica tutto l’edifizio del sapere […] Galluppi non s’accorge che la sua sensibilità è tale solo di nome, e che quella sostanzialità dell’Io e del Non Io è tutt’altro che percezione, e non è altro che il contenuto necessario e originario della coscienza di sé (Kant e Fichte), cioè il puro conoscere: quel conoscere, che Galluppi vuol combattere col suo realismo fondato nella percezione 15.

Galluppi, tentando un superamento del pensiero kantiano, mostra di averne imparato la lezione. La sensibilità, agli occhi di Spaventa, non è che un flatus vocis, una maschera di quella che è produttività dell’attività coscienziale. L’originarietà è del conoscere, non conoscenza di una realtà trascendente, bensì conoscenza che è la realtà stessa. Questo si configura come il cuore del sistema kantiano, recepito dal filosofo di Tropea. Il seguente passo rende più chiara la posizione di Spaventa:

egli dice: «la coscienza di qualunque sensazione è inseparabile dalla coscienza del me». Ciò è vero, ma questa coscienza, e in generale la coscienza non è senso interno, e Galluppi stesso la distingue dalla sensazione come tale: essa è intelletto, o senso divenuto intelletto.

14

G. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Saggio storico sulla filosofia italiana del risorgimento, Sansoni, Firenze 1955, p. 55.

15

B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, in B. SPAVENTA, Opere, a cura di F. VALAGUSSA, postfazione di V. VITIELLO, Bompiani, Milano 2009, pp. 1308-1309.

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Come va, dunque, che Galluppi chiama la coscienza anche sensibilità interna? Ammesso che la coscienza della sensazione sia inseparabile dalla autocoscienza, ne segue forse che la stessa sensazione sia questa autocoscienza? La sensazione come tale non è coscienza; cioè la coscienza non è sensibilità. Qui dunque Galluppi si sbaglia, e si contraddice. Si contraddice, perché, se la coscienza è la stessa sensibilità interna, coscienza e sensazione devono essere la stessa cosa. Se la sensazione è distinta dalla coscienza della sensazione, e la coscienza è sensibilità, cioè sensazione, dobbiamo avere una sensazione della sensazione. Ma la così detta sensazione della sensazione non è sensazione (è intelletto), e Galluppi sbaglia tenendola per tale16.

Galluppi non scorge nitidamente il risolversi della sensibilità nella coscienza. Ponendo questa come senso interno, pretende di distanziarsi dalla logica apriorista kantiana, finendo in realtà per accoglierne l’insegnamento. La sensazione interna è non sensazione, è piuttosto intelletto nel proprio dispiegarsi, nell’essere fondamento della realtà intera. Principio questo intravisto da Galluppi nell’affermare l’inseparabilità della coscienza dal Me, dalla conoscenza del qualcosa. E inseparabilità, nell’interpretazione di Spaventa (e così sarà anche per Gentile) è affermazione dell’identità. La sensibilità è pertanto coscienza nel proprio auto-porsi; l’io si costituisce come altro da sé, articolandosi vale a dire come mondo nella propria oggettività.

In altre parole, l’oggettività non appartiene alla sensazione, ma all’autocoscienza. Se Galluppi avesse ben posto mente alla sua distinzione di sensazione e coscienza della distinzione, sarebbe entrato nella buona via; avrebbe attribuito l’oggettività non alla sensazione come tale, ma alla sensazione in quanto intesa17.

L’affermazione dell’oggettività è quindi l’imporsi dell’autocoscienza, dell’attività sintetica a priori, fulcro della filosofia di Kant, e celata da Galluppi sotto il falso nome di sensibilità interna (ovvero sensibilità che è essenzialmente intelletto). La percezione dell’oggetto non è disgiungibile dalla coscienza di tale percezione: io non sentirei alcunché, se non sapessi di sentire. L’unità coscienziale si configura, se pur ancora implicitamente, come la struttura del Reale, come immanentizzazione dell’Essere. Galluppi insiste nel voler porre l’esistente come eccedente (e quindi trascendente) il pensiero, finendo in realtà per abbozzare un superamento di tale trascendenza.

16

B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, op. cit., pp. 1309-1310.

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Sulla via dell’interpretazione spaventiana si incammina anche Gentile. Si farà qui riferimento principalmente all’opera Dal Genovesi al Galluppi, di qualche anno posteriore al Rosmini e Gioberti. L’opera del filosofo di Tropea si presenta come un recupero del sistema kantiano, pretendendo di essere un superamento dello stesso. Nel tentativo di oltrepassare Kant, Galluppi ne ribadisce i principi essenziali, gettando le basi per una rinascita degli studi idealistici. Scrive Gentile:

non v’ha sentimento delle proprie modificazioni donde si possa separare quello del proprio essere; perché non si può percepire l’astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente. Il me adunque è un dato dell’esperienza, che bisogna accettare come una verità primitiva di fatto; e l’atto con cui lo si apprende è la percezione immediata […] Il semplice, adunque, il principio da cui parte il Galluppi è questa immediata coscienza di sé, che egli dice percezione o intuizione; la cui verità è fondata nell’identità dell’essere e del pensiero come in Cartesio […] Sicché la filosofia di Galluppi è un vero soggettivismo18.

Il vero soggetto, l’io, è quindi unità di ogni modificazione, orizzonte all’interno del quale viene ad emergere qualsiasi determinatio. Nonostante ciò, il soggettivismo kantiano è il bersaglio polemico del filosofo, e la sensazione la presunta via per superare tale soggettivismo.

Comincia (lo spirito) da una percezione complessa: dalla percezione del me, che percepisce il fuor di me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi che compongono l’oggetto di questa prima percezione, decompone, divide questo oggetto; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il prodotto dell’analisi e della sintesi della percezione complessa. Sicché bisogna ammettere nello spirito, oltre la facoltà della sensibilità (interna o coscienza, ed esterna), quelle dell’analisi e della sintesi19 .

Già in questo passo emerge il kantismo proprio di Galluppi. La conoscenza, che pur parrebbe originata dall’atto di sensazione, è in realtà radicata nel giudizio conoscitivo. Io percepisco l’oggetto, e non più confusamente, nel coglierlo come distinto, e quindi disgiungibile dal Me. È l’io, distinguendo ed unendo, a porre l’oggetto di conoscenza come tale. E porre come intellegibile l’oggettualità (questo è implicito nell’argomentazione gentiliana) equivale a fondare nell’intellegibilità stessa la radice del reale tout court. Supporre un oltre rispetto al conosciuto significa ampliare l’orizzonte del conoscere stesso; significa, in altri termini, ridurre quella stessa

18 G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 229. 19 Ivi, pp. 230-231.

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trascendenza (eccedenza dell’essere sul pensare) a immanenza. Ciò che è oltre, infatti, è tolto dalla propria alterità nello stesso atto di concepirlo, è ricondotto al soggetto, proprio nel voler essere ad esso opposto; pensare l’altro è negarlo nella propria estraneità, significa renderlo immanente all’attività auto-esplicativa del soggetto. In realtà, è già qui presente il principale difetto dell’attualismo: la presenza dell’essere al pensare non deve tradursi nell’assoluta identità; al contrario, come si vedrà nel corso di questo lavoro, l’essere è necessariamente presente proprio come ciò che, essendo originario, non è riducibile al pensiero stesso. L’alterità non è oggetto per il soggetto, ma fondazione della stessa medesimezza; è ciò che attraversa l’io, costituendolo, senza lasciarsi inglobare. Il pre-supporre l’identificazione tra essere e autocoscienza è possibile, considerando ovvietà proprio ciò che, in realtà, sarebbe da dimostrare; si afferma l’intrascendibilità dell’atto (non è infatti possibile spingersi oltre il pensiero), e si trasforma questa, illegittimamente, nell’assolutezza dell’attualità medesima. Ciò che è indice unicamente della nostra costituzione (il non poterci trascendere) viene posto come fondamento della realtà intera.

É ad ogni modo proprio questo presupposto in sé altamente problematico (identità di pensare ed essere, di gnoseologia ed ontologia) a non essere ancora del tutto esplicito nell’argomentazione di Galluppi. Se da un lato, infatti, il Primo viene a configurarsi come coscienza del Me nel proprio sviluppo, allo stesso tempo è il senso ad apparire come garante dell’oggettività esterna al pensare. Affermare il contrario, secondo il pensatore italiano, significa ripiombare nei limiti del soggettivismo (e quindi scetticismo, nella sua interpretazione) kantiano. La conoscenza ha sì fondamento nell’attività sintetica soggettiva, ma il compito di questa è riprodurre ciò che è in sé reale.

Ed in verità esso, il Galluppi, scrive che la stessa connessione deve essere da un lato dell’esperienza, quando si tratta di oggetti esistenti che dan luogo alla sintesi reale: e che questa sintesi «riunisce gli elementi reali di un oggetto reale; e li riunisce perché li trova realmente uniti. Così, dicendo: Io son sensitivo, riunisco al me le sensazioni: ora tanto l’io che le sensazioni sono cose reali, e realmente le sensazioni sono unite al me. Quest’unione non è dunque l’opera del mio spirito: io non posso fare altro che conoscerla distintamente. Questa sintesi copia dunque, dirò così, la realtà delle cose, ed è per ciò che io la chiamo sintesi reale 20.

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Ad essere radicata nell’attività sintetica dell’io non è quindi la realtà oggettiva, ma solo la conoscenza (e quindi la riproducibilità della realtà stessa); l’essere è quindi trascendente, l’ontologia è altro dalla gnoseologia. Eppure è lo stesso pensatore di Tropea a porre una distinzione tra sintesi ideale e reale: la prima (riguardante le categorie di identità e diversità) vero atto creatore in ambito gnoseologico, la seconda (ovvero le nozioni di causa e sostanza) riproposizione di ciò che è realmente dato. Tale distinzione, ponendo un limite essenziale alla libera azione dello spirito (per essere realmente libero dovrebbe non presupporre alcunché) perviene all’affermazione di una certa trascendenza dell’essere rispetto al pensiero. Tale il limite fondamentale di Galluppi, agli occhi di Gentile: aver posto le basi per il superamento di tale eccedenza, senza poi mantenersi fedele alle proprie convinzioni. La realtà è prodotta, ma nello stesso tempo è data, il mondo immanente alla coscienza, ma anche altro da essa. È proprio questo il nucleo strutturale di quello che sarà l’attualismo gentiliano: l’assoluta e insuperabile presenza del pensato al pensare è la non separabilità del primo dal secondo. Il dato è in realtà posto, la distinzione è distinguersi dell’unità originaria, nella propria processualità. Si problematizzerà questo assunto gentiliano; per ora si noti come la trascendenza dell’essere sul pensare è da respingere se intesa in un senso puramente intellettualistico, è da mantenere se la si intende come irriducibilità dell’orizzonte originario, nel quale il divenire dello spirito si radica, senza ridurlo a sé. Gentile passa dalla critica (corretta) ad un intellettualismo astratto, al ridurre l’essere al pensabile, facendo coincidere la realtà con l’autocoscienza.

Ad ogni modo, nel Galluppi il soggetto coglie l’oggetto come esterno rispetto ad esso, non riducibile cioè all’attività conoscitiva.

Senso ed oggetto, sia che si tratti di senso intimo o di senso esterno, non si possono scompagnare. Il senso è la misura adeguata e sicura della realtà, comecché il dato del senso debba poi venire elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle idee e ai giudizi. Il senso costituisce per le idee e i giudizi cui dà luogo, l’esperienza primitiva o immediata; immediata rispetto all’oggetto in cui s’appunta immediatamente nella intuizione […] Per dire la proposizione generale: l’acqua estingue la sete, io devo, in seguito alle successive esperienze delle varie acque che m’hanno estinto la sete, comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque, e le azioni loro di estinguer la sete; il che significa che lo spirito dee vedere un rapporto d’identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari qualità; rapporto d’identità che il senso non mi

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può fornire; perché esso non mi dà che successivamente le singole acque 21.

Puramente soggettiva è la sintesi ideale; essa non si delinea ancora, però, come prodursi stesso del reale (come identità, vale a dire, tra ideale e reale), bensì come costituirsi di un termine (l’ideale, appunto), distinto dalla realtà stessa.

«La distinzione delle due esperienze, egli dice, è della più alta importanza, per determinare il valore delle nostre conoscenze». È della più alta importanza, perché se i rapporti di sintesi ideale nell’esperienza derivata sono soggettivi, quelli di sintesi reale nell’altra esperienza sono essenzialmente oggettivi; in questa esistenza (primitiva) «l’esistenze sono date allo spirito: egli ne è spettatore e non conoscitore: una connessione fra l’esistenze gli è anche data: egli dee conoscerla, non ispiegarla o comprenderla»22.

Il rapporto d’identità che lo spirito coglie, e che non mi è dato dal senso, bensì dall’attività conoscitiva, ha il proprio fondamento nell’intuito immediato dell’oggetto esterno al pensiero. Lì è il vero concreto, e non nelle categorie dell’io, che sono, per il filosofo di Tropea, riflesso della realtà (sintesi reale), o costituirsi di una necessità con valenza gnoseologica e non ontologica. Ad essere sempre soggettiva è quindi la scienza, non il reale che della scientificità è la radice.

La scienza, la parte più certa della conoscenza, è soggettiva; e la conoscenza sensibile è di sua natura oggettiva; che, per lui, è come dire che la scienza è rosa dal tarlo dello scetticismo, laddove l’esperienza sensibile è certa e reale. Le conoscenze necessarie ed universali, che sono il perno di ogni specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze contingenti e particolari sono reali23 .

Ed è qui che, agli occhi di Gentile, il pensiero del filosofo entra in una serie di aporie: esso non riconosce, vale a dire, l’identità di logica e metafisica, e riducendo le leggi del pensare a categorie puramente mentali, si preclude l’accesso al mondo nella sua articolazione e sviluppo. Un universale distinto dal contingente si delegittima come tale, abbassandosi cioè a contingente (in quanto svuotato, cioè, dell’assolutezza), e rendendo vano qualsiasi tentativo di comprensione della fenomenicità. L’universale, questo ci suggerisce Gentile, è l’essenzialità stessa del tutto, senza la quale il singolo stesso si rivela irraggiungibile. L’errore abissale di Galluppi, in estrema sintesi, sarebbe questo: fondare il mondo come immanente al processo conoscitivo (vale a dire al

21

G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, op. cit., p.241.

22 Ibidem. 23 Ivi, p. 243.

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soggetto), ma trascendente nella propria oggettività.

Infatti ammessa giustamente come soggettiva l’origine della nozione che abbiamo della connessione reale delle cose (come sostanza o come causa, sussistenza, egli dice per lo più, ed efficienza), il valore oggettivo delle medesime non può essere e non è infatti nel Galluppi, che una semplice affermazione dogmatica24.

In realtà, se Gentile ha ragione nell’affermare la radice soggettiva di ogni nostra conoscenza, non per questo il soggetto è in sé legittimato ad elevarsi ad assoluto; l’oggettività, che Galluppi difende in una modalità ancora intellettualistica (come realtà colta in sé, per poi riflettersi nello spirito), può essere re-introdotta come oggettività del

pensiero, come apertura dell’orizzonte fondativo dell’autocoscienza, orizzonte che,

indubbiamente, mai è afferrabile indipendentemente dal pensiero, ma non per questo è ad esso interamente ricondotto.

a 2 Il sentimento fondamentale nel Rosmini e il superamento dell’intuito

Poste queste basi, ed essendoci dedicati all’opera che più esplicitamente e approfonditamente tratta il pensiero di Galluppi, possiamo tornare al Rosmini e Gioberti del 1897. Qui il sistema del filosofo di Tropea mostrava la propria inferiorità rispetto a quello rosminiano, il cui merito principale è quello di superare la distinzione tra necessità ideale e reale. Rosmini, proprio come Galluppi, avverte l’esigenza di ridiscutere le basi del kantismo, superandone il soggettivismo e quindi lo scetticismo. Ma in tale tentativo di oltrepassamento non riesce a svincolarsi, secondo il parere di Gentile, dai pilastri della filosofia di Kant.

La necessità è un rapporto, osserva benissimo il Rosmini; un rapporto che noi percepiamo tra l’essenza (il contenuto dell’idea) di una cosa e il rapporto non è nulla fuori dalla mente 25.

La relazione tra necessità logica e metafisica ricade nella logicità stessa, come coincidente con la metafisica. Designare la struttura dell’essere come sempre presente al pensare significa evidenziarne la non eccedenza, il proprio essere riassorbita dall’attività del soggetto. Il pensiero dell’essere è l’essere del pensare, e alcunché è dato oltre l’attività di auto-esplicazione della soggettività. Questa la tesi di Gentile, intravista dal pensatore roveretano, per poi essere celata da istanze ed esigenze di segno opposto. Ed esigenza di Rosmini è il fondare come oggettiva (e quindi non soggettiva) la forma

24 Ivi, p. 244.

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unica della conoscenza: l’essere. Tale è l’unica categoria essenziale al processo conoscitivo, ed esercitata sui dati del senso: ricostruzione questa, nella prospettiva di Gentile, schiettamente kantiana. Rosmini si discosta dal pensatore tedesco, nel sostenere l’unicità della categoria della possibilità (o essere); le restanti, nella ricostruzione del roveretano, vengono ad essa ricondotte. Errore di Rosmini, osserva il pensatore siciliano, è qui considerare le funzioni dell’intelletto alla stregua di concetti. Ridurre è infatti riconoscere nelle categorie un contenuto determinato, un quid che finisce per contraddistinguerle, e dal quale risaliamo all’unità della funzione. In altri termini, si giunge così a considerare come pensato ciò che è anche fondamento dell’attività pensante; il roveretano confonde le idee a priori con idee innate, le quali «erano preformazioni, le forme kantiane sono funzioni» 26.

L’intuito dell’essere si palesa come il fondamento dell’attività conoscitiva stessa; non è l’essere un conosciuto, benché condizione della conoscenza, la quale, come già aveva colto Spaventa, «è l’unità come fare, fare se stesso. Il fare o farsi trascende il fatto: è la ragione, l’idea, la spiegazione del fatto»27. Il sapere è necessariamente al di là, e quindi irriducibile, al saputo; l’atto, in quanto unità nel proprio differenziarsi, è non limitabile al factum. Ed è tale unità, pilastro della teoria gnoseologica kantiana, il fulcro della formulazione rosminiana. L’io penso kantiano, il quale «come attività unificatrice, movendo da sé cioè spontaneamente, apprendeva il molteplice dell’intuizione e lo riduceva a se stesso» 28 ha un corrispettivo nel sentimento fondamentale di Rosmini.

Nel nostro fondamentale sentimento esistono tutte queste potenze aventi la loro espressione, cioè la sensitività e l’intelletto. Questo sentimento intimo e perfettamente uno unisce la sensitività e l’intelletto. Egli ha altresì un’attività, quasi direi una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto; questa attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva. Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dall’unità intima del sentimento fondamentale, in quanto cioè Io è atto a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione. E se la riguardiamo sotto il rispetto dell’unione che ella fa d’un predicato con un soggetto, ella prende il nome di facoltà di giudicare. La sintesi primitiva è quel giudizio col quale la ragione acquista la percezione intellettiva29.

Essenza del conoscere è quindi l’unità sintetica originaria di categoria e

26 Ivi, p. 177.

27 B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, op. cit., p. 1315. 28

Ivi, p. 1317.

29 A. ROSMINI, Nuovo saggio sull’origine delle idee, estratti ed introduzione a cura di G. PUSINERI,

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intuizione sensibile; la materia è in-formata, e in ciò consiste l’auto-esplicarsi dell’attività gnoseologica. L’idea dell’essere (unica categoria, come già visto) è applicata al materiale sensibile, estrinsecamente secondo Spaventa, mentre Gentile si discosta da tale posizione. Se per il pensatore abruzzese, infatti, «il conoscere è l’unione di due opposti già dati»30, il filosofo siciliano insiste sulla non pre-esistenza di categoria e senso rispetto all’unità nel proprio svilupparsi; e ribadire questa tesi significa discutere criticamente l’intuito rosminiano, ovvero il punto che a noi maggiormente interessa.

L’intuito implica una conoscenza immediata dell’oggetto. Il vero è un’alterità trascendente, che io colgo identificandola col Me; più chiaramente, la identifico nell’atto conoscitivo che, nonostante ciò, permane distinto da essa. Scriveva Jaja in una memoria del 1894:

Intuito suona cognizione diretta o visione. […] L’atto del sapere esige che siavi qualche cosa, sopra il cui il sapere cada. La cosa, checchessia, è; e allora il pensiero incomincia l’opera sua, che si dispiega per la scienza nei secoli, e che consiste nel rendersi conto di ciò, che quello, che gli sta dinnanzi, è. La cosa, con questo proprio valor suo, è appunto l’oggetto. L’oggetto non viene mai meno nel pensiero. Può variare quanto si vuole; ma un oggetto, checchessia in quanto oggetto, l’oggetto, non può mai sparire davanti al pensiero31.

Intuire è porsi dinnanzi all’oggettualità, presupposta come altra. La realtà originariamente esiste, e posteriormente può essere pensata in atto. La differenza è non immanente, bensì estrinseca all’oggetto, riducendo la comprensione all’analisi dei fatti, astratti dall’unità viva che ne è la radice.

Fatti, storia, esposizione limpida e netta degli altrui tentativi nella ricerca delle ragioni della vita, sì, e noi reputiamo che sono e debbono essere gl’ineluttabili di ogni ricerca speculativa; ma i fatti e la storia, se sono realtà, non sono tutta realtà perché i fatti e i prodotti che la storia registra sono il passato, mentre è pur parte vera ed integrante del pensiero ricercatore l’anelito all’avvenire, il quale avvenire non è che il passato ed il presente che non soddisfano32.

Tale è l’errore abissale della tradizione filosofica nella sua quasi totalità: l’aver

30

B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, op. cit., p. 1325.

31 D. JAJA, L’intuito nella conoscenza, tipografia della regia università, Napoli 1894, p. 20. Per quanto

riguarda la relazione tra Gentile e Jaja si veda: D. SPANIO, L’essere e il circolo. Spaventa, Jaja, Gentile, «Annali dell’istituto italiano per gli studi storici», XV, 1998, pp. 404-544. A. SAVORELLI, Gentile e Jaja, «Giornale critico della filosofia italiana, LXXI (LXXI), 1995, PP. 42-64; A. PASSONI, Donato Jaja nella formazione di Giovanni Gentile. Il problema del metodo tra critica gnoseologica e deduzione metafisica, «Rivista di storia della filosofia», n.2, 2000, pp. 205-228.

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colto il reale unicamente come dato al quale attenersi, come factum nel quale estinguere l’universale sete di conoscenza, come immobilità morta che allontana da sé lo slancio vitale del pensiero. In altri termini, vi è intuito dove è implicata trascendenza dell’essere rispetto al pensare; ed è a partire da tale trascendenza che Rosmini intende fondare l’oggettività dell’Essere, in contrasto con la visione soggettivistica e quindi scettica kantiana.

Ora, dall’istante che il Kant ci dice che noi non siamo certi che dei fenomeni; che gli oggetti dei nostri pensieri emanano, rispetto alla forma, dal nostro spirito limitato; che noi non abbiamo neppure l’idea delle cose che hanno un’esistenza in sé e non in noi, cioè dei noumeni; che non sappiamo se sieno possibili; egli ci involge in un idealismo così universale, in una illusione soggettiva così profonda, ci rinserra un tal cerchio di sogni, da cui non ci è mai dato di trascendere per aggiungere a qualche realtà; non rende, per vero, incerto l’uomo di ciò che sa, e per questo non si potrà dire scettico, ma lo dichiara di qualunque sapere incapace: e rendendo impossibile ed assurda ogni vera cognizione de’ reali, produce uno scetticismo assai più tristo del comune; è lo scetticismo perfezionato, consumato sotto il nome di criticismo. Così s’annulla la umanità stessa, che solo pel conoscere esiste, e si compie l’opera della filosofia moderna33.

La gnoseologia kantiana riduce quindi il conosciuto a fenomenicità, ad oggetto

per l’altro. Nega, vale a dire, la conoscibilità dell’in sé, delimitandolo alla

manifestatività del soggetto. La realtà si rivela inaccessibile, oceano nel quale non è possibile in alcun modo bagnarsi; non è possibile liberarsi dalla rete della soggettività, ma si è destinati a rimanerne intrappolati, scorgendo l’alterità nel suo essere inattingibile. È per tentare di evitare ciò, evitando la reductio della comprensibilità del mondo a soggettività (e quindi scetticismo), che Rosmini ricorre all’idea dell’essere; «consentire alla soggettività dell’elemento a priori della conoscenza umana, significava evidentemente riammettere proprio quelle conseguenze scettiche e nichilistiche che, contrastando aspramente il sensismo, si volevano evitare»34.

L’esse è l’altro a fondamento di ogni processo conoscitivo, è il trascendente non limitabile all’immanente auto-comprendersi del soggetto. Questa è l’esigenza rosminiana; diversa ne è, agli occhi di Gentile, la realizzazione. Diversa, poiché la nozione di intuito è in sé contraddittoria, implicando opposizione, ma anche relazione; l’oggetto, intendiamoci, è sempre in riferimento al soggetto che lo considera come tale.

33

A. ROSMINI, Nuovo saggio sull’origine delle idee, op. cit., pp. 110-111.

34 D. SPANIO, Idealismo e metafisica. Coscienza, realtà e divenire nell’attualismo di Giovanni Gentile,

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L’intuito è il vedere, l’atto che è trasceso dal visto, il quale non è in alcun modo disgiungibile dall’essere posto come tale.

Dalla stessa analisi che s’è fatta dell’intuito, apparisce evidente, ci pare, ch’esso è intrinsecamente un assurdo. Esso infatti significherebbe una opposizione pura con relazione immediata degli opposti; una opposizione pura, che per rimanere davvero pura, non potrebbe concepirsi se non come identità; laddove la identità, come necessaria identità, proverebbe che l’opposizione non è possibile, almeno come pura opposizione35.

L’opposizione (base dell’intuito) è negata nell’atto stesso di affermarla: A e B, in quanto opposti, sono pur unificati dall’opposizione che dovrebbe opporli. Non solo, l’immediatezza finisce per risolversi nella negazione della conoscenza stessa, e della distinzione che è ad essa essenziale. Scrive Schinaia:

Insomma, opposizione pura ed assoluta non può che significare l’identità tra soggetto e oggetto, in quanto l’uno apprende l’altro in maniera intuitiva, immediata. A rigore, non si dovrebbe nemmeno parlare di apprensione dell’oggetto, da parte del soggetto, e di azione dell’oggetto sul soggetto, altrimenti l’immediatezza non sarebbe veramente tale. Si dovrebbe dire che da sempre soggetto e oggetto sono identici, come nella visione da sempre è impossibile separare il vedente dal veduto36.

L’identità, nella conoscenza puramente immediata, finisce per rivelarsi vuota, spogliata della differenziazione medesima. Il postulare una movimento dal soggetto all’oggetto (o viceversa), nei termini di un’apprensione, equivale alla negazione dell’opposizione stessa che, per mantenersi tale, non può che presupporre membri assolutamente irrelati; affermare questi ultimi significa però negare la possibilità stessa della conoscenza, che implica relazione tra conoscente e conosciuto, e quindi la loro unità. L’assurdo dell’intuito è quindi affermare l’essere come trascendente, per poi considerarlo inevitabilmente come immanente. In tale assurdità cade lo stesso Rosmini, nel fondare l’essere come intuito, per poi coglierlo come separato solo astrattamente dall’attività conoscitiva37. Scrive Gentile, interpretando Rosmini:

l’unità precede gli opposti, né si distrugge con essi, poiché gli opposti, in cui si risolve, non sono pura opposizione, ma sintesi necessaria. L’applicazione della

35 G. GENTILE, Rosmini e Gioberti, op. cit., p. 195.

36 A. SCHINAIA, L’interpretazione gentiliana di Kant nel Rosmini e Gioberti e la prima formazione dell’attualismo, «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici, VI (1979/1980), Napoli 1983, pp. 175-239.

37

In realtà, come si noterà nel corso di questo lavoro, il tentativo gentiliano di fondare la distinzione immanentemente all’unità si rivela fallimentare, risolvendosi in un’identità in sé impossibilitata a rendere ragione del movimento.

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categoria alla sensazione non ci pare, come diceva lo Spaventa, una faccenda tutta meccanica, poiché il Rosmini pone esplicitamente, come abbiamo visto, quell’unità originaria dello spirito (nel sentimento fondamentale)38.

L’unità è quindi l’orizzonte all’interno del quale gli opposti traggono la linfa della loro esistenza; essa non è giustapposizione posteriore all’apparire degli opposti stessi, bensì condizione del loro essere. Poste queste premesse, la priorità dell’essere sull’attività conoscitiva si configura in modo paradossale: l’esse, infatti, è non separabile dalla processualità della soggettività. Per spiegarci meglio, è distinguibile solo astrattamente e non concretamente; la dualità è esclusivamente apparente, essendo in realtà ricondotta all’unità nel proprio dualizzarsi.

La dualità non si può pensare che nell’identità, poiché una dualità priva di qualsiasi nesso (e nesso significa unità, identità, se non si vuole andare ricercando all’infinito il nesso del nesso), una dualità cioè assolutamente irrelata, sparisce come dualità39.

Qui troviamo il nucleo di quella che sarà, negli anni, la posizione gentiliana: l’uno non è una datità estrinsecamente raggiunta, sintetizzando termini opposti, bensì è il realizzarsi dell’attività originaria, che fonda in sé la dualità stessa. Se in una visione classica, l’oggetto è trascendente al soggetto, la verità al pensiero, nella prospettiva gentiliana l’oggetto è auto-determinarsi della soggettività, è il risultare non fissato in alcun risultato. L’io pone se stesso, e nel farlo oppone a sé il proprio opposto. Non vi è trascendenza, se non nel risolversi nell’immanenza, palesandosi come alterità del (nel) Medesimo. Così scriveva Jaja, maestro ed ispiratore del filosofo siciliano:

unità, unità vera e perfetta, che include la molteplicità, la differenza, la negazione, insomma (chiamiamo noi le cose col loro nome) il non essere, la contraddizione dell’essere, e nondimeno appunto perché negazione entro sé stessa, unità compiuta e perfetta40.

Il differenziarsi è quindi immanente all’esplicazione del soggettività, è il suo stesso porsi come includente in sé la propria negazione; l’altro non è a me opposto, ma è invece il distinguersi dell’indistinto, il concretizzarsi dell’identità, che non è più identità vuota. Scrive correttamente Davide Spanio:

conoscere significa dar luogo a uno sviluppo, a un passaggio da termine all’altro necessariamente differenti tra loro, vuol

38 Ivi, p. 191. 39

A. SCHINAIA, L’interpretazione gentiliana di Kant nel Rosmini e Gioberti e la prima formazione dell’attualismo, art. cit., p. 182.

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dire il lacerarsi della tautologica e analitica identità con sé del conoscente e l’irrompere della differenza del conosciuto, e tuttavia è chiaro che l’avvento dell’altro da sé, se non vuole ridursi alla sostituzione di una tautologia (il soggetto) con un’altra (l’oggetto), implica la permanenza dello stesso, con il quale la cosa conosciuta stabilisce «quasi un incontro o un contatto». Conoscere, pertanto, significa andare incontro all’altro da sé, ma senza dimenticare se stessi 41.

La coscienza si articola, si determina, non perdendosi nell’oceano delle determinazioni, sta nel non essere mai definitivamente data, diviene autoconservandosi come tale. Il soggetto gentiliano, per come viene a delinearsi già nella tesi di laurea, è il farsi dell’immutabile, il distinguersi del Vero, il permanere nella mutevolezza. La lezione jajana (e ancor prima quella spaventiana) porta il filosofo siciliano a discostarsi da una spiegazione meccanicistica della conoscenza: il comprendere è mediarsi, negarsi dell’immediato. Già pensare l’immediato come tale è toglierlo nella propria assolutezza, equivale a riassorbirlo nella dinamica della conoscenza. L’io non è «uno spettatore essenzialmente estraneo alle vicende rappresentate sulla scena del mondo» 42, bensì l’essere attore sul palcoscenico dell’esistenza; è il rapportarsi non ad un altro eccedente, ma a se stesso nel porsi come alterità. Già qui troviamo in embrione quella che sarà la tesi principale del nostro lavoro: la trascendenza dell’altro si riduce, in Gentile, al trascendersi del medesimo nell’altro. Trascendersi che non è un prendere le distanze da sé, ma il riconoscere se stessi in una sintesi sempre nuova ed ulteriore.

Rosmini avverte tutto ciò, per poi ritrarsi nel fondare l’intuito dell’essere, nel quale il maestro Jaja scorgeva una differenza centrale rispetto al kantismo. Così scrive in una lettera a Gentile del 16 settembre 1897:

ora il Rosmini, non di passata ed incidentalmente o timidamente, ma di proposito parla d’intuito di codesto essere, tanto che nel N. Saggio e nella Teosofia gli dà il valore di senso intellettuale mentre il Kant, che in ciò l’ha anteceduto, leva recisamente di mezzo ogni intuito mentale, e parla sì d’intuizione, ma d’intuizione che è sensibile, la corporea visione, e si eleva tutt’al più alle intuizioni pure del tempo e dello spazio, gradazioni interne però e condizioni delle intuizioni sensibili o sensazioni 43.

L’intuito rosminiano verrebbe a delinearsi come conoscenza immediata dell’essere, come atto reale di coglimento di un oggetto altro, non riducibile alla mera intuizione sensibile. Il maestro pisano avverte una tensione intrinseca all’intuizione di

41

D. SPANIO, Idealismo e metafisica, op. cit., p. 156.

42 Ivi, pp. 156-157.

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Rosmini, che pur continua a sussistere come visione estrinseca dell’essere. Così viene rimproverato il suo discepolo:

tu, visto che l’elemento costitutivo della percezione intellettiva è l’idea dell’essere, e visto che il Rosmini chiama oggetto d’intuito codesta idea, per amore di logico rigore ti sei indotto ad affermare, che dunque l’intuito rosminiano ha il valore di essere produttivo, non di essere, ciò che la parola suona, una visione dell’essere, e perciò di dare l’essere come estraneo all’intelletto. Adagio, caro Gentile. Se si ragiona a filo di logica, hai ragione tu; se a filo di storica verità, non hai in tutto ragione. L’intuito, non ci è verso è intuito, cioè visione, e la visione ha fuori di sé quello che per essa si vede44.

Gentile scorgerebbe quindi la contraddittorietà intrinseca al sistema rosminiano, finendo però per sovrapporre comprensione critica e analisi storica. Nelle riflessioni del roveretano viene ad emergere una conflittualità interna, un polemos irrisolto, un contrasto tra esigenze di trascendenza e oggettività da un lato, e formulazioni ancorate al criticismo kantiano dall’altro.

L’intuito, è vero, è un senso (l’antico, neanche quello che abbiamo analizzato noi l’anno scorso e quest’anno), non corporeo, ma intellettuale. E nondimeno è vero quello che tu hai benissimo scorto nell’intimo valore di quest’intuito, cioè che più che visione di ciò che è estraneo alla mente intuente, esprime o vorrebbe esprimere una produttività sua, esprime o vorrebbe esprimere non passività mentale (già il Rosmini ha finalmente osservato, che non havvi mai pura passività), ma l’atto mentale causa dell’essere (tu non ti spingi a dire così, ma è proprio così), di cui l’intuito si mostra rivelazione […] Il vero è, che nel Rosmini, nella sua storica posizione, ci sono tutti e due i modi opposti d’intendere l’intuito dell’essere. Tutti e due, caro Gentile. Sarà contraddizione codesta, ed è sicuramente; ma tocca a Rosmini, e non a chi l’interpreta, risponderne innanzi al tribunale inflessibile della logica45.

La teoria del Rosmini è edificata su tali instabili pilastri; il terreno argilloso impedisce un’assoluta coerenza del tutto. L’aporeticità sta nel non avvedersi come la visione estrinseca dell’essere non possa che essere assorbita dall’attività dell’auto-porsi del soggetto. La differenza (ribadita dal filosofo trentino come tale) è destinata ad essere ricondotta all’atto sintetico dell’Io. Rosmini distingue, e nel fare ciò non sbaglia; erra, però, nel non fondare la differenziazione all’interno dell’actus della soggettività, immanentemente all’unità che ospita in sé la dualità. Ed in realtà non si discosta da ciò Gentile, che infatti ribatte:

io non ho pensato di dire e sostenere che Rosmini non

44 Ibidem. 45 Ivi, p. 29.

(26)

volesse porre l’oggetto fuori dal soggetto ed estraneo ad esso: ché in tal caso avrei davvero sostenuta una cosa contraria alla storica verità, la quale so bene che si deve rispettare così come si trova, anche se contraddittoria. Ma volli soltanto affermare, criticando per tal modo la falsa, anzi illusoria posizione del Rosmini, che l’intuito nella sua teoria era una parola vuota perché lo si doveva definire e lo si definiva con tali caratteri che non poteva più significare visione, e però opposizione di soggetto e oggetto. Perché? Ella ha ricordato la parola dell’autore da me rilevata: perché l’oggetto è divenuto costitutivo del soggetto; perché senza l’idea dell’essere, non v’ha intelletto; perché s’è scoperto dal Rosmini questo fatto, che essere ed intelletto sono fra loro necessariamente legati per modo che la loro relazione è essenziale a ciascuno dei due termini46.

L’assurdità dell’intuito sta nella dualità che esso implica, pur ponendo ogni termine essenziale all’altro; esso pretende, vale a dire, la dicotomia soggetto-oggetto, ma finisce per risolverla, realiter, in un identità in sé stratificata (e quindi differenziata). La riflessione è non separabile dall’intuizione mentale stessa, anzi è il terreno sul quale essa può edificarsi. In altri termini: se ad essere originario è il sentimento fondamentale, e l’essere appare esclusivamente all’interno di esso, non si comprende come poi possa trascenderlo, esserne distinto. La strategia gentiliana, come già si è accennato, è chiara: la presenza irrinunciabile dell’essere al pensare è l’identificarsi dell’essere col pensare medesimo. Rosmini si contraddice: avverte l’immanenza dell’essere, ma lo pone ancora come trascendente.

Per questo atto misterioso della mente – atto contraddittorio, che presuppone la mente all’atto che la deve formare – l’essere è fuori, ma è anche dentro della mente. V’è dentro come un lume pe’ suoi raggi (la cara immagine degli scolastici, tornata in onore col rosminianismo, che per questo rispetto si scambia con una forma di rinnovata scolastica): lume che è fuori, per se stesso, dalla mente, ma vi proietta su la luce, che è la conoscibilità delle cose, la forma dell’intelletto47.

Porre l’essere come dentro, ma come dentro che è fuori, significa non avvedersi che qualsiasi esteriorità non può che essere ricondotta all’atto del soggetto, nella sua immanenza. Quell’oltre, dal quale scaturisce l’intellegibilità dell’esistente, è non più

oltre, già nel semplice porlo come tale. La trascendenza dell’essere è negata

nell’affermarla, l’infinitamente al di là è riunificato nel contemplarlo; la theoria si configura come praxis, la datità è ricondotta al farsi. Già Jaja aveva insistito su questo punto:

46 Ivi, p. 45.

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